30 aprile 2008

Ho letto e consiglio

Giovanni Guareschi: Baffo racconta

Il più incompreso e vilipeso dei narratori del primo dopoguerra. Gli ha reso giustizia e fama la versione cinematografica del Don Camillo, ma il novelliere resta misconosciuto. Questa raccolta è postuma e piacevolissima da leggere.

Orhan Pamuk: Il libro nero

Premio Nobel della letteratura per il 2006. Dopo l'assegnazione a Dario Fo vale uno sconsiglio, ma qui siamo davanti ad un capolavoro. Occorre tanta predisposizione ad accettare una cultura diversa dalla nostra, ma, calatisi nelle atmosfere della trama, si rimane affascinati e conquistati da questo possente e fantasioso narratore.

Gianfranco Ravasi: Interpretare la Bibbia

L'A. è un dotto e piacevolissimo affabulatore. L'accostamento al libro sacro ed alcune chiavi di interpretazione teologica ne rendono assolutamente suggeribile la lettura.

Andrea Vitali: La modista

Gli amici sanno che ho una predilizione per questo solido artigiano delle lettere. Anche quest'opera, forse non delle migliori, ha spunti godibilissimi ed una trama sempre accattivante.

Bernardo Caprotti: Falce e carrello

Il re dei supermercati italiani, ad oltre ottant'anni, si toglie molti sassolini dalla scarpa e racconta con rigore documentativo come Prodi e le Coop volessero espropriarlo della sua creatura. La sua ostinazione ed il suo orgoglio imprenditoriale gli hanno permesso di uscire vincitore da questa battaglia, fatta di colpi bassi e carte taroccate. Auguri di lunghissima vita!

Poeti: Umberto Saba

Contovello

Un uomo innaffia il suo campo. Poi scende
così erta dal monte una scaletta,
che pare, come avanza, il piede metta
nel vuoto. Il mare sterminato è sotto.

Ricompare. Si affanna ancora attorno
quel ritaglio di terra grigia, ingombra
di sterpi, a fiore del sasso. Seduto
all'osteria, bevo quest'aspro vino.

Poeti: Diego Valeri

I giorni, i mesi, gli anni

I giorni, i mesi, gli anni
dove mai sono andati?
Questo piccolo vento
che trema alla mia porta,
uno a uno, in silenzio,
se li è portati via.
Questo piccolo vento
foglia a foglia mi spoglia
dell'ultimo mio verde
già spento. E così sia.

29 aprile 2008

Clamoroso al Campidoglio

Ieri alle 17, ricordatomi che si ballottava a Roma, ho acceso Tg Sky.
Non credevo alle mie orecchie.
Alemanno si era bevuto Cicciobello e non per lo zero virgola ma per 100.000 voti, recuperando 9 punti percentuali rispetto al primo turno.
La rivincita dei tassinari, degli statali di ultimo ordine, dei borgatari, Primavalle in testa, non poteva essere più clamorosa e schiacciante.
Sconfiggere un sistema di potere è sempre un'impresa clamorosa. La misura dà un senso al commento del capataz Fini: abbiamo scritto la storia.
Aspetto dall'amico Giovanni la descrizione del sentiment. Solo chi ci vive ha la capacità di cogliere gli umori e gli odori di una città.
Io registro dei frammenti di analisi che vengono dagli sconfitti.
Gli sguardi di Bettini, che in quindici giorni è sceso dall'olimpo dei mammasantissima alla sagra degli obesi.
Rutelli che afferma che il voto è una reazione sbagliata ad un problema di sicurezza solo enfatizzato (chieda alle donne che sono state violentate da zingari ubriachi che enfasi si prova).
Lo stato maggiore del loft assente, rintronato, rincantucciato in attesa della vendetta del navigatore baffuto.
La notte da Vespa è comparso Fioroni, un pezzo da novanta del PD romano nonché riformatore della scuola italiana.
La sua analisi è stata kennediana, ma anche clintoniana.
Abbiamo perso a Roma? Rifletteremo. Ma intanto Berlusconi ci venga a spiegare perché è stato battuto nella roccaforte veneta di Vicenza.
Ragazzi, tranquilli.
Se dopo avere perso in una megalopoli di 3 milioni di abitanti governata da 17 anni ci si consola con Vicenza o Massa Carrara, significa che non solo si è alla canna del gas ma che i neuroni evaporano uno al secondo.
Con questi geni, temo che la destra governerà in Italia per almeno trent'anni.

28 aprile 2008

Hanno scritto (6)

Ogni Stato ha i rivoluzionari che si merita.

Palmiro Togliatti (1923)

Non sono mai le masse che fanno le rivoluzioni e a loro profitto; ma sono le classi di dominio che si servono anche delle masse, ove occorra, per fare le rivoluzioni.

Luigi Sturzo (1922)

27 aprile 2008

Il mondo arido, muto e senza Dio di Cormac McCarty

«Le cose sono ben più numerose delle parole […] dato che non abbiamo abbastanza nomi per assegnarne uno a ogni cosa» (Seneca, De beneficiis, 34, 2). E perciò chiamiamo «piede» sia quello che mi funziona poco da qualche tempo, sia quello del letto, sia quello del verso, etc...

È questa una verità che per lungo tempo ha fatto parte del patrimonio della cultura occidentale: la realtà è molto più ricca della sua rappresentazione concettuale. Almeno è stato così fino al Vico delle Institutiones Oratoriae, che fa eco a questo principio enunciato da Seneca, pur senza citarne espressamente la fonte.

Poi sono venuti illuminismo ed idealismo, con i loro derivati ideologici – primo fra tutti il marxismo in tutte le sue versioni –, che hanno cercato d’imprigionare la realtà in una sua rappresentazione, di ridurla a «idea della realtà», declinandola in forma utopica e assegnando alla Rivoluzione, cioè ai rivoluzionari e al partito che li organizza, il compito di ri-costruirla finalmente «libera dal male».

Quel che invece è accaduto è noto: la pretesa di ri-costruire il reale si è tradotta nella sua demolizione. E le macerie politiche, sociali, economiche, le distruzioni materiali e le innumerevoli vittime che le ideologie di derivazione illuministico-idealistica, i socialismi internazionalisti e nazionali, hanno lasciato dietro di sé nel XX secolo, ne sono l’inconfutabile prova.

Quelle ideologie dichiararono guerra a Dio e alla tradizione cristiana occidentale. Sono state davvero sconfitte? O, sviluppandosi, hanno solo cambiato pelle, come un virus che muta le sue caratteristiche e così resiste ai vaccini individuati per sconfiggerlo, e può perciò di nuovo attaccare l’uomo, con un morbo nuovo eppure antico? Nichilismo e relativismo sono questa «nuova pelle», con il conseguente e coerente egotismo «che ha come misura solo l’io e le sue voglie», e appaiono sempre più come fattori di una nuova devastazione, di una catastrofe, questa volta antropologica piuttosto che materiale.

Il romanziere americano Cormac McCarthy sembra percepire questa condizione apparentemente priva di umana speranza meglio di altri.

Egli l’ha già interpretata magistralmente nel suo Non è un paese per vecchi, dove, all’insensata e brutale violenza del nostro tempo spietato, fa da contrappunto la saggezza antica e «di destra», naturalmente religiosa, capace ancora di stupirsi per il male nel mondo e di ringraziare per il bene ricevuto da Dio sapendo di non meritarlo, dello sceriffo Ed Tom Bell. Al quale non sfugge l’ombra satanica che si stende sulla città moderna, sulla sua opacità, sui suoi vizi, sulle smanie distruttive e autodistruttive di una amoralità che ha nella droga la propria cifra.

Ma è ne La strada, il suo ultimo romanzo, premio Pulitzer 2007, che la percezione della disperata condizione umana contemporanea trova una forma espressiva che prende il lettore e gl’impedisce di staccarsi dalle pagine del libro prima di essere giunto alla fine.

Metafora del nostro tempo «arido, muto, senza dio», è un «dopo» che è già accaduto. Il mondo è morto: una terribile catastrofe (una guerra nucleare? un cataclisma?) – allusione alla catastrofe antropologica di cui ho appena detto – ha inaridito la terra, ha tolto trasparenza alle acque svuotandole di ogni forma di vita, depopolato il cielo, cancellato i colori ed ogni traccia della bellezza esteriore, ucciso tutti gli alberi; tra i sopravvissuti e il sole e il suolo, una patina di cenere, di pulviscolo volatile causato da incendi diffusi, che costringe ad indossare una mascherina e rende livido il panorama.

Fa freddo, molto freddo.

Tempo e spazio non hanno più nome, non sono più definibili.

Un uomo ed un bambino, senza nome e senza età, l’uomo ed il bambino, vagano come tanti alla ricerca di mezzi e luoghi di sopravvivenza. Sono padre e figlio. Ed il padre ha trovato nella protezione del figlio una vocazione e una missione, che gli ha consentito di non essere tentato dal suicidio e di trovare la forza per vivere e lottare: «Io ho il dovere di proteggerti. Dio mi ha assegnato questo compito». Il bambino è «l’unica cosa che lo separava dalla morte». La moglie, la madre del bambino, invece ha scelto il suicidio, non ha saputo amare, spaventata dal destino proprio e del figlio, la cui esistenza ritiene indegna di essere vissuta, e prima di uccidersi confessa che avrebbe ucciso anche il frutto delle sue viscere, per il suo bene, se lui, il padre, non gliel’avesse impedito con la sua semplice presenza.

In una natura ormai estranea e ostile, attraversando le rovine di una civiltà che per il suo progresso tecno-scientifico, per la grandiosità delle sue realizzazioni materiali, si è pensata come la rivincita su Dio dopo Babele, e che invece è ancora una volta vinta dalla «rivelazione finale della fragilità di ogni cosa», i due percorrono una strada, che è fatta di un groviglio di itinerari senza origine e anonimi. Continuano a camminare verso il mare alla ricerca di un improbabile tepore. Sono forti dell’amore purissimo che li lega e della tenerezza che ne scaturisce, armati di una pistola con solo due pallottole per difendersi dalle minacce mortali dei predoni – sopravvissuti come loro, che cercano e accumulano carne umana di cui nutrirsi, fino a procrearla apposta –, tra incontri simbolici e sorprendenti ritrovamenti delle risorse per vivere ancora, nutrirsi e proteggersi dal freddo, grazie ai legati della laboriosità e della capacità di conservare, di non consumare e dissipare tutto, di chi li ha preceduti.

Il bambino ha paura. È terrorizzato. Ma non smette di pensare al bene, al giusto, al vero. La bellezza sopravvive nella sua interiorità. Lui che è nato quando la catastrofe era già accaduta, che non ha mai visto un altro bambino e non ha mai conosciuto la convivenza ordinata, la convivenza fraterna, ha compassione per i vivi e per i morti, si pone il problema della moralità di ogni atto, sa e intende amare, pure in un mondo desolato e senza futuro. Convince il padre a donare parte del poco che hanno, a non privarsi per lui della misera razione giornaliera di energia. È buono, vuole semplicemente essere buono. «Siamo ancora noi i buoni. E lo saremo sempre». «Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato», pensa il padre, ed il bambino osserva sfarinarsi un fiocco di neve come «l’ultimo esercito della cristianità».

L’uomo stringe a sé il figlio, prova dolore per la sua magrezza ossuta, gli chiede scusa per le tremende e nefande brutture che non riesce ad evitargli di osservare, e quando il bambino gli chiede «noi non mangeremmo mai nessuno, vero? Neanche se stessimo morendo di fame?», gli risponde rassicurandolo «no. Certo che no». E la memoria del lettore corre al racconto di Solzenicyn, dei fuggiaschi dal GULag, che stremati e vinti dalla fame nel deserto della taiga siberiana pensano di uccidere il più debole del gruppo e nutrirsi delle sue carni, bere il suo sangue. Ma poi l’ultimo brandello d’umanità che il comunismo non aveva ancora loro strappato li convince che no, non possono essere come «gli altri», come i carnefici cekisti. Loro sono diversi, e certe cose non le fanno.

L’uomo, osservando gli scaffali ribaltati in mezzo alle rovine di una biblioteca incendiata, «prova un moto di rabbia di fronte a quelle migliaia di menzogne allineate rigo su rigo». Quella realtà futura, senza nome e senza luogo, dove «non c’è un dopo» perché «il dopo è già qui», somiglia sempre di più al nostro tempo, al nostro mondo, pure apparentemente intatto, vivo, caldo e colorato. Già qui e ora c’è qualcuno, o più di qualcuno, «che ha fatto del mondo una menzogna fino all’ultima parola».

Se una volta c’erano più cose che nomi, dopo la grande ed omicida menzogna del tentativo di ridurre il mondo alla sua idea, sembra che le cose non ci siano più, e che le parole siano persino troppe. Ma presto i nomi seguiranno le cose nell’oblio. La realtà sta sfuggendo all’uomo, come si andava estinguendo agli occhi del protagonista de La strada: «I nomi delle cose […] seguivano lentamente le cose stesse nell’oblio. I colori. I nomi degli uccelli. Le cose da mangiare. E infine i nomi di ciò in cui uno credeva. Più fragili di quanto avesse mai pensato. Quanto di tutto questo era già scomparso? Il sacro idioma privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà».

È davvero diversa la nostra condizione?

McCarthy ce ne offre una straordinaria metafora, che talvolta prende alla gola, ed un groppo sembra soffocarci.

Ma nel difetto apparente di speranza e cioè di storia, il bambino de La strada somiglia sempre di più al puer virgiliano, se non ad un altro Bambino. Il suo ingenuo amore per i vivi, per i morti e per quelli verranno, la sua irriducibile consapevolezza del bene e del male, la sua ferma volontà di rimanere tra i buoni, la sua convinzione – nonostante la paura di cui è preda e che mai lo abbandona – di cavarsela comunque, che non succederà loro nulla di male «perché noi portiamo il fuoco», aprono – ed è una sorpresa narrativa, perché tutto il clima del racconto è cinereo – uno spiraglio alla speranza, ad una nuova storia, che sarà scritta intorno al fuoco di quella speranza nutrita dalla verità e dall’amore.

È necessario perciò diventare come quel bambino, il bambino di McCarthy, nel quale, e gliene sono grato, è riconoscibile un altro bambino: «Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chi diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli» (Mt., 18, 2-4).

Giovanni Formicola, su L'Occidentale

26 aprile 2008

Il 25 Aprile ci ricorda che siamo stati tutti un po' fascisti

Per quali ragioni, ove si eccettui una ben caratterizzata area politica e culturale, la ricorrenza del 25 aprile non è popolare in Italia? Naturalmente la prima che viene in mente riguarda l’appropriazione della ricorrenza da parte della sinistra non liberale. Come ha scritto sul ‘Giornale’ del 24 aprile u.s. Massimo Teodori, - v. l’articolo L’esproprio proletario dell’antifascismo -. Meglio non si poteva spiegare un’operazione politico-culturale volta a ridurre la democrazia ad attributo dell’antifascismo, a identificare nel comunismo il nocciolo duro dell’antifascismo e quindi a rendere contraddittorio, per la democrazia, l’essere sia antifascista sia anticomunista. In tal modo, non è la democrazia che benedice l’antifascismo ma è l’antifascismo che legittima la democrazia nella misura in cui la seconda diventa consapevole del fatto che il cemento armato del primo — il suo momento più radicale e più coerente — è costituito dal comunismo. Il comunismo sta all’antifascismo come gli ordini mendicanti—domenicani, francescani--stanno alla Chiesa cattolica: non fanno parte della res publica cristiana i loro nemici.
Resta ancora da spiegare, tuttavia, perché lo ‘scippo’ simbolico sia riuscito al punto tale che per una gran parte dell’opinione pubblica italiana, antifascismo e Resistenza sono associati alla propaganda comunista o comunque sinistro-radicale e, pertanto, vengono considerati ‘cose loro’. Nel ’48 il Fronte popolare si diede come emblema Giuseppe Garibaldi eppure non per questo l’eroe dei Due Mondi, nell’immaginario collettivo, venne appiattito sulla falce e martello. Nel 1953, i monarchici esposero un manifesto con la scritta, che mostrava il gran Conte con la scheda elettorale dispiegata e la croce su ‘Stella e Corona’, eppure il massimo artefice dell’unità italiana rimase un monumento patriottico estraneo al mondo dei rissosi partiti degli onorevoli Alfredo Covelli e Achille Lauro, PNM e PMP.
Cosa dire allora? Che la Resistenza non è popolare perché, a ben guardare, non coinvolse ‘il popolo’? Che le masse siano rimaste alla finestra, a guardare, con un sentimento di trepidazione e di angoscia, la ‘guerra civile’, che si scatenò a nord di Roma dopo l’8 settembre, è un fatto innegabile, che può essere contestato solo da quanti credono che i duecentomilacinquecento partigiani iscritti, il 26 aprile 1946, nelle varie formazioni combattenti, abbiano combattuto per davvero e ignorano che molti hanno profuso il loro impegno nella ricerca di una camicia rossa che sostituisse quella nera. No, a rischiare la vita contro i tedeschi invasori furono pochi ma è quanto si verifica nella stragrande maggioranza degli eventi storici che hanno segnato un’epoca e rivoltato da cima e fondo una società. Fu una minoranza ad accorrere sotto le bandiere di George Washington, furono alcune migliaia gli studenti e i popolani arruolati nei vari eserciti di volontari che nel 1848 si costituirono in diverse regioni italiane. Sono sempre le ‘minoranze eroiche’ — per usare espressioni care ad Alfredo Oriani e a Piero Gobetti — a fare gli stati e le rivoluzioni e l’ottobre sovietico non fa certo eccezione. Sennonché, i ribelli nordamericani, i patrioti italiani, i soldati dell’anno II in Francia sono entrati nel Pantheon nazionale, diventando oggetto di culto anche per i discendenti di coloro che ‘non avevano preso parte’ agli eventi ‘fondatori’, e che, ‘sventurati’, avrebbero dovuto dire. Gli eroi sono tali in quanto merce rara e, come tale, onorata da tutti: come per gli apostoli e i profeti, la loro celebrazione avviene solo post mortem ma, in compenso, diventano un patrimonio spirituale collettivo, come la Torre di Pisa e il Colosseo.
Orbene, tornando all’antifascismo, sarà un caso che una nobilissima figura di antifascista come Duccio Galimberti sia conosciuta solo dai militanti di partito, dai cultori di storia e, naturalmente, dagli abitanti di Cuneo mentre il carabiniere Salvo D’Acquisto, che s’immolò per salvare la vita di ostaggi pronti ad essere fucilati dagli occupanti tedeschi, è conosciuto, se non da tutti gli italiani, per lo meno da un numero crescente di persone, la maggior parte delle quali non s’intende di storia né milita in un partito? Sarebbe riduttivo spiegare l’impopolarità dei ‘martiri’ dell’antifascismo con il loro apparire come un’élite severa e intransigente, disposta a sacrificare la vita in nome di un ideale - un’élite, quindi, ‘antipatica’ e minacciosa come l’ombra di Banquo per il populismo e per il qualunquismo sempre verdi nel nostro paese; il motivo dell’impopolarità in questione potrebbe trovarsi, invece, nei contenuti culturali e nei programmi politici di quella élite. Non vanno dimenticati il disegno, condiviso anche dalle correnti più moderate del Partito d’Azione, di voler rigenerare moralmente e intellettualmente gli italiani, la pedagogica iattanza che portava a considerare i propri connazionali ‘malati’ e corrotti da vent’anni di regime, l’ostinata rimozione di quel poco di buono — in termini di opere pubbliche e di Welfare State — che la dittatura aveva pur realizzato. Ce n’è quanto basta per creare una frattura insanabile tra il vissuto concreto della gente — con il suo carico di positivo e negativo — e l’immagine ufficiale che veniva data degli ‘anni neri’, totalmente ignara del chiaroscuro (v. la vulgata antifascista dei Quazza e dei Galante Garrone).
E tuttavia anche questa spiegazione lascia qualcosa in ombra. Quasi ovunque, la radicalità di un ‘progetto rivoluzionario’, in un primo tempo, genera la guerra civile ma, col passare delle generazioni, perde la sua carica divisiva. I versi della Marsigliese traboccano di sangue, di battaglie, di atroci vendette. In realtà, l’inadeguatezza non è iscritta nel DNA del liberalismo ma, ieri come oggi, nelle gravi carenze del sistema politico e della political culture italiana. Rendersene davvero conto comporterebbe la malinconica coscienza che il 25 aprile c’è ben poco da festeggiare giacché della malattia fascista siamo stati tutti responsabili!

Dino Cofrancesco, su L'Occidentale

Un 25 Aprile disastroso

Le secessioni incalzano: il buffone, i faziosi, i fischiatori. Tutti in piazza.

A Torino il trionfo del qualunquismo nella forma spettacolare e come al solito di grande successo della ciarlataneria, che fa ombra sulla cerimonia istituzionale, composta come in una bara su altra piazza, mentre echeggiano gli insulti al sindaco e al presidente della Repubblica. A Genova i fischi all’arcivescovo Angelo Bagnasco, un sereno uomo di chiesa travolto dall’intolleranza che si traveste da resistenza laica. A Milano polemiche belluine per l’assenza del sindaco Letizia Moratti, maltrattata la volta scorsa insieme con il padre invalido: con quella sciagura da Nobel della famiglia Fo-Rame in lacrime di disperazione per la vittoria di Berlusconi. A Roma i fischi toccano al deportato Piero Terracina, perché la comunità ebraica non sarebbe stata abbastanza vivace e ardente nell’opposizione alla candidatura di Gianni Alemanno. E su tutto l’oscena commistione di liturgia repubblicana e politica elettorale, tra nostalgie per il voto che non fu e inquiete premonizioni intorno al voto che sarà. Una secessione dietro l’altra, secessioni fatte in serie per la giornata della Liberazione. I dementi di sinistra che quindici anni fa hanno preso il posto delle tricoteuses mentre veniva abbattuta la Repubblica dei partiti, e hanno fatto la maglia sotto il patibolo su cui magistrati codini immolavano le classi dirigenti che avevano firmato la Costituzione, provocando valanghe di giustizialismo con argomenti alla Beppe Grillo, ora si lamentano per l’offesa alla memoria nazionale, per la trasformazione ineluttabile di una giornata di festa nazionale in un incubo di divisione nazionale. Occorreva difendere con sapienza una memoria, elaborandola come storia e purgandola delle sue asprezze, e invece piano piano il 25 aprile, tra un’aggressione e un’intimidazione, tra cento mistificazioni di bottega culturale ed elettorale, è stato ridotto a quello straccio che ieri s’è visto. Ciò che con il tempo doveva allargarsi a tutti gli italiani, compresi i leghisti e i fascisti, è stato sequestrato da pochi capifazione ed espulso dal cuore maggioritario del paese, indotto a diffidare di un calendario della patria al servizio di un vecchio ciarpame ideologico. I vecchi partiti avrebbero mediato nel pensiero e nel linguaggio, cercato una soluzione capace di senso universale della cittadinanza, e avrebbero censurato pretese e urla degli intolleranti. Ma in una nazione senza guida etica, senza forza culturale e politica, e per di più infestata dal rancore senza misura e senza significato, non poteva che finire così. Che peccato.

Giuliano Ferrara su il Foglio, del 26 Aprile 2008

25 aprile 2008

25 Aprile

Oggi è il 25 aprile.
Sessantatre anni fa ci (siamo) hanno liberati del nazifascismo.

dal blog Camillo, di Christian Rocca

Percezioni

È comprensibile che una batosta elettorale come quella subita dalla sinistra italiana possa annebbiare un po' la lucidità. Quando poi si scopre che una quota consistente del proprio elettorato è finita nel carniere di Umberto Bossi (ma non è che nel sud sia andata molto meglio) è davvero difficile farsene una ragione. È forse così che si spiega l'insistenza degli sconfitti nello spiegare che quella che ha tagliato loro le gambe è "la percezione dell'insicurezza", che avrebbe indotto l'elettorato popolare a scegliere chi vuole smantellare gli accampamenti illegali di rom e non chi li difende sostenendo i "diritti delle minoranze", come se fra questi fosse contemplato anche quello di rubare o di mandare i bambini a mendicare per la strada.
Spostare l'attenzione dai problemi della sicurezza alla loro "percezione" è un modo, per la verità non troppo convincente anche se un po' più raffinato, per dire che il popolo è bue, secondo la più radicata tradizione antidemocratica.
Quando il direttore di Liberazione dice che è stata l'eccessiva copertura televisiva delle notizie sulla criminalità diffusa a disorientare il suo elettorato di riferimento, ricorda le veline mussoliniane che probivano di dare troppo risalto alla cronaca nera. Eppure la "percezione" non è sempre stata considerata così negativamente. Per un paio d'anni, abbiamo dovuto sentire parlare dell'inflazione "percepita", naturalmente molto più elevata di quella registrata dalle statistiche, come base di riferimento per le rivendicazioni salariali. D'altra parte, il modo con il quale vengono percepiti i fenomeni sociali è da sempre un elemento basilare della politica.
Già che si occupano di percezioni, i dirigenti della sinistra sconfitta dovrebbere domandarsi come è stata percepita l'azione di partiti e movimenti che per due anni hanno continuato a mobilitare le piazze contro provvedimenti del governo di cui facevano parte e che poi, nell'esecutivo e nel Parlamento, gli oratori infiammati della domenica, approvavano regolarmente il lunedì.
Ci facciano sapere.

da Editoriali de Il Foglio, del 24 Aprile 2008

Banche, Banchieri e poteri forti

UniCredit svaluterà nella trimestrale un miliardo per subprime sparsi un po' ovunque nella galassia europea dell'impero. Intesa non se la passa meglio. Mps è ancora alle prese con una ricapitalizzazione importante per un'acquisizione nel nord-est che forse è meno strategica di quanto si voglia far credere.
La grande stampa finanziaria tratta questi affanni con la delicatezza di un piumino da cipria e con tanta, tanta amorevole comprensione.
In buona sostanza, fanno comprendere ai lettori: non facciamo confusione.
Mica sono problemi drammatici ed essenziali per il paese, come la diatriba Mazzotta-sindacati aziendali e lo sconvolgente stallo nella costruzione di una più democratica governance in Banca Popolare di Milano.

A proposito di conflitto di interesse

«Siamo diventati il secondo gruppo editoriale del paese con 55 milioni di lettori ed una quota di mercato pari al 24,4%», dichiara Francesco Gaetano Caltagirone. L'editore è anche un pezzo da novanta nel mondo delle banche ove coltiva incarichi ed alleanze bipartisan con Generali-Mediobanca e con Monte Paschi-Antonveneta.
Apprezzabile ed ammirevole successo di un uomo che ha saputo costruire con acume ed audacia imprenditoriale la sua posizione di rilievo.
Bravo come il Berlusconi, casi di italiani che conquistano le vette senza la protezione affettuosa delle grandi famiglie sabaude o milanesi.
Per non essere da meno, il Caltagirone coltiva sagacemente le proprie sponde politiche usando come leva l'azione del Cucciolotto Casini, in secondo letto marito della figlia Azzurra.
A differenza dei terribili conflitti di interesse del Cavaliere, di quelli del Cucciolotto, in politica da quarant'anni, già ministro, già vice-presidente del Consiglio, già colonna portante del centro-destra, nessuno parla. Tanto meno la stampa, sia quella borghese radical chic di Via Solferino e di Largo Fochetti che quella di proprietà del suocero.
Forse è vero quello che hanno intuito gli italiani alle urne in aprile.
Mettilo dove vuoi, Casini non confligge poiché conta zero.
È solo una bella presenza.

Il Mayor de Roma

Domenica e lunedì i romani si eserciteranno nel ballottaggio per il loro Mayor fra Rutelli ed Alemanno.
Il primo è un bollito della politica nazionale che ambisce tornare ad occupare la sedia del Campidoglio per fare finta di essere ancora vivo ed importante, l'altro non ha nemmeno fatto in tempo ad indossare i pantaloni alla zuava nel giro che conta.
Non invidio i cittadini della Capitale che, alle prese con i drammatici problemi delle grandi metropoli italiane (delinquenza, sporcizia, rom assortiti, periferie degradate), per di più si devono reggere sulle spalle il carrozzone delle istituzioni.
Alle ultime battute, il confronto fra questi due nani si è ormai spostato sull'eccitante tema della rivincita della sinistra contro il mandiamo anche ciccio bello in Africa.
Epico, storico... molto meditterraneo.
Resuscitando l'esortazione di Bettino Craxi, e se i Romani orgogliosamente decidessero di passare il fine settimana al mare?

22 aprile 2008

Era campagna elettorale "al 180%"

«Riguardo Ronaldinho la situazione resta invariata rispetto a quella di ieri. Non so se l'affare si concluderà. Noi le operazioni di mercato le facciamo alle condizioni che riteniamo opportune: se queste ci saranno bene, altrimenti si cambia obiettivo. Ormai sono tanti anni che faccio mercato e non c'è niente di nuovo e di strano. Shevchenko? Siamo ancora nel corso del mese di aprile, non si può parlare di mercato da gennaio fino a settembre».

(stralciato dalla quotidiana intervista di Adriano Galliani, dal sito AcMilan.com)

I deliri del pelato (4)

«Sono vecchio, brutto e pelato eppure, se desidero conquistare una donna, la mia forza è la concentrazione. È così che mi gioco la partita».

(stralciato da un'intervista di Adriano Galliani a Panorama)

21 aprile 2008

Ecco come va affrontata "l'altra casta", quella dei sindacati

Il governo Berlusconi – al pari di tutte le compagini di centro destra - ha un problema visibile con i sindacati. Deve scoprire al più presto quale sarà la linea di condotta delle grandi confederazioni dei lavoratori e della Confindustria (dove è in arrivo il nuovo gruppo dirigente dopo la gestione - disastrosa ed orientata a sinistra - di Luca Cordero di Montezemolo).
A un governo moderato, in Italia, non è sufficiente vincere le elezioni. Deve mettere in conto l’opposizione pregiudiziale della Cgil (la Vecchia Guardia dei Napoleoni della gauche) con gli effetti di trascinamento sulle altre organizzazioni (soprattutto in anni, come quelli appena trascorsi, in cui la Confindustria aveva una sola idea forte riassumibile nello slogan "mai senza la Cgil").
Tanto vale, allora, intraprendere subito la seconda fase della battaglia verso l’obiettivo della possibilità di governare. Come fare? Il governo dovrebbe promuovere direttamente un confronto con le parti sociali, mettendo a disposizione delle loro richieste (sgravi fiscali sulle retribuzioni, riduzione della tassazione sulle imprese) l’ammontare del "tesoretto" (una volta verificatene l’esistenza e la consistenza senza creare problemi ai conti pubblici) ad una precisa condizione: che entro 40 giorni le parti fossero capaci di avviare e concludere un negoziato sulla riforma degli assetti contrattuali, orientato a valorizzare il più possibile gli elementi della retribuzione collegati alla produttività e la contrattazione decentrata.
Sarebbe questo un tentativo di giocare di anticipo, fornendo un quadro stabile e solido all’iniziativa e al ruolo delle componenti più ragionevoli e meno strumentalizzabili tra le organizzazioni sindacali, mettendo nel contempo alla prova la nuova presidenza di viale dell’Astronomia. In fondo, il punto più alto dell’iniziativa politica dell’ultimo governo Berlusconi fu la stipula del Patto per l’Italia del luglio del 2002. Ecco perché sarebbe importante che al Dicastero del Welfare (di nuovo ricostruito dopo lo ‘spezzatino’ partitocratrico voluto da Prodi) andasse una personalità competente, magari lo stesso Roberto Maroni o uno di coloro che furono al suo fianco nella trascorsa legislatura e portarono a compimento, in quel ministero, talune delle riforme grazie alle quali quell’esperienza governativa merita di essere ricordata.
Per Silvio Berlusconi il seguire queste indicazioni non entrerebbe in contraddizione con l’esigenza di onorare, al più presto, alcuni degli impegni assunti in campagna elettorale allo scopo di non disperdere il clima di "luna di miele" instaurato con i cittadini. Certo non aiuta un disegno siffatto l’analisi, tardiva e sopra le righe, compiuta da un "uscente" Luca Cordero di Montezemolo, a proposito della rappresentatività delle confederazioni sindacali. La battuta di LCdM ha suscitato la reazione dei vertici di Cgil, Cisl e Uil.
I leader sindacali dovrebbero smetterla di reagire come una divinità pagana offesa ogni volta che qualcuno si permette di svelare i vizi delle loro organizzazioni (si veda il tono indispettito e arrogante con cui è stato accolto il saggio "L’altra casta" nel quale Stefano Livadiotti mette a nudo i privilegi e le zone franche del potere sindacale). Ma le critiche di Luca Cordero di Montezemolo (LCdM) – giunte ormai in zona Cesarini di un mandato presidenziale sicuramente discutibile – sembrano parecchio esagerate. Per tanti motivi. Innanzi tutto perché le analisi dei cambiamenti sociali e dei loro riflessi sul voto meritano considerazioni più attente. Sarà anche vero, infatti, che gli operai del Nord - anche quelli che in passato facevano convergere i loro suffragi sui partiti di sinistra - hanno votato in gran numero per la Lega. Ma non hanno stracciato la tessera delle confederazioni storiche per iscriversi in massa al Sin.Pa. (il sindacato padano che resta un’organizzazione tuttora minoritaria nei posti di lavoro).
Certo, con i "chiari di luna" che si sono visti il 13 e il 14 di aprile diventerà sempre più difficile – anche per la stessa Cgil – usare per fini politici (condurre un’opposizione strumentale al governo Berlusconi) la forza, le prerogative e i mezzi dell’iniziativa sindacale. Purtroppo, i dirigenti confederali dimostrano di non aver capito la lezione e di voler portare avanti i loro cascami ideologici piuttosto che le aspettative dei lavoratori.
Per una ricorrente vocazione all’autolesionismo stanno criticando le proposte del governo riguardanti l’abolizione dell’Ici e la detassazione del lavoro straordinario nonostante che si tratti di misure molto popolari tra i lavoratori e i cittadini meno abbienti.
Alla base di questi "mal di pancia" stanno dei residui pregiudizi ideologici nei confronti dei "proprietari immobiliari" (anche se sono titolari soltanto della casa in cui dimorano con la famiglia, avendola acquistata con tanti sacrifici) e di coloro che non si tirano indietro se è necessario lavorare di più. Detassare il lavoro straordinario (l’operazione riguarda poco più del 5% del totale delle ore lavorate) non comporta assolutamente il superamento dei limiti quantitativi posti dalla legge e dai contratti a tutela dell’integrità fisica del lavoratore.
Non si comprende, pertanto, per quali motivi il prossimo governo non dovrebbe dar corso ad un impegno elettorale più volte ribadito, dopo che – in modo corretto – proprio ieri i ministri uscenti Damiano e Padoa Schioppa hanno varato il decreto interministeriale chiamato a sperimentare (è prevista una copertura di 150milioni di euro) le agevolazioni fiscali sul salario variabile di cui al protocollo del 23 luglio scorso e alla legge attuativa (l. n.247/2007).
I sindacati devono sicuramente essere coinvolti nelle scelte che riguardano i lavoratori. Se non vogliono, tuttavia, continuare ad essere i "professionisti del veto" (è questa la critica di Montezemolo) i dirigenti sindacali devono capire che taluni cambiamenti sono ormai ineludibili. Al presidente della Confindustria, però, sarà il caso di ricordare che qualche responsabilità sullo stallo delle relazioni industriali grava pure sul vertice di viale dell’Astronomia. Fin dall’inizio del suo mandato la linea di condotta di LCdM è stata chiaramente protesa a ripristinare e a mantenere un rapporto con la Cgil, nutrendo ed allevando, in tale maniera, i principali "professionisti del veto".

Giuliano Cazzola, su L'Opinione

L'assemblea della Milano

Si è tenuta sabato l'Assemblea della ultracentenaria cooperativa di credito di Milano.
Un appuntamento atteso non tanto per i risultati gestionali, di ottimo livello, ma per il clima di feroce polemica che si è sviluppato in questi mesi fra i portatori del controllo assembleare ed il Presidente della banca.
Tutto è nato dopo l'abortito tentativo di fusione con Bper, fortemente sponsorizzato da Mazzotta e bocciato dalle associazioni di soci alla svolta finale.
La opacità della decisione così come l'intrinseca debolezza societaria ed industriale della proposta hanno generato un cocktail micidiale di divaricazioni e risentimenti, che si è protratto, a colpi di gossip giornalistico (secondo lo stile della casa) e di fratture sindacali epocali, sino a poche settimane dall'Assemblea.
Tutto si è acquietato in una sorta di progetto che dovrebbe concretizzare l'ingresso futuro in consiglio di forze economiche del territorio e dei fondi nell'organo di controllo ed un contemporaneo ridimensionamento della rappresentanza dei soci-dipendenti, come vivamente auspicato da Mazzotta con una lunga perorazione a conclusione dei lavori assembleari.
Il condizionale è d'obbligo perché gli umori dell'assemblea societaria, che ha avuto gli spiccati connotati di un congresso politico a tesi ed antitesi, hanno chiaramente evidenziato che le divaricazioni sono forse espresse in modo più salottiero ma persistono.
Fra la visione di una cooperativa molto somigliante ad una fondazione e l'autoreferenzialità dei rappresentanti dei soci-dipendenti, la sintesi sembra difficile.
Il rischio è che la mediazione finisca per essere di modesto profilo, più orientata a garantire il mantenimento degli equilibri e delle presenze in consiglio, che il risultato di un'autoriforma che sappia dare respiro vitale ad una cooperativa la cui forte presenza resta essenziale ed indispensabile nel devastato panorama creditizio italiano.

18 aprile 2008

Non è un paese per giovani

Spesso si scrive e si parla di un Milan da rifondare, ultimamente. Il tuo giudizio?
«Io non ritengo che ci sia un Milan da rifondare. Questa squadra ha vinto una competizione prestigiosa come il Mondiale per Club solo lo scorso mese di dicembre, non vent'anni fa. Per cui ritengo si debba parlare di continuità di questo gruppo e non di rinascita.»

Intervista a Paolo Maldini del 17 aprile 2008, da AcMilan.com

Grand'Italia e dintorni (5)

“Numeri alla mano si è capito che molti dei voti andati alla Lega sono di berlusconiani stanchi degli appetiti eccessivi del leader” dice Giorgio Bocca sulla Repubblica (18 aprile).
Meno male che c’è Bocca se no, come avremmo fatto a capire che nella sostanza il voto del 13 e 14 aprile è antiberlusconiano?


Lodovico Festa, su L'Opinione

Ecco perché il Cav. promette lacrime e sangue

Nelle prime dichiarazioni alla stampa, il Presidente del Consiglio “in pectore” Silvio Berlusconi ha indicato che il nuovo Governo dovrà prendere misure impopolari; per questo motivo è necessario che la maggioranza parlamentare sia coesa.
Di cosa si tratta? Non certo d’aumenti della pressione fiscale – di cui è stata annunciata, invece, una riduzione. Neanche di tagli alle voci di spesa pubblica inerenti ai trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, sussidi alle fasce più deboli). Non potranno chiamarsi “impopolari” i provvedimenti (quali la razionalizzazione di appalti e commesse) mirati a spendere meglio le risorse di tutti.
Per comprendere cosa probabilmente intende Berlusconi (stiamo congetturando ipotesi) occorre prendere un documento appena diramato (il “Bollettino” più recente della Banca centrale europea- Bce) ed un bel libro uscito un anno fa negli Stati Uniti (Barry Eichengreen “The European Economy since 1945: Coordinate Capitalism and Beyond” Princeton University Press, 2007 pp. xx 495 $ 35).
Prendiamo l’avvio dal lavoro di Eichengreen , risultato di 20 anni di studi della rapida crescita (tra il 1950 ed il 1973) e del successivo debole andamento e stasi delle economie europee, oltre che delle prospettiva “di sopravvivenza” del “modello europeo” nel contesto dell’integrazione economica internazionale.
Il punto centrale è che l’Europa occidentale in generale (e l’Italia più di altri Paesi) sono state caratterizzate da un “capitalismo coordinato” (un modo elegante per dire “corporativo”) che hanno permesso lo slancio del 1950-73 (grazie alla concertazione e consociazione tra produttori – il “patto” di cui ha parlato nostalgicamente WV, Walter Veltroni, negli ultimi giorni della campagna elettorale) ma hanno in seguito ingabbiato la crescita in una ragnatela di reti corporative. Il pilastro delle “misure impopolari” è la rottura di questa ragnatela. Berlusconi lo ha sperimentato sulla propria pelle nella XII legislatura (quando tentò una riforma sensata e moderata della previdenza) e nella XIV (quando iniziò il programma di liberalizzazioni). Le “lenzuolate” varate (senza grande esito) dal Ministro alla Sviluppo Economico Pierluigi Bersani nella XV legislatura non hanno certo contribuito alla popolarità del già malmesso Governo Prodi. Il capitalismo coordinato delle corporazioni comporta costi per chi perde rendite di posizione; dato che in Italia (e non solo) le categorie che fruiscono di tali rendite sono numerosissime, le misure dirette verso tali obiettivi (per rilanciare produttività e competitività) sono inevitabilmente impopolari.
Il documento Bce è soltanto l’ultimo (per ora) in ordine di tempo e fornisce il parere di un’organizzazione internazionale sull’urgenza di riforme (specialmente nei mercati dei prodotti e dei servizi oltre che nella spesa pubblica) per rimettere in moto l’economia italiana.
Una ventina di anni fa, un socio-economista americano (ma cresciuto a Trieste), Albert Hirschmann, allora considerato tra i beniamini della sinistra, ha pubblicato un libro su “Come far passare le riforme” (edito in Italia da Il Mulino): uno dei punti essenziali dell’analisi è il messaggio secondo cui i “reform monger” (coloro che vogliono fare le riforme) devono trovare un grimaldello, spesso esterno, per rompere i muri di gomma e le sabbie mobili che ostacolo il rinnovamento e l’innovazione. Nello studio fondamentale di Paul Pierson sulle riforme attuate negli Anni 80 negli Usa ed in Gran Bretagna (“Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchmen”. Cambridge University Press, 1994) si sottolinea come il grimaldello fu in un caso (Usa) l’invio dell’aereonatica per porre fine allo sciopero dei controllori di volo e nell’altro (GB) l’atteggiamento energico del Governo nei confronti del sindacato dei minatori. Né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sono alle prese con un “capitalismo coordinato” radicato come quello italiano.
Non è difficile individuare cosa fare (è appena uscito “Il Manuale delle Riforme” dell’Istituto Bruno Leoni ed il 18 maggio sarà in libreria il “Rapporto sulla liberalizzazione della società italiana” di Società Libera) ma è arduo capire quale può essere il grimaldello per avviare un processo di liberalizzazioni e di riforme, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui il debole andamento dell’economia reale e la situazione della finanza pubblica non consentono di offrire “compensi” di breve periodo a chi, a torto od a ragione, crede di doversi sobbarcare costi per le liberalizzazioni e riforme.
Parafrasando il sindacalista francese Marc Blondel, possiamo, però, dire che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno. Ma sulla scorta d’analisi puntuali.
La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime e contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo.
Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università,
modernizzare corporate governance e diritto fallimentare).

Salvatore Pennisi, su L'Occidentale

17 aprile 2008

Il pallone politico

Più vincitori che vinti.

Che cosa cambierà nel micromondo calcistico con la vittoria elettorale di Berlusconi? Domanda non epocale, come quasi tutte le nostre, ma comunque di un certo interesse per chi di calcio vive. Per Abete cambia pochissimo: uomo di centro, navigatore nella politica senza mai sembrare maneggione, con il suo non decisionismo (da Donadoni a Collina, in un anno di presidenza non ha preso una decisione davvero sua) si è guadagnato l'indifferenza del futuro presidente del Consiglio, che continua a considerarlo il vice di Carraro. Un calcio veltroniano avrebbe ovviamente spostato la centralità del potere verso la federazione, ma di sicuro non si può dire che Abete abbia perso. Campane a morto invece per Antonio Matarrese, che con la storia del miliardo ha provato a svincolarsi dall'abbraccio della B facendo quello che pensa in grande dopo una vita passata a comporre contrasti fra ras di paese. Niente da fare: se la A saluterà la compagnia prima della fatidica data del 2010, quella di tutte le scadenze, commissioner della nuova lega 'leghista' sarà al 110 per 100 Adriano Galliani. Nell'arco di due anni far crescere un dirigente da Milan non dovrebbe essere difficile: il gruppo è pieno di ottimi manager per la gestione finanziaria, a cui affiancare un 'uomo di sport' (l'amico Natali, piuttosto che Costacurta o un direttore sportivo di provincia) per il mercato. E poi di strapagare bolliti dalla Spagna con la straordinaria consulenza di Bronzetti (è l'unico ad avere il numero di Barcellona e Real Madrid?) dovrebbero essere più o meno capaci tutti. Un Berlusconi presidente del Consiglio non potrà esserlo anche del Milan, ma nella sostanza cambierà poco. Vince Collina, che Berlusconi e Galliani hanno sempre rispettato tanto da non volersi esporre quando c'è stato da reclamare per qualche torto arbitrale subito dal Milan: alla classifica alla moviola ci ha pensato la Gazzetta (solo che quando la faceva Maurizio Mosca nel leggendario Appello del Martedì non veniva preso sul serio), ben prima della svolta free press a pagamento, nel senso che la Gazzetta attuale sembra una free press da metropolitana ma si paga. Perde Moratti, non solo per le simpatie politico-salottiere per la sinistra (in realtà più della moglie che sue), ma anche perché un presidente del Consiglio può perdere nel calcio ma ha tanti altri tavoli su cui giocare. I guadagni nella raffinazione del petrolio si giocano sui millesimi di euro, una tassettina in più o in meno cambia il destino di una dinastia industriale in un paese in crisi di approvigionamento energetico: diciamo che il Fraizzoli che dopo la telefonata di Andreotti straccia il contratto di Falcao è un paragone che ci può stare. Pareggia la Juventus, che ci ostiniamo per abitudine infantile a collegare al mondo Fiat: dall'abolizione del bollo a mille incentivi per l'auto, annunciati dalla benevolenza verso Silvio del gruppo mediatico Montezemolo, non sarà di sicuro obbligata a fare del pauperismo. E gli Elkann a Berlusconi non sono certo antipatici. Diciamo pareggio perché il reale progetto politico di Montezemolo puntava al pareggio elettorale per poi proporre uno pseudo-governo dei tecnici. Perde la Roma, con la famiglia Sensi ed il suo giocatore simbolo schierati compattamente per Veltroni ed ingiustamente presi di mira per questo: che il gruppo sia di fatto ostaggio di Unicredit è un elemento che gioca a favore della vendita del magnate di turno, al quale ovviamente non basteranno i soldi ma dovrà trovare anche consenso. Se è vero, come è vero, che i mezzi flop con Manchester United (in modo ostile) e Inter (in modo più discreto) non sono stati dimenticati, una squadra ed una città di notorietà mondiale non dovrebbero dispiacere a Murdoch, eterno finto nemico del Berlusca. Questa la politica, mentre per quanto riguarda i soldi già adesso si puà dire che la legge Melandri sarà spazzata via, più probabilmente per via giudiziaria che parlamentare: gli arieti Sky, De Laurentiis e Zamparini provvederanno a sfondare questo cigolante portone ed a tornare entro il solito 2010 alla soggettività dei diritti tivù. Per il resto nessuno scenario sconvolto: Sky per il satellite, Mediaset e La7 per il digitale terrestre, continueranno a dare il grosso, mentre il piccolo, per il chiaro, quasi certamente tornerà ad una Rai costretta a sobbarcarsi, con la scusa del servizio pubblico, anche una serie B che fra qualche anno non dovremmo vedere più. Ha vinto Berlusconi, ma in generale il calcio di vertice ci guadagnerà. Dimenticavamo: l'uomo forte del Berlusconi politico sarà Gianni Letta, questo significa la ricomparsa calcistica in terra italiana di Franco Carraro, attualmente all'esecutivo Uefa. Non riusciamo ad immaginare in quale ruolo, avendoli già ricoperti tutti e più di una volta.

di Stefano Olivari, su Indiscreto

Uno di noi

Ieri sera all'Olimpico di Torino, Hector Cuper (l'eroe immortale del Cinque Maggio) è tornato dopo sei anni ad affrontare il suo incubo a strisce bianconere, sulla panchina del Parma.
La "giornata della memoria" si è consumata nel pieno rispetto dei rituali canonici: sconfitta rotonda (3 a 0), con primo gol juventino in chiaro off-side (di Trezeguet) e tributo finale della curva goeba: Cuper, uno di noi!
Per non dimenticare.

16 aprile 2008

Ciao, Marisa

Scompare Marisa Sannia, cantante tra poesia e Sardegna.

Marisa Sannia nasce a Iglesias (Cagliari) il 15 febbraio 1947. La sua voce aggraziata e le sue raffinate interpretazioni hanno contribuito ad arricchire il panorama musicale italiano con brani di grande successo, soprattutto negli anni sessanta e settanta, periodo di sua maggiore popolarità: il consenso accordatole dai numerosissimi ammiratori l'ha portata ad essere ancora oggi una delle cantanti più collezionate e ricercate. La personalità complessa ed i molteplici interessi sono testimoniati inoltre dall'attività agonistica (ancora giovanissima) nella squadra del Cus Cagliari, dove si mise in luce per le spiccate doti atletiche, doti che le permisero di diventare una delle migliori cestiste di quegli anni e di approdare alla nazionale maggiore. L'esordio di Marisa Sannia nel mondo della musica leggera risale ai primi anni '60 insieme a “I Principi”, un gruppo di Cagliari con il quale si esibiva prima di intraprendere la carriera solista. L’occasione le fu offerta dalla partecipazione ad un concorso di voci nuove, nel 1965 ad Iglesias, dove si classificò seconda con il brano di Adamo “Perduto amore”. La svolta decisiva per Marisa Sannia fu un concorso indetto dalla Fonit Cetra, che le permise di ottenere un contratto con la casa discografica torinese di ben quattro anni. Sergio Endrigo e Luis Enriquez Bacalov ascoltando la voce della giovane interprete durante un'audizione, decisero di diventarne i produttori: il primo 45 giri fu “Tutto o niente” (il retro “Dai” fu composto da Bruno Canfora). Il debutto televisivo avvenne in occasione della trasmissione “Scala reale” nell'ottobre del 1966, dove la Sannia ottenne giudizi favorevoli sia dalla critica che dal pubblico. Seguirono altri successi come “Una cartolina”, ”Sono innamorata (ma non tanto)” e “Sarai fiero di me”, brano che ottenne il premio della critica discografica e che conquistò il terzo posto nella “sezione giovani” al Festivalbar del '67. La televisione contribuì ben presto alla sua popolarità, nel 1967 partecipò al programma condotto da Pippo Baudo “Settevoci”, dove vinse per sette puntate di seguito: il pubblico apprezzò oltre che la bella voce e la garbata espressività, anche la semplicità e il suo viso “acqua e sapone”. La consacrazione definitiva arrivò nel 1968 quando si piazzò al secondo posto al festival di Sanremo, cantando in coppia con Ornella Vanoni la canzone di Don Backy “Casa bianca”, il cui testo simboleggia le ambivalenze squisitamente adolescenziali, tra la paura/bisogno di crescere e divenire adulti e il timore di abbandonare la sicurezza dell'infanzia. Il brano fu inciso anche dall'autore e, in francese, da Dalida, ma l'interpretazione della Sannia risultò la più apprezzata dal pubblico. Le oltre 500mila copie vendute furono la conferma del grande riscontro ottenuto, sull'onda del quale la Fonit Cetra emise, nell'estate seguente, il suo primo 33 giri che, oltre a canzoni già precedentemente edite su disco singolo, conteneva diversi brani incisi per l'occasione. La crescente popolarità aprì a Marisa Sannia le porte del cinema, come spesso avveniva per i cantanti più celebri del momento, girando da co-protagonista il film “Stasera mi butto” insieme a Giancarlo Giannini. Sul finire dell'anno incise “Io ti sento” un brioso brano di Armando Trovajoli, colonna sonora della commedia di Dino Risi “Straziami ma di baci saziami”. Il ‘68 si concluse con la partecipazione a due importanti manifestazioni: Il Festival internazionale di musica leggera di Venezia con il brano “Non è questo l'addio” e “Canzonissima”, dove Marisa Sannia, con “Una donna sola”, entrò nella rosa dei dodici semifinalisti. All'inizio del 1969 la cantante firmò un nuovo contratto discografico con la Cgd. Alla manifestazione “Una canzone per l'Europa” a Lugano, dove la Sannia rappresentava l'Italia, viene presentata “La compagnia”, una canzone, di Mogol e Carlo Donida, che piacque anche a Lucio Battisti che successivamente la inserirà in un suo album. Tra gli altri brani in quell'anno: “Una lacrima” - che riscosse un ottimo riscontro commerciale - e “La finestra Illuminata”, semifinalista della “Canzonissima” del '69-'70. Il ritorno al Festival di Sanremo, nel 1970, la vide (in coppia con Gianni Nazzaro) con “L'amore è una colomba”, brano che le permise di mettersi in luce anche sul mercato spagnolo, francese, giapponese e sud-americano. Nello stesso anno uscì l'album “Marisa Sannia canta Sergio Endrigo e le sue canzoni”, disco che rappresenta oggi un vero e proprio cult per i fan collezionisti. Una facciata di questo LP, composto da ricercate interpretazioni, è interamente dedicata a brani celebri del cantautore di Pola, insieme al quale si esibisce con grande successo al festival di Varadeiro a Cuba. L'anno si chiude con la conquista della finale di Canzonissima, dove Marisa presenta “La primavera” un pezzo di struggente dolcezza composto da Don Backy. Nel 1971 la Sannia è di nuovo tra i protagonisti di Sanremo, questa volta in coppia con Donatello, con la canzone “Come è dolce la sera stasera” che, inaspettatamente, si classificò al quarto posto e che ottenne un buon successo di vendite. Questo brano fu poi inciso per il mercato sud-americano anche da Claudio Baglioni. Successivamente un ottima affermazione viene colta con la partecipazione al Festival di Spalato dove si piazzò al terzo posto. Terminato il contratto con la Cgd, Marisa tornò alla sua prima casa discografica affidandosi ancora una volta al duo Endrigo-Bacalov che composero per lei “La mia terra”, un pezzo dalle particolari sfumature etniche presentato al Festival internazionale della canzone di Venezia. Del 1972 è la partecipazione, insieme ad Endrigo, Ricchi e Poveri e altri artisti, al 33 giri “L'arca”: una bellissima raccolta di canzoni per bambini scritte da Vinicius De Moraes. In questo stesso periodo la casa discografica Emi pubblicò il 45 giri “Un'aquilone”, il cui retro “Il mio mondo, il mio giardino” porta la firma di importanti cantautori: Francesco De Gregori, Amedeo Minghi e Edoardo De Angelis. “Ricordo una canzone”, brano che si caratterizza per misurata eleganza e intensità, è il secondo disco inciso con la nuova scuderia, con la quale incise anche il 33 giri “Marisa nel paese delle meraviglie”, contenente interpretazioni di brani tratti dai film di Walt Disney. Dopo la musica e il cinema, Marisa Sannia intraprese un'altra esperienza artistica: il teatro. Il debutto avvenne nel 1973 con una splendida interpretazione di Giovanna D'Arco nel musical di Tony Cucchiara “Caino e Abele”, portato in scena con grande successo per due anni consecutivi. A quest’esperienza fece seguito “Storie di periferia” del 1975, sempre con la compagnia di Cucchiara. Nel 1976, avvenne il suo debutto come cantautrice con l'album “La pasta scotta”, dove atmosfere acustiche e un intenso lirismo vanno a sottolineare i momenti felici di brani anche a sfondo autobiografico. Gli anni '80 si aprono per la Sannia con una piccola apparizione nello sceneggiato televisivo “George Sand” diretto da Giorgio Albertazzi a cui segue una partecipazione al film di Pupi Avati “Aiutami a sognare” con Mariangela Melato e Antony Franciosa. Nel 1984 tornò ancora al Festival di Sanremo; la partecipazione alla famosa kermesse fu fortemente voluta da Marisa e, per l'occasione,la Fonit Cetra le affidò “Amore amore”, un brioso motivetto che non favorì certo la popolarità dell'interprete. Dopo un lungo periodo di silenzio, gli inizi degli anni '90 la vedono impegnata nella traduzione di alcuni brani del cantautore catalano Juan Manuel Serrat, i cui testi, intrisi da un'intensa vena poetica, si avvicinano alla sensibilità espressiva di Marisa; il progetto, però, non avrà seguito. Nel 1993, inaspettatamente, ritornò alle incisioni discografiche con “Sa oghe de su entu e de su mare”, raccolta di undici brani in lingua sarda, i cui testi sono poesie di Antioco Casula detto “Montanaru” (1878-1957), rielaborate insieme allo scrittore Francesco Masala. In questo lavoro, autentico e sincero, vi è un’appassionata affermazione delle proprie radici culturali resa in un linguaggio musicale vibrante di sonorità arcane e magiche, a ricreare spazi sognati capaci d'evocare toccanti silenzi ed esplosioni di una miriade di scintille-emozioni. Ai bellissimi testi fa da corollario un accompagnamento musicale che sottolinea, esalta e impreziosisce il suadente e sensuale canto. Gli arrangiamenti di Marco Piras, alle chitarre e tastiere, l’arpa di Gilda Dettori, la fisarmonica di Francesco Pilu, costituiscono un tappeto sonoro di rara bellezza e forza. Nel 1995, Marisa è di nuovo in teatro con “Le memorie di Adriano”, testo tratto da un racconto di Margherite Youcenar, insieme a Giorgio Albertazzi e con la regia di Maurizio Scaparro, in questa occasione l'artista canta in “a solo” alcuni brani di sua composizione tra cui “Animula, vagula, blandula”. La sua presenza sul palco è breve e saltuaria, quasi un sogno che nel buio compare e che la luce porta via, eppure, come il sogno, lascia una sensazione di indecifrabile mistero e fascino. Nello stesso anno presenta il suo concerto “Tra due lingue” in occasione del Festival di Taormina. Il cammino musicale intrapreso continua con il Cd “Melagranada”, edito nel 1997 su etichetta Nar. Si è ancora una volta dinanzi ad un capolavoro, dove la voce dell'artista, i suoni, le immagini evocate sembrano partecipare a una vertigine di una poetica dilatata e assoluta, che trasporta in un mondo onirico, fanciullesco, che non a tutti è dato penetrare. Ogni brano è un momento di vissuto interiore, rappresentato da una sensazione sonora e “coloristica”, simile a un tema pittorico. Nel dicembre dello stesso anno partecipa come autrice al Festival “Bimbo Star” - musica d'autore per bambini - con il brano “Stella che non brilla”, che si classificherà al primo posto nella categoria “Ragazzi”. Nel 1999 canta insieme al baritono Paolo Zicconi: “As semenadu in mare” nel cd “Andiras”. Un'altra significativa partecipazione dell'artista con avviene nel 2001 in ambito cinematografico; il brano “Bellita bellita” farà parte della colonna sonora del film di Tito Livi “Sos laribiancos”. Nell'ottobre del 2001 la Sannia si esibisce, insieme ad altri artisti, nel tributo rivolto a Sergio Endrigo nell'ambito del Premio Tenco. Accompagnata da due musicisti e dalla sua chitarra, Marisa interpreta i brani “Mani bucate” e “Melagranada ruja”, suscitando un vivo interesse da parte del pubblico. Infine, nell'ottobre 2002, l’ultimo album dal titolo “Nanas e Janas”. I funerali dell'artista, morta lunedì mattina alle 9 a Cagliari, in seguito ad una repentina e grave malattia, si sono svolti in forma privata. Negli ultimi tre anni della sua vita Marisa Sannia ha dedicato tutto il suo tempo allo studio di Federico Garcia Lorca, alla poesia e alla metrica del grande autore andaluso lasciando in eredità ai suoi molti estimatori un toccante lavoro di canzoni originali cantate in spagnolo che saranno pubblicate in “Rosa de papel”, un album postumo (curato graficamente dalla stessa cantante fino all'ultimo dettaglio), che costituirà il suo testamento artistico e che ha anche avuto un'anteprima la scorsa estate al Malborghetto Roma Festival.

dal sito de L'Unità


Se ne è andata in silenzio, nel cono d'ombra proficuo in cui si era rifugiata, una delle passioni canore della mia gioventù.
Quelli di oggi e di ieri non sapevano nemmeno chi fosse.
Li assicuro che è stata una voce magica, ricca di sensazioni isolane, di echi meditterranei.
Riservata, come la sua terra, è stata per poco alla grande ribalta e poi, senza smanie, si è fatta risentire ogni tanto , regalando ai suoi appassionati spicchi di sapiente professionalità.
Che le zolle ti siano lievi, Marisa.

Il blocco sociale della Lega

Per 20 anni siamo stati accompagnati dai giudizi sprezzanti dei radicals sul Corriere e dei republicones di De Benedetti: rozzi, razzisti, separatisti, paesani.
Ora che la Lega ha raccolto tanti voti da divenire il terzo partito italiano ed il primo in molte regioni del Nord, c'è un certo imbarazzo nei commentatori illuminati.
Dalla subitanea analisi del voto da mal di pancia, si è passati a giudizi meno affrettati, ora che l'andamento dei flussi elettorali dice che vi è una strana (per loro) corrispondenza fra il tracollo della sinistra estrema e la crescita della Lega.
Due piu due fa quattro?
Non credo proprio. In realtà il voto estremo si è probabilmente trasferito in massa sul PD, che infatti passa dal suo fisiologico 29% al 33%, mentre rilascia alla sua destra, insieme ad una quota non indifferente di elettorato di Forza Italia ed AN, consensi verso la Lega.
Ma vi è di più.
Per la prima volta la Lega diventa un soggetto elettorale importante nelle grandi città, raccogliendo consensi piccolo-borghesi nelle popolose cinture periferiche.
I politologhi domani scriveranno analisi più convincenti.
A pelle, la sensazione è che il partito si ancori ora ad un preciso blocco sociale che ha definito nella sicurezza, nel rifiuto dell'immigrazione selvaggia, nella rivolta contro tasse e burocrazia centralista, le proprie priorità di vita.
È una fascia di popolazione che con questi problemi convive quotidianamente, perché gli zingari magari li ha sottocasa, perché subisce furti e danneggiamenti quotidiani alle proprie cose, perché si vede costretta a rinunciare alla propria poca ricchezza a favore di uno Stato vorace ed improduttivo.
Tutti affanni che non sfiorano nemmeno i borghesi dei quartieri centrali che si possono permettere, tanto non costa nessun sacrificio, di dare lezioni di solidarietà e di sussidiarietà ai poveracci incolti ed egoisti.
Poche domeniche fa, durante l'omelia domenicale, un parroco di periferia invitava a pregare perché con il voto le cose evolvessero verso una società più rispettosa dei valori dellla tradizione.
Era un giusto richiamo alle nostre radici storico-religiose, ma anche un "basta" sonoro all'inerzia pubblica, all'esagerata attenzione ai problemi dei nuovi ignorando il progressivo degrado delle condizioni esistenziali di chi ha lottato una vita per sopravvivere dignitosamente, rispettando le leggi di convivenza civile.
In quel quartiere, come in tanti altri, la Lega si è attestata al 30%, perché probabilmente ha parlato la lingua che meglio è compresa da chi non ne può più del disordine e del degrado.

L'occasione storica di Bertinotti

"Nessuno, francamente, si aspettava una batosta così grande, storica” dice Piero Sansonetti su Liberazione (15 aprile).
D’altra parte Bertinotti se voleva fare qualcosa di storico, aveva quest’unica occasione.

Lodovico Festa da l'Opinione

15 aprile 2008

A Camillo negli USA

Scrive un lettore, Enrico: "Torni, ma sia cauto, i comunisti non ci sono più, ma gli interisti sono sempre qui".

dal blog Camillo, di Christian Rocca

Anniversario del 1968

Le urne chiuse, le schede scrutinate, il verdetto dice che il centro-destra con l'apporto essenziale del blocco sociale che si identifica nella Lega governerà per cinque anni.
Le analisi a dopo, restiamo alle constatazioni. La più entusiasmante è che nel quarantesimo anniversario del 1968, l'Italia ha spedito in soffitta la sinistra comunista e radicale e ridotto al 33% la rappresentanza della sinistra post comunista.
Di più queste votazioni non potevano lasciare in eredità al paese.

13 aprile 2008

La nuova cultura di sinistra

Tutti a ridere per il manager Telecom convinto che a Waterloo Napoleone abbia vinto.
Ieri su Repubblica il teorico della superiorità della razza di sinistra sul resto del mondo, cioè Michele Serra, ha scritto che "il cristiano energumeno e razzista sogna la rivincita di Lepanto". Peccato che, come fa notare oggi Andrea Marcenaro sul Foglio, a
Lepanto, i cristiani agli islamisti "fecero un culo tanto".

dal blog Camillo, di Christian Rocca

Hanno scritto (5)

Il destino del paese non dipende dal tipo di scheda che lasciate cadere nell'urna elettorale una volta all'anno, ma dal tipo di uomo che lasciate cadere ogni mattina dalla vostra camera nella strada.

Henry David Thoreau, Slavery in Massachusetts

Settimana in Sicilia

Oggi e domani si vota.
Se il Cavaliere torna a vincere, martedì clicco su Expedia.it e con i soldi risparmiati per i bolli auto mi prenoto una bella settimana in Sicilia.
In aereo, perché il ponte non glielo hanno ancora fatto costruire.
Questo è fare politica per il popolo!

11 aprile 2008

I deliri del pelato (3)

«La probabilità che Ronaldinho e Shevchenko arrivino al Milan? Diciamo il 180% in due».

(stralciato dalla quotidiana intervista di Adriano Galliani)

08 aprile 2008

La compagnia di bandiera e i compagni sindacalisti

La vergognosa vicenda della cessione di Alitalia prosegue con il ping-pong Parigi-Roma.
AFK, in un soprassalto di dignità, ha invitato la proprietà a giocare il suo ruolo responsabile ed a sbrigarsela con i sindacati italiani che, anche questa volta, sono riusciti a dare una prova di demagogica inettitudine politica.
Il ministro del Tesoro, TPS, lancia proclami terroristici sul fallimento ad ore di Alitalia non rendendosi conto che questa è la soluzione virtuosa, mentre una dirigenza inetta rilascia rassicurazioni sulla capacità di sopravvivenza della compagnia sino all'estate.
Una sceneggiata napoletana a cui manca solo una collina di monnezza sulle piste.
La pervicacia con cui TPS tenta di chiudere una trattativa surreale nello spazio di ore è veramente inquietante.
Se fossimo in ambito calcistico parleremmo di biscottone. In politica si può solo parlare di testardaggine ottusa del defunto governo Prodi.
Nel frattempo, la cordata italiana è sparita dalla mente del Cavaliere, tanto era solo virtuale.
Il Nord ha perso Malpensa ma Linate è al doppio della sua capacità ricettiva.
Tutto molto italiano, molto fantasioso.
Un caso emblematico di interessi privati di più soggetti pubblici a spese della comunità che paga, come sempre e nel caso specifico da trent'anni, a piè di lista.

I deliri del pelato (2)

(...) Ma la dichiarazione forte l'imprenditore friulano la riserva al suo nemico storico numero uno nel calcio, Adriano Galliani. L'aneddoto risale a qualche anno fa: «Quando proposi al Milan Luca Toni, se non ricordo male successe tre anni fa, Galliani mi rispose che si sarebbe vergognato di far salire i gradini di San Siro a Toni con addosso la maglia rossonera. E di certo poi non si sarà neanche pentito di quella risposta visto che lui non si pente mai».

(intervista al presidente del Palermo Zamparini, dal sito SettimanaSportiva.it)

I deliri del pelato

«La possibilità che ha avuto la città di Milano nel conquistare Expo 2015 è una cosa che riempie di orgoglio anche il Milan che su invito del Sindaco Moratti, ha messo a disposizione le grandi capacità di Clarence Seedorf. Se poi pensiamo che il nome della nostra squadra altro non è che il nome della città in inglese, in quanto la nostra società venne fondata da un inglese, siamo orgogliosi di poter contribuire ad Expo 2015».

(stralciato dalla quotidiana intervista di Adriano Galliani, dal sito AcMilan.com)

07 aprile 2008

Quei politici cacasotto che non osano dire una parola sul Tibet

I cinque cerchi olimpici: grondano sangue e tutti fanno finta di niente.

(Domenica, 6 Aprile 2008) Ogni giorno che passa, ogni ora che ci avvicina alle 8.08 dell'8 agosto 2008, quando verranno aperti i Giochi di Pechino, sta diventando insopportabile per le autorità del regime comunista cinese che da cinquant'anni opprime e massacra il Tibet, ma non riesce a soffocarne la lotta per la libertà.
La clamorosa contestazione di stamane a Londra, dove alcuni manifestanti hanno cercato di spegnere la fiaccola olimpica, è soltanto l'ultima di una serie che continuerà dovunque e comunque, per ricordare al mondo che cosa sta accadendo a Lhasa e nel resto del Tibet dove i diritti umani sono calpestati, dove gli arresti si susseguono, dove i monaci vengono perseguitati e intimiditi; dove chi scende in piazza viene sbattuto in galera; dove, come ha ricordato il Dalai Lama, è in atto un "genocidio culturale" .
Dalla bandiera con le manette al posto dei cinque cerchi inalberata durante l'accensione della fiaccola ad Olimpia al capitano della nazionale olimpica indiana che ha rifiutato di fare il tedoforo quando la fiaccola arriverà a Nuova Delhi, da Sarkozy che minaccia di disertare la cerimonia inaugurale alle migliaia di iniziative per il Tibet libero che si moltiplicano ai quattro angoli del pianeta. L'unica speranza dei tibetani è che il mondo non si dimentichi di loro; che i conigli disseminati nelle cancellerie e nei Palazzi della politica occidentale (e non parliamo di quelli dello sport, vero esimio Rogge, presidente del Comitato Olimpico Internazionale?) siano messi in fuga dalla mobilitazione degli uomini e delle donne che ad ogni latitudine sostengono il Dalai Lama e la lotta del suo popolo. Anche per questo sarebbe importante che, senza distinzione di colore e bandiera politica, dal battaglione di candidati premier che ci stanno tediando con la più noiosa e verbosa campagna elettorale del dopoguerra, si levasse una parola per il Tibet. Coraggio, anche i conigli hanno un'anima. O no?

Xavier Jacobelli, da Quotidiano.net

A sei giorni dal voto

Domenica finalmente si voterà. Non è malcelata attesa dell'esercizio del diritto democratico di opinione politica, ma il sollievo di vedere finalmente finita questa baracconata di campagna elettorale.
I due maggiori partiti hanno firmato un patto di non agressione, eliminando dai programmi ogni riferimento ai problemi reali del paese. Con ciò, hanno lasciato posto ai teatrini ed in questo esercizio il Cavaliere, come ben sappiamo da qualche anno noi tifosi del Milan, è maestro insuperabile. A sentire le sue gag e le eterne promesse sono pieni i palazzetti. Grande comunicatore, forse di grana grossa ma ideale per un popolo ubriacato dai grandi fratelli e dalle isole dei trombati.
Walter, il sindaco di Marte, è sempre più frastornato. Sembra il vecchio Caltagirone. In ogni piazza chiede: "A Fra' che te serve?".
"Annienteremo in tre mesi la mafia e la camorra", "Daremo mille euro di stipendio minimo", "Distribuiremo il bonus bebè, quello spesa, quello del dentista", "Aboliremo le tasse".
Dice che ha raggiunto gli avversari.
Auguri all'Italia. Se sarà vero, festeggeremo tutti per un anno.
Nel frattempo la Destra si agita, gli Arcobaleni sono scomparsi, ed ai comizi della lista più pazza del mondo i cretini di sinistra lanciano uova e sassi per sentirsi ancora vivi.
Come finirà?
Faccio una previsione azzardata ed al solito sbagliata.
Record di non votanti e vittoria del Berlusca alla Camera.
Per il Senato decideranno i presidenti di seggio.

06 aprile 2008

Quelli giusti del 1968

Dedicato ai migliori

Noi che ci divertivamo anche facendo "Strega comanda color". Noi che le femmine ci obbligavano a giocare a "Regina reginella" e a "Campana". Noi che facevamo "Palla Avvelenata". Noi che giocavamo regolare a "Ruba Bandiera". Noi che non mancava neanche "Dire Fare Baciare Lettera Testamento". Noi che ci sentivamo ricchi se avevamo "Parco Della Vittoria" e "Viale Dei Giardini". Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano quando il piede cresceva. Noi che mettevamo le carte da gioco con le mollette sui raggi della bicicletta. Noi che chi lasciava la scia più lunga nella frenata con la bici era il più figo. Noi che "se ti faccio fare un giro con la bici nuova non devi cambiare le marce". Noi che passavamo ore a cercare i buchi sulle camere d'aria mettendole in una bacinella. Noi che ci sentivamo ingegneri quando riparavamo quei buchi col tip-top. Noi che il Ciao si accendeva pedalando. Noi che suonavamo al campanello per chiedere se c'era l'amico in casa. Noi che facevamo a gara a chi masticava più Big Babol contemporaneamente. Noi che avevamo adottato gatti e cani randagi che non ci hanno mai attaccato nessuna malattia mortale anche se dopo averli accarezzati ci mettevamo le dita in bocca. Noi che quando starnutivi, nessuno chiamava l'ambulanza. Noi che i termometri li rompevamo, e le palline di mercurio giravano per tutta casa. Noi che dopo la prima partita c'era la rivincita, e poi la bella, e poi la bella della bella... Noi che se passavamo la palla al portiere coi piedi e lui la prendeva con le mani non era fallo. Noi che giocavamo a "Indovina Chi?" anche se conoscevi tutti i personaggi a memoria. Noi che giocavamo a "Forza 4". Noi che giocavamo a "Fiori Frutta e Città (e la città con la D era sempre Domodossola). Noi che con le 500 lire di carta ci venivano 10 pacchetti di figurine. Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l'album Panini. Noi che ci spaccavamo le dita per giocare a Subbuteo. Noi che avevamo il "nascondiglio segreto" con il "passaggio segreto". Noi che giocavamo per ore a "Merda" con le carte. Noi che le cassette se le mangiava il mangianastri, e ci toccava riavvolgere il nastro con la penna. Noi che in TV guardavamo solo i cartoni animati. Noi che avevamo i cartoni animati belli! Noi che litigavamo su chi fosse più forte tra Goldrake e Mazinga (Goldrake, ovvio). Noi che guardavamo "La Casa Nella Prateria" anche se metteva tristezza. Noi che abbiamo raccontato 1.500 volte la barzelletta del fantasma formaggino. Noi che alla messa ridevamo di continuo. Noi che si andava a messa se no erano legnate. Noi che si bigiava a messa. Noi che ci emozionavamo per un bacio su una guancia. Noi che non avevamo il cellulare per andare a parlare in privato sul terrazzo. Noi che i messaggini li scrivevamo su dei pezzetti di carta da passare al compagno. Noi che non avevamo nemmeno il telefono fisso in casa. Noi che si andava in cabina a telefonare. Noi che c'era la Polaroid e aspettavi che si vedesse la foto. Noi che non era Natale se alla tv non vedevamo la pubblicità della Coca Cola con l'albero. Noi che le palline di Natale erano di vetro e si rompevano. Noi che al nostro compleanno invitavamo tutti, ma proprio tutti i nostri compagni di classe. Noi che facevamo il gioco della bottiglia tutti seduti per terra. Noi che alle feste stavamo sempre col manico di scopa in mano. Noi che se guardavamo tutto il film delle 20:30 eravamo andati a dormire tardissimo. Noi che guardavamo film dell'orrore anche se avevi paura. Noi che giocavamo a calcio con le pigne. Noi che le pigne ce le tiravamo pure. Noi che suonavamo ai campanelli e poi scappavamo. Noi che nelle foto delle gite facevamo le corna e eravamo sempre sorridenti. Noi che il bagno si poteva fare solo dopo le quattro. Noi che a scuola andavamo con cartelle da due quintali. Noi che quando a scuola c'era l'ora di ginnastica partivamo da casa in tuta. Noi che a scuola ci andavamo da soli, e tornavamo da soli. Noi che se a scuola la maestra ti dava un ceffone, la mamma te ne dava due. Noi che se a scuola la maestra ti metteva una nota sul diario, a casa era il terrore. Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca, mica su Google. Noi che internet non esisteva. Noi che però sappiamo a memoria "Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea Conti Tardelli Rossi Antognoni Graziani (allenatore Bearzot)". Noi che "Disastro di Cernobyl" vuol dire che non potevamo bere il latte alla mattina. Noi che compravamo le uova sfuse, e la pizza alta un dito, con la carta del pane che si impregnava d'olio. Noi che non sapevamo cos'era la morale, solo che era sempre quella... fai merenda con Girella! Noi che si poteva star fuori in bici il pomeriggio. Noi che se andavi in strada non era così pericoloso. Noi che però sapevamo che erano le quattro perché stava per iniziare "Bim Bum Bam". Noi che sapevamo che ormai era pronta la cena perché c'era "Happy Days". Noi che il primo novembre era Tutti i Santi, mica Halloween.

dal blog Classequintabi
(la classe di liceo di mio figlio Stefano, e dei tanti suoi compagni che ho conosciuto e di cui sono diventato un amico vecchio).

04 aprile 2008

Il prato del vicino è sempre più verde. Ma è steppa ovunque.

Lasciatevelo dire da uno che ora mai... è dequi!

A Roma, nella hall dell'hotel Hassler, capita di sentire Radio Dimensione Suono in filodiffusione.
A Milano c'è la musica lounge anche dal "pizzicarolo" sotto casa.

Il milanese ha un concetto molto personale e relativo delle distanze. Se vi dice con aria preoccupata: "Accidenti, dobbiamo andare dall'altra parte di Milano!", vi porterà a destinazione in massimo venti minuti. E sbuffando.
Se un romano vi dice: "Aho, dobbiamo andare dall'altra parte di Roma!" e sono le undici della mattina ci vorrà un'ora e un quarto, se sono le sette della mattina ci vorranno due ore, se sono le sei del pomeriggio la tabella di marcia prevede una notte in un qualsiasi Motel Agip sul raccordo anulare.

A Milano, durante le pause pranzo, al tavolino a fianco sentirete parole come "marketing", "conference call", "planning", "account manager", "forecasting".
A Roma, durante le pause pranzo sentirete dire: "Totti", "Tacci de Veltroni", "Totti", "Tacci de Lotito", "Totti", "Tacci dell'arbitri", "Totti", o anche argomenti che esulano dal pallone quali: "Tacci de sti zingari, nun se ne po' più".

A Milano si chiama "brunch".
A Roma è, semplicemente: "S'annamo a magnà quarcosa?".

A Milano si chiama "aperitivo".
A Roma è, semplicemente: "Annamo a bere quarcosa?".

A Milano è "brieffare".
A Roma: "Se vedemo così te spiego".

A Milano una cena è "easy".
A Roma è: "Viè vestito come cazzo te pare".

A Milano è: "Sabato vado a cena con la mia ragazza di default".
A Roma è: "Sabato vado a cena con la mia ragazza... du cojoni".

A Milano una festa ha il suo "mood" e la gente è "stilosa".
A Roma una festa ha i suoi imbucati e se a una ragazza dici: "Come sei stilosa!", ti risponde: "Stilosa sarà tu sorella".

A Milano vai nei negozi tipo "Hi-Tech" e ci trovi le coppiette di anziani che maneggiano con disinvoltura oggetti di design e cavatappi di Alessi.
A Roma la coppietta di anziani la trovi a Mondo Convenienza, con la signora che dopo aver aperto un cassettone sotto al divanoletto non riesce più a richiuderlo e chiama il genero, terrorizzata all'idea che il caporeparto le possa fare un cazziatone pubblico.

A Milano, di norma, al ristorante gli orientali sono in giacca e cravatta a discutere d'affari con una bottiglia di vino da cento euro sul tavolo.
A Roma, di norma, se c'è un orientale in un ristorante o sei al cinese o ti lascia un accendino a forma di ranocchio sul tavolo.

A Milano è sempre la settimana di qualcosa: della moda, del mobile, del design, delle nuove tecnologie, della mutanda sgambata, del cucchiaio da polenta.
A Roma niente che abbia a che fare col lavoro o col commercio dura più di tre giorni. Se qualcosa ne dura sette, avrà a che fare col cibo o con la beneficenza o col calcio e in quel caso, per dare l'idea di fatica, sarà comunque denominata "maratona" (culinaria, di solidarietà, di festeggiamenti da scudetto).

A Milano la gente si incontra casualmente per strada o nei locali. Si saluta. Si riconosce.
A Roma se vai in giro e incontri uno che conosci, fai domanda alla commissione vaticana per avviare le procedure per il riconoscimento del miracolo.

Per i milanesi un furgoncino fermo al semaforo è traffico.
Per il romano un tir ribaltato ad un incrocio con sette volanti della polizia, due camion dei pompieri a spegnere il fuoco e quindici veicoli coinvolti in un tamponamento con sei feriti gravi è, notoriamente, strada sgombra.

A Milano il venerdì partono tutti. La città si svuota.
A Roma, nel weekend, quelli che vivono nei quartieri popolari provano ad andare in gita al centro, ma ci sono i varchi e non riescono a entrare nel cuore della capitale. I benestanti provano ad andare all'Argentario o a Sabaudia, ma restano in coda sulla Pontina o a Torrimpietra, per cui non riescono a uscire dalla capitale.
Morale della favola: il venerdì, Roma è stracolma de' romani n'cazzati neri.


Per un milanese, se in un quartiere ci sono almeno due palazzi che non somiglino al quartier generale della Cia, quello è un quartiere bellissimo.
Il romano generalmente lascia al milanese la pia illusione che sia così.

(Ricevuto dall'amico Giovanni).

Hanno scritto (4)

Il superfluo dei ricchi è il necessario dei poveri.
Possedere, allora, il superfluo è trattenere per sé il bene altrui.

Sant'Agostino

Buonismo è avere compassione dei carnefici di Gesù Cristo.
Povera gente così mal pagata per tanta fatica.


Léon Bloy

01 aprile 2008

Quelli che se la cercano

Non è vero che i morti sono tutti uguali: continuiamo a credere che gli atti delle persone abbiano una certa importanza anche nei paesi in cui la responsabilità individuale di fatto non esiste. Per questo l’ondata di retorica sulla morte del tifoso del Parma, condita dalla solita ipocrita decisione di non giocare la partita, ha avuto toni se possibile ancora più assurdi di quelli usati l’11 novembre scorso per la morte di Gabriele Sandri, un altro ragazzo di buona famiglia bisognoso psicologicamente di dare un inquadramento militare alla propria passione calcistica. Come nel caso del tifoso laziale, Matteo Bagnaresi e i suoi compagni avevano attaccato briga con tifosi della Juventus durante una sosta all’autogrill: non erano insomma passanti o appassionati di calcio che si stavano facendo gli affari loro, fra una rustichella fredda ed un very best di Pupo pescato nel cestone. Rispetto all’episodio di quasi cinque mesi fa, nato da un litigio fra cani sciolti ormai terminato e male interpretato da un poliziotto, quello dell’area di servizio Crocetta Nord ha una connotazione più classicamente da tifo organizzato. Un centinaio di Boys del Parma incrocia un gruppo di juventini lontani dal mondo ultrà (Juventus Club Crema) e dopo averli 'avvertiti' già in autostrada, assedia il loro pullmann con le solite modalità. Pezzi di vetro, cinghie, bottiglie, minacce, con tentativo di salire sull’automezzo: intenzioni al centodieci per cento non pacifiche, paura fra gli occupanti, alcuni dei quali già colpiti mentre erano allo scoperto, ed ovvia richiesta all’autista di scappare il più in fretta possibile. Qui Bagnaresi si piazza davanti al pullmann con le mani alzate: un pacifista sfortunato? Non escludiamo niente, ma di sicuro non si trovava lì per caso come sarebbe potuto essere, ad esempio, per un qualunque altro cliente dell'autogrill. Poi l’incidente e tutte le cose che si sono dette, con l’italianissimo tentativo di mettere tutto e tutti sullo stesso piano quando invece ci sono stati aggressori e aggrediti, professionisti della provocazione senza causa (ci riferiamo a tutti gli ultras del mondo, non solo i Boys) e tifosi normali, gente che veniva da tre anni di Daspo (come Bagnaresi) e persone che volevano solo occupare la propria domenica. Poi la nostra cultura-blob può mettere Sandri e Bagnaresi sullo stesso piano morale di Salvo D’Acquisto, anzi lo sta già facendo, con annessi minuti di silenzio, trofei alla memoria e sociologia del ‘siamo tutti colpevoli’, dimenticando che qualche volta alla morte si va incontro.

di Stefano Olivari, su Indiscreto

Expo cosa?

Con enfasi paesana è stata festeggiata l'assegnazione dell'Expo 2015 a Milano.
Abbiamo spezzato le reni a Smirne, che buona parte della stampa locale ha pervicacemente collocato in Grecia per lungo tempo.
La geografia, è noto, da tempo non è più materia di insegnamento nelle scuole, sostituita da droghe leggere e palpeggiamenti delle parti intime delle insegnanti.
La vittoria è stata un'opportuna occasione per recitare l'abituale teatrino all'italiana.
È risaputo che nel Belpaese il palcoscenico della vittoria è sempre affollatissimo. Mancava vasavasa Cuffaro, impegnato in una fiera gastronomica del cannolo siciliano, ma gli altri c'erano tutti ed hanno trovato modo di azzuffarsi ed insultarsi, rivendicandosi meriti ed onori.
È persino ricomparso il desparecido della politica italiana Prodi.
Avrà colto l'occasione per perfezionare la svendita di "Aliscioperi" ad Air France.
Forse gli unici che si sono fatti un mazzo tanto per portare a casa questa manifestazione molto retrò e sostanzialmete inutile sono stati Formigoni e Moratti.
Da lombardo-milanese, avrei apprezzato che tanto impegno fosse stato indirizzato verso una migliore vivibilità del territorio, ormai ridotto a livelli meditterranei.
Ma forse, con i finanziamenti promessi questo miracolo potrebbe realizzarsi.
Ora, finita la sbornia di spumante e parole in libertà, c'è da chiedersi come sarà gestita questa avventura.
La domanda non è superflua poiché sul nostro passato grava la macchia di Italia '90, che rappresenta un epocale scempio di denaro pubblico che i signorini dei quartieri alti (dentone Moratti ed emége Montezemolo) realizzarono in combutta con il declinante partito socialista, ormai dedito a tempo pieno al pizzo tangentaro (agli smemorati consiglio di rileggersi le cronache del tempo).
Il rischio è quello di mettere in piedi uno spettacolo indecoroso fatto di opere faraoniche ed inutili,vedi terzo anello e copertura di San Siro, arrembaggio dei soliti noti toponi, ricorsi al Tar dei verdi-ecologisti, sospensione dei lavori, ritardi disastrosi nella realizzazione delle opere, ritorno trionfante della magistratura militante.
Insomma, un bella Milanopoli per i nipoti del prossimo ventennio.
L'altra ipotesi, pragmatica e modesta, è imitare Lisbona, Siviglia e, perché no, Torino, senza i furti, approfittando di un'inutile occasione per modernizzare e rilanciare la città.
Vedaremm.
Ma senza illusioni.