28 luglio 2008

Arrivederci a Settembre

Ed ora una sosta vacanziera.
Saluti di riposo e benessere a tutti gli amici.

25 luglio 2008

In BPM dopo 18 anni un Direttore Generale di scuola interna

Giovedì sera il CdA di BPM ha nominato all'unanimità Fiorenzo Dalù direttore generale.
Decisione importante, quasi storica, perché dopo più di tre lustri la popolare milanese torna ad avere al vertice un manager di scuola interna e di solida formazione commerciale.
Sembra di potere affermare che il difficile percorso che dovrà portare anche alla riforma dello statuto ed alle scadenze assembleari della primavera prossima sia cominciato in modo virtuoso e con un'assonanza di consensi così ampia da fare sperare superati gli infantilismi e gli steccati isterici dell'ultimo anno.

19 luglio 2008

Giustizia malata (2)

Stupisce la scarsa perspicacia politica di Walter Veltroni che ha seccamente respinto ieri la proposta di una stagione di riforme bipartsan che nel prossimo autunno affianchi al federalismo anche la giustizia. Stupisce soprattutto l'incapacità del presidente del Pd di comprendere che la decisione di Silvio Berlusconi di affidare a "tre saggi" la stesura delle linee della riforma della giustizia, cambia il quadro di riferimento
Soprattutto elimina alla radice ogni possibile dubbio di una riforma viziata da interessi di parte del premier. Solo un Veltroni masochisticamente placcato da Di Pietro e in stato confusionale, può non accorgersi che Francesco Cossiga, Giuseppe Gargani e Romano Vaccarella non sono personalità disposte a macchiare le loro biografie con proposte di basso profilo. Applicando la tecnica dello spariglio, con fantasia istituzionale, Berlusconi offre oggi al Pd e all'Udc un tavolo di alto livello, più che aperto ai loro contributi. Mette a disposizione del confronto con l'opposizione uno strumento agile, pronto a recepire le sue suggestioni. Una preziosa sponda per quella parte del Pd che sa bene che è indispensabile affrontare il nodo gordiano della giustizia -che ha strangolato anche il governo Prodi- ma che non sa oggi come prendere l'iniziativa. Stranamente isolato nel suo stesso partito, Luciano Violante da mesi ha avanzato proposte stimolanti di riforma della giustizia che - per una intrigante nemesi storica - saranno sicuramente guardate con grande attenzione dai "tre saggi".

Il Tempo, editoriale del 19 luglio.

Giustizia malata (1)

L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati.
L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.
Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.
È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?
Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).
In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.
Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.
Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.
Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro.

Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera

18 luglio 2008

Il calcio mediatico

Della spumeggiante e scintillante notte di Ronaldinho a San Siro è rimasto impresso un oggetto, datato, addirittura vetusto, ancorché d‘ordinanza negli studi professionali di New York da mille dollari al minuto quadro: un paio di bretelle. Le indossava Lorenzo Cantamessa, figlio d’arte di Leandro, l’avvocatissimo del Milan e della Lega Calcio, in una parola di zio Fester. Nere, o almeno così è sembrato, seriose, larghissime. Ogni bretella copriva mezzo busto dell’impettito avvocato che incedeva, con ventiquattr’ore d’ordinanza nella mano, verso il tavolo della conferenza stampa. Lì un Galliani gigioneggiante lo stava aspettando al fianco di Ronaldinho per la firma thriller. Tutto improvvisato, sia chiaro. Nella borsa del giovane Lorenzo le copie fresche di inchiostro contenenti le ultime postille del contratto fiume. Postille determinanti, e sopratutto fuori tempo massimo; le bretelle parlavano chiaro. Bretelle sulla camicia con la giacca appesa nello studio, sinonimo di urgenza, imprevisto, “Dannazione non c’è un attimo da perdere” da telefilm poliziesco. In sala un brivido lungo la schiena, per i più. Per gli altri, i distratti, quelli ancora inconsapevoli di vivere la Storia in diretta (pochissimi per la verità) è arrivata in soccorso una concitatissima signora in golf colore rosso che si è precipitata verso Cantamessa. La signora, una segretaria? un’interprete? No, una velina no, magari una semplice funzionaria affannata e affamata di telecamere (l’avremmo rivista più tardi raggiante e incollata a Ronaldinho in mezzo al campo durante i fuochi d’artificio) con un guizzo alla Mennea ha voluto interporsi tra Lorenzo Cantamessa e il vuoto davanti a lui, appunto per fargli spazio e recuperare tempo prezioso. L’effetto “imprevisto nell’imprevisto” della Signora in Rosso ha fatto elegantemente il paio con le bretelle Nere dell’Uomo della Legge producendo prima il brusio quindi l’applauso desiderato: “Ci siamo, ci siamo!”. In alto dunque i cellulari, le firme, i clic per la foto dell’anno: “La Storia Siamo Noi”.

da Calciomercato.com


Per noi che abbiamo perso la poesia ma non la fede, resta difficile prevedere se il Divin Dentone sarà l'uomo della rinascita o il monotono ripetersi di brutte sceneggiature sin troppo recenti(Ciccionaldo, Pato).
La passione ferita non ha impedito di incollarsi al televisore per gustarsi la diretta della presentazione con la migliore predisposizione di questo mondo, direi quasi con il fanciullesco entusiasmo di quei 40.000 pirla che sono andati di persona a vedere i fuochi di artificio e le foche con il pallone.
Fingendo di credere che tutto fosse spontaneo.
Sino a quando è stata messa in scena la pagliacciata del contratto firmato in presa diretta di telecamere, con il pelato brianzolo che fingeva svenimenti.
Qui è cascato l'asino.
Era solo un teatrino televisivo, con la guest star chiamata a potenziare l'audience ed i finti giornalisti a fare da claque.
Il funerale del calcio popolare e la nuova frontiera del reality calcistico.
Comunque, qualcosa che non riguarda più i veri milanisti.

Qual è il vero motivo per cui il Papa è andato in Australia

Il papa, i giovani, l’Australia. Alla Giornata Mondiale della Gioventù di Sidney questi sono i tre ingredienti principali. Sembrano fare a pugni tra loro, ma il papa è convinto di no. Come il solito i media hanno sbagliato bersaglio. Quando si tratta di religione, la tendenza a secolarizzare è molto forte. Il papa ha detto mezza parola sulla tutela dell’ambiente e i giornali a riportalo come un grande novità. Poi il papa ha detto che c’è contrasto tra essere prete e compiere abusi sessuali e i media a sottolineare l’affermazione come se fosse anche questa una novità. Qualcuno ha anche riportato con enfasi la frase del papa secondo cui gli abusi sessuali impediscono la santità. Poi ci si è soffermati sugli indigeni, che in Australia – è vero – sono cittadini di serie B. Il fatto è che il papa non è andato a Sidney per parlare di ecologia, né per occupare i titoli dei giornali con le sue invettive contro gli abusi sessuali di qualche sacerdote, né per denunciare le ingiustizie sociali di quel continente. Farà anche questo, se necessario, ma non è là per questo. E là per lanciare questa sfida: cosa ci stanno a fare insieme il papa, i giovani e l’Australia?
L’Australia è uno dei paesi più secolarizzati del mondo, con un benessere molto diffuso e una inflazione inesistente. E’ un paese dalle mille culture e dalle mille religioni, ma soprattutto è un paese postreligioso o, come si dice di solito, “emancipato”, dalle larghe vedute. La Chiesa è proprio per questo sofferente. Ricca anch’essa, in grado di aiutare generosamente altre chiese più povere, ma spesso proiettata sull’orizzontale, sulla salvaguardia dell’ambiente e sui diritti degli indigeni, appunto. Cose sacrosante in sé, ma che non fanno il cuore del cattolicesimo. La scelta di Sidney non è stata casuale: una terra ai confini, non solo ai confini del Pacifico, ma anche ai confini della fede o forse già ampiamente oltre. A questa Australia, e al mondo che essa rappresenta, il mondo “post”, il papa va a fare l’annuncio di Cristo, che qui può anche risuonare come un “primo” annuncio. La secolarizzazione non è un destino, l’allontanamento dalla fede, che i moderni maestri ci hanno abituato a considerare “menzongna” – L’uomo ha bisogno di Dio, quindi Dio non esiste, sosteneva Freud - non è una necessità, la ruota della storia può cambiare il proprio giro, la battaglia non è ancor conclusa. In quelle terre il papa è andato per parlare di Gesù Cristo e per aiutare quella Chiesa a ritrovare il suo essere, che non è quello di una agenzia sociale.
A Sidney sono arrivati tanti giovani da tutto il mondo. Le statistiche ci dicono che il gruppo maggiore viene dagli Stati Uniti e il secondo dall’Italia. Ce ne sono anche molti dall’Oriente. L’arrivo dei giovani americani e italiani ha un senso preciso, quello della ripresa. Il papa fa molta leva sugli Stati Uniti – lo si è visto nel suo viaggio recente - e sull’Italia. A questi due paesi assegna un ruolo particolare nella rievangelizzazione. Al primo per la saggia soluzione che ha sempre dato al rapporto tra fede e ambito pubblico. Il secondo perché esprime ancora una religione di popolo, che si è preservata, anche se ne è stata molto provata, dalla secolarizzazione della morte di Dio. Sono truppe giovanili che vanno in soccorso ai giovani australiani. Questi ultimi ascolteranno il papa, ma ascolteranno anche i loro coetanei di Washington e di Roma. Si sentiranno meno soli nel testimoniare una verità che il loro mondo fatica ad accettare. Sono arrivati anche i giovani poveri del Vietnam o delle Filippine, arrivati lì proprio grazie agli aiuti della Chiesa australiana. E da loro i supervitaminizzati giovanottoni australiani apprenderanno forse una ingenuità che essi hanno perduto, ma non irrimediabilmente. Spesso chi è nel bisogno – come dice il Salmo – vede meglio e di più.
Durante questa GMG I giornali continueranno prevedibilmente a carpire qua e là qualche frase del papa a sfondo sociale o politico, nel tentativo di orizzontalizzare quanto è verticale. Ma il papa è andato a Sidney e ha incontrato i giovani proprio per dire il contrario, ossia che un orizzonte solo orizzontale non è un vero orizzonte.

Stefano Fontana, su L'Occidentale

15 luglio 2008

Draghi mette sotto tiro BPM

La Banca Popolare di Milano deve cambiare in tempi rapidi lo statuto riducendo il peso dei dipendenti-soci in consiglio di amministrazione. E in tempi altrettanto celeri deve provvedere al varo di un nuovo piano industriale. La rivoluzione della governance di Bpm è stata imposta ieri dalla Banca d'Italia, dopo un'accurata ispezione durata sei mesi. Al verbale d'ispezione, letto al cospetto del cda dalla responsabile della Vigilanza di Via Nazionale Anna Maria Tarantola, era allegata una lettera firmata personalmente dal Governatore di Bankitalia Mario Draghi. Ed è proprio nella missiva, stando alle indiscrezioni, che verrebbero poste in termini perentori le richieste di presentare entro 45 giorni – insieme alla replica della banca ai rilievi ispettivi – una nuova bozza di statuto (che Bankitalia dovrà approvare) e un nuovo piano industriale. Bankitalia chiede anche che il cda proceda in tempi rapidissimi alla sostituzione del direttore generale Fabrizio Viola, dimessosi nei giorni scorsi.La vera svolta per la atipica governance di Bpm riguarda i meccanismi del voto assembleare per la nomina del cda. Nel mirino del Governatore è finito l'attuale «premio di maggioranza» che garantisce, di fatto, alla lista dei dipendenti-soci coordinata dai sindacati interni 16 consiglieri su 20. Bankitalia chiede che questo «premio» venga ridotto sensibilmente. E contesta il computo dei consiglieri (2) nominati dalla lista dei soci-pensionati tra quelli realmente di minoranza.La revisione della governance, secondo le preoccupazioni espresse da Bankitalia, si è resa necessaria perchè – al termine dell'ispezione – è risultato che l'autoreferenzialità degli attuali meccanismi di governance non permette più lo sviluppo di un piano per la banca.La perentorietà dell'invito a modificare lo statuto, che dopo il via libera di Via Nazionale dovrà essere approvato entro fine anno da un'assemblea straordinaria di Bpm, è destinata a riaprire i giochi per la nomina del nuovo cda ad aprile 2009. La riduzione del peso dei dipendenti-soci apre le porte a una significativa rappresentanza delle minoranze, compresi gli investitori istituzionali che attraverso l'Associazione Bpm 360° (promossa dal fondo Usa Amber Capital) hanno già bussato al libro soci della banca.I rilievi di Bankitalia sono contenuti nel verbale ispettivo (e nell'allegata lettera di Draghi) illustrata ieri al cda della Bpm da parte della responsabile della Vigilanza Anna Maria Tarantola, accompagnata dal responsabile Bankitalia di Milano e dal capo degli ispettori. In un clima interno di crescente tensione – a seguito delle dimissioni del direttore generale Fabrizio Viola, che hanno amplificato il faro del mercato e delle Autorità sulla governance di Bpm – il consiglio presieduto da Roberto Mazzotta ha ascoltato per circa due ore la dura relazione della Vigilanza. In serata una nota ufficiale di Bpm si è limitata a dire che «il cda si è impegnato a fornire le risposte richieste e ad adottare i provvedimenti indicati sia sulle questioni relative alla struttura e al funzionamento del governo aziendale, sia sulle questioni operative, nel rispetto dei tempi prescritti». Nessun accenno ai contenuti del verbale, anche se è presumibile che oggi il mercato dovrà avere qualche informazione dato il rilievo delle modifiche di governance. Ora il cda ha 45 giorni di tempo per dare risposta ai rilievi di Bankitalia. Martedì 22 il cda tornerà a riunirsi, anche se – sempre stando alle indiscrezioni – la data è considerata prematura per una valutazione collegiale delle risposte da dare all'ispezione. Non è escluso invece che già lunedì prossimo il cda possa nominare il nuovo direttore generale di Bpm, accogliendo il pressante invito di Bankitalia ad avere un responsabile operativo nel pieno delle sue funzioni. Prima del consiglio di amministrazione, si era riunito il comitato esecutivo che aveva vagliato le candidature interne. Tra questi, i nomi più probabili restano quelli del direttore finanziario Enzo Chiesa e del direttore commerciale Fiorenzo Dalu. Il duro monito di Bankitalia ha indotto l'esecutivo a tornare a riunirsi d'urgenza subito dopo la fine del cda.

da Il Sole 24 Ore, del 15 luglio 2008

14 luglio 2008

Expo 2015, solo se riuscirà a dare un volto nuovo a Milano sarà un successo

Se si riflette sulle Expo universali di maggiore qualità nella storia dei quasi due secoli di queste manifestazioni, si deve constatare come, da quella di Chicago nell’Ottocento a quella di Lisbona tenuta in anni recenti, quelle che hanno lasciato un segno urbano veramente forte sono quelle che sono intervenute sul tessuto della città. Certo c’è anche la Torre Eiffel di Parigi, c’è qualche meraviglioso edificio a Londra che il Palazzo di cristallo e altri in giro per il mondo a ricordare eventi architettonici glamour e di qualità connessi con le varie Expo. Ma le esposizioni che “pesano” sul serio sono quelle che aiutano a ridisegnare la città contemporanea, un moloch difficile da gestire.
In qualche modo è questa anche la storia dell’Expo milanese del 1906, che fissa per sempre l’asse del Sempione (già lanciato in epoca napoleonica) come elemento orientativo per lo sviluppo di Milano.
Si riuscirà nel 2015 a ripetere questa impresa? La prossima manifestazione continua a insistere sull’asse del Sempione, definitivamente consolidato dal lancio – non particolarmente brillante ma comunque “lancio” – della Malpensa e poi dalla costruzione della nuova Fiera milanese a Rho-Pero. Anche gli interventi urbanistici-architettonici più rilevanti negli ultimi anni (soprattutto adesso che alcuni immobiliaristi che avevano investito in altre aree stanno entrando in crisi) insistono su questo asse: così gli interventi sull’area della vecchia Fiera (con i tre gratttacieli modernizzanti, tra cui quello meravigliosamente “storto”) e la ristrutturazione dell’area Garibaldi-Repubblica che sono “in linea” con la via del Sempione.
Ma al di là di questa corretta impostazione di base, si riuscirà a fare operazioni urbanistiche più complesse che segnino una nuova qualità dello sviluppo milanese? Non sono, i nostri, tempi particolarmente propizi per le città italiane. Si consideri anche i casi del Comune di Roma, giustamente criticati pure da uno dei protagonisti della politica di sviluppo della Capitale in questo quindicennio, Walter Tocci, ottimo assessore ai trasporti per diversi mandati. Invece di ridare forma al “costruito” a Roma si è scelto di espandere ancora una città che ha dimensioni già particolarmente ingovernabili. Certamente, oltre che con una logica di amicizie collegate al blocco di potere rutellian-veltroniano peraltro poi clamorosamente fallito, si è scelto di farlo cercando di appoggiare i nuovi quartieri sul trasporto su ferro e di dotarli di spazi verdi. Comunque è difficile dissentire da Tocci sull’errore generale che si è compiuto espandendo ancora Roma.
Milano dalla sua ha rapidamente esaurito gran parte delle aree industriali lasciate libere dalla modificazione del tessuto urbano cittadino. Più di un intervento privato ha una sua logica non disprezzabile, ma nel complesso si sono perse molte occasioni puntando soprattutto su residenziale, commerciale e un generico terziario. In parte questo è stato inevitabile in una città decapitata dal furore giustizialista del ’92.
Oggi chi prepara la nuova Expo, gli organizzatori si concentrano molto sui contenuti, sugli eventi e su una pianificazione legata all’esaltante tema del “nutrire il pianeta”. Ma miliardi di euro in interventi in infrastrutture e in costruzione di padiglioni di cui sarebbe bene pensare subito il riuso, devono spingere anche a riflettere su come utilizzare tutte queste risorse secondo un disegno coerente della nuova Milano. Secondo me, lo si fa partendo, innanzi tutto, da due temi: come valorizzare le strutture di ricerca di Milano e come riqualificare le periferie.

Lodovico Festa su L'Occidentale

10 luglio 2008

Vecchie ricette da Draghi

Va bene tutto, ma non tassate le banche. Mentre l’Italia stringe la cinghia e l’Istat ci dice che le famiglie hanno iniziato a risparmiare anche su pranzo e cena, il governatore della Banca d’Italia si ricorda di essere liberista solo quando c’è da privatizzare pezzi dello Stato a gran vantaggio di qualche banca internazionale amica.
Se però non c’è trippa per gatti, allora meglio indossare i panni del gran banchiere e partire per la più classica delle difese corporative.
All’assemblea annuale dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, giù quindi contro la Robin Tax, la tassa che nelle intenzioni del ministro Tremonti dovrebbe colpire i ricchi lasciando al riparo – per una volta – i ceti medi.
Se le banche dovessero essere tassate – ha spiegato Draghi – poi potrebbero scaricare gli oneri sui clienti e – dunque – di nuovo sulle famiglie.
Nemmeno una parola, invece, per dire – se le banche dovessero effettivamente rigirare i costi sui correntisti – quale potrebbe essere il ruolo della Banca d’Italia. Banca che una volta passati all’euro non si capisce più bene che cosa ci sta a fare, se non la solita messa cantata zeppa di allarmismi e pessimismo sull’economia planetaria.
Tremonti non ha perso così l’occasione per rispondere a Draghi per le rime, ricordando che trasferire le tasse dalle imprese ai clienti è una dottrina vecchia. Una dottrina dei tempi in cui piuttosto che tassare i ricchi si alzavano le imposte direttamente sugli operai.Una battuta che non ha turbato più di tanto il governatore, rientrato presto nella serena quiete del suo bel palazzo in via Nazionale.
Un palazzo dove si taglia il capello in quattro sugli effetti dell’inflazione e l’andamento dei mercati petroliferi, ma non si ricorda una presa di posizione minimamente efficace sui costi dei servizi bancari, sulle commissioni, sui tempi biblici ancora necessari per far passare un bonifico da un istituto all’altro.
Un palazzo da dove non ci si è fatto ancora sapere come Bankitalia può trasformarsi in una moderna Autorità in grado di tutelare i risparmiatori (oltre che le banche).
Naturale che l’associazione delle banche italiane tuteli i suoi interessi, soprattutto in un momento non entusiasmante per l’economia, ma la lezioncina di una immobilissima (passateci il termine) Banca d’Italia di fronte a banche mobilissime quando c’è da pescar soldi dai correntisti, questa no, Draghi ce la risparmi, per favore.

da L'Occidentale

09 luglio 2008

Auspici in devoluzione

Immaginate di avere una perdita d'acqua in casa. Chiamate l'idraulico, gli spiegate il problema e questi, anziché intervenire, vi risponde dicendo "auspico che il guasto venga riparato". Ma come? Tu sei l'idraulico, sei tu che dovresti risolvermi la perdita e invece mi dici che auspichi? Naturalmente si tratta di una situazione al di fuori della relatà. Se tuttavia facciamo una traslazione dal mondo degli idraulici a quello dei politici non è difficile rendersi conto di come l'irrealtà appena descritta si trasformi in quotidiana normalità. Quanto più il politico è importante, infatti, e quanto più riveste un ruolo istituzionale elevato tanto maggiore è il ricorso alla formuletta del verbo auspico. A cui si aggiungono poi altre espressioni magistrali tra cui "formulo l'augurio che...", "bisogna trovare le condizioni affinché...", "è necessario andare verso una convergenza/piattaforma di...". Insomma, un Paese di politici auspicatori, a partire dal giovane Napolitano.E allora istituiamo un bel fondo di devoluzione in cui far convergere delle multe simboliche (un misero 100 euro) ogni volta che un politico o un uomo delle istituzioni tiri fuori la parola auspico. Conta la prova televisiva. Sono certo che in poco tempo si raccoglierebbe una somma enorme, da destinare poi a qualche progetto utile e interessante.

Nautilus, su Ali e radici

Nel calcio non si è mai campioni del mondo per caso

Il mito del Kempes consapevole

Le rievocazioni del 1978 hanno raggiunto il livello di guardia: ormai anche gli eremiti sanno a memoria i nomi del commando di via Fani (tutti più o meno a piede libero, fra un dibattito e l'altro sulla 'nostra generazione'), ma anche il trentennale del Mondiale argentino non scherza. Con il labile pretesto di una 'partita della memoria' giocata al Monumental ed alla quale si sono presentati solo Luque, Villa ed Houseman. Il tutto per ribadire l'ovvio, cioè che quella di Videla e colleghi fu una dittatura sanguinaria: con oppositori o semplicemente non allineati arrestati, torturati, uccisi o fatti sparire nell'ordine delle decine di migliaia. Ma anche il meno ovvio, cioè che i calciatori in qualche modo sapessero quello che stava accadendo e che quella Coppa alzata da Passarella al termine della finale con l'Olanda sia stata doppiamente insanguinata. Per questo, tralasciando i discorsi sulla sporcizia 'sportiva' di quel mondiale (il sei a zero al Perù, l'arbitraggio di Gonella, eccetera), questo della squadra 'colpevole' rischia di tramandarsi in eterno come un falso mito. Non a caso gli esponenti di 'sinistra' (sinistra in Sudamerica spesso significa solo non essere pro-dittatori) di quel gruppo, Flaco Menotti in testa, si defilano sempre da questo tipo di iniziative. Dagli anni Trenta al 1983, quando fu letto presidente Alfonsin, l'Argentina è stata governata da personaggi sostenuti dai militari, quando non direttamente dai militari stessi: se con colpi di stato o elezioni spesso è stato un dettaglio. Lo stesso Juan Peron, eletto nel 1946, era un ufficiale dell'esercito oltre che un fervente ammiratore del fascismo. Questo per dire che Tarantini e Olguin sono cresciuti in un contesto sociale in cui per l'uomo della strada, non diciamo l'intellettuale o il politico ma l'uomo della strada, Videla non doveva poi sembrare tanto diverso da molti suoi predecessori. Almeno fino a quanto il figlio di questo uomo della strada non veniva prelevato di notte a casa, senza farvi mai più ritorno: solo in quel momento poteva nascere una consapevolezza che di sicuro non poteva venire da una stampa che per ingentilire il regime si inventava anche le lettere di Krol al figlio. Doverose le rievocazioni, quindi, ma pretendere che la dittatura fosse rovesciata da un Kempes consapevole era ed è un po' troppo.

Stefano Olivari, su Indiscreto

Polizza di lunga vita per Berlusconi

La suburra dei dipietrini, grillini, sfasciacarrozze, girotondini pensionati, si è convocata in Piazza Navona per fanculare Berlusconi al grido di fascismo, fascismo. Poi si è fatta prendere la mano dai guitti in erezione ed ha esteso l'insulto al Papa ed a Napolitano in un tripudio esaltato.
I compagni di schieramento, ricevuto il boomerang sul grugno, ora si dilungano in distinguo, sconcertato dolore, casiniani "l'avevamo detto". Il Pd veltroniano precipita nell'abituale psicodramma.
Il red D'Alema ride soddisfatto.
Da Tokio, Berlusconi ringrazia i fessi del coro.

07 luglio 2008

Nadal è il nuovo re del tennis

Sette ore e passa dinanzi al televisore, fra gioco e soste per pioggia, per vedere un incontro di tennis: la finale di Wimbledon.
Uno sport che mi prende emotivamente ma di cui capisco relativamente poco.
Ma per creare interesse e fascino non occorre essere esperti di regolamenti e tecniche di gioco, è sufficiente farsi prendere dalle sensazioni di un evento importante, qual è la finale di Wimbledon, e gustarsi gli umori di una grande sfida fra due antagonisti di classe e carisma.
Vale per il tennis ma anche per il football americano e forse anche per il cricket o il gioco della lippa.
Federer e Nadal sono rispettivamente il n° 1 ed il secondo delle classifiche mondiali.
Il primo è un caimano che divora tutti da anni, il secondo, più giovane, si appresta ad imitarlo ed, in effetti, da un anno è il migliore delle classifiche.
Il destino ha voluto che si trovassero di fronte per l'appuntamento più fascinoso dell'anno, per la finale di un torneo che da oltre cent'anni assegna l'alloro del migliore al mondo sull'erba.
La battaglia è durata 5 set, si è sviluppata in modo ammaliante con un dominio iniziale del più giovane e sfrontato e con un faticoso, ansioso recupero del più anziano e titolato, che ha ceduto solo all'ultimo game del quinto set, fra le ombre lunghe della notte ormai incombente.
Il fascino di questa sfida non è stato per il contenuto tecnico della contesa, tutto affidato a chi randellava la pallina più forte dell'altro, ma sull'eterna contesa tra il vecchio che difende il suo trono ed il giovane più fresco e sfrontato che glielo insidia.
Una legge eterna della vita, drammatica, ricca di patos e di umori, un risultato scontato ma sempre diverso perché diversa è la dignità nella sconfitta.
Ha vinto ovviamente il giovane sfrontato, spocchioso iberico Nadal.
Ha perso lo svizzero Federer (glielo si leggeva sul volto) che la sua sconfitta l'ha inesorabilmente assaporata in ogni minuto di quelle sette ore di contesa.
Perché la sconfitta, prima di certificarla sul campo o nella vita, nel tuo intimo te la bevi, minuto per minuto, sempre in ogni frangente, da un immenso calice di fiele.

05 luglio 2008

Perché l'obbligatorietà dell'azione penale non è più un dogma

Vietti, Biondi, Cicala, Violante, Perduca e Della Loggia trattano un’idea un tempo intrattabile. Chi è ottimista e chi no.

A sfogliare i quotidiani in questi giorni, a leggere e ascoltare le dichiarazioni di politici, esperti e professori, l’impressione è che il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione cominci a sentirsi vecchio. Che insomma polemiche e scontri su giustizia, magistratura, Cav. e processi stiano parallelamente creando un fronte comune trasversale pronto a ridiscutere quello che per molti è “un principio non applicabile”, per cui “l’uguaglianza di fronte alla legge” suona come formula retorica. Non è un tema nuovo, questo, e in passato ha visto tra i suoi sostenitori anche nomi non certo vicini a Silvio Berlusconi, come il politologo Alessandro Pizzorno che definiva “una finzione” l’obbligatorietà dell’azione penale. Che oggi ci siano le premesse per un dibattito che porti a un cambiamento?
Per Luciano Violante “non ci sono tabernacoli intangibili, ma occorre capire dove si colloca il problema: molti lo ritengono un problema dell’ordinamento giudiziario, invece ha a che fare con il sistema politico. Su questo bisogna ragionare per discuterne in radice. Sappiamo tutti che è un’ipocrisia quella dell’obbligatorietà dell’azione penale, quindi ben venga un dibattito sul tema, ma senza che si abbia un processo alle spalle, senza interessi personali di mezzo e senza avere fretta di chiudere la partita”. Anche per Michele Vietti (Udc), “quello dell’obbligatorietà dell’azione penale è un simulacro: la moltiplicazione delle norme penali incriminatici e l’iniziativa dei singoli pm slegata da qualunque logica di coordinamento fanno sì che i reati da perseguire e quelli da far prescrivere siano scelti in base a criteri non trasparenti”. Per l’ex sottosegretario alla Giustizia, però, “discuterne in un clima di rissa finisce per farli accettare acriticamente o rifiutare pregiudizialmente”. Secondo Vietti, “un’ipotesi potrebbe essere quella di una sessione annuale del Parlamento sulla giustizia in cui, sentiti i procuratori delle Corti d’appello, i procuratori generali, il Csm e il ministro, si decidono una serie di priorità sull’esercizio dell’azione penale”.
Anche l’ex ministro della Giustizia Alfredo Biondi pensa che sia “un dogma da ridiscutere”, e aggiunge: “Oltre che obbligatoria occorrerebbe che l’azione penale fosse anonima”. Prima di toglierla del tutto, però, per l’ex senatore di Forza Italia bisognerebbe apportare due semplici cambiamenti: “L’obbligatorietà dell’azione penale deve essere regolata dal procuratore capo che, magari dopo un confronto con l’ordine degli avvocati, decide certe priorità piuttosto che altre, anche in base ai carichi di lavoro della procura, come ha fatto Maddalena a Torino, per esempio. Tutto questo ovviamente assieme alla separazione delle carriere oltre che delle funzioni dei magistrati”. Il senatore radicale del Pd Marco Perduca la definisce “un’anomalia tutta italiana che necessita una riforma, non palliativi da polemica quotidiana”. E’ ottimista il senatore, che per settembre è tra gli organizzatori di un convegno internazionale proprio su questo tema: “Non mi sembra di avere visto chiusure significative: fatta eccezione per l’Italia dei valori, anche a sinistra mi pare ci sia lo spazio per far crescere un po’ di movimento che porti a una discussione seria. L’importante è che se ne continui a parlare”.
E’ pessimista lo storico Ernesto Galli Della Loggia, che in un editoriale di domenica scorsa sul Corriere metteva la degenerazione dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pm in “totale arbitrio d’iniziativa del pm” come primo dei tre punti rivelatori della “patologia che affligge la giustizia italiana”. Dice infatti al Foglio che “è difficile che si apra un dibattito, perché sul tema dovrebbero essere i giuristi a esprimersi, ma essi sono ideologicamente prigionieri della loro militanza politica a sinistra; non c’è coraggio nei professori di Diritto penale e costituzionale”. Per l’editorialista del Corriere l’astio nei confronti di Berlusconi rovina tutto: “Non se ne farà nulla perché quella dei giuristi è una corporazione che si sente in dovere di sacrificare il proprio sapere alle ragioni della militanza politica”. Mario Cicala, esponente storico di Magistratura indipendente, sottolinea infine due problemi: “Oltre alla discrezionalità di celebrare i processi, vi è anche una discrezionalità del potere di indagine del magistrato che sceglie lui dove andare a cercare notizie di reato. Soltanto partendo da questa constatazione può iniziare un dibattito che farebbe abbandonare miti vuoti come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”.

da Il Foglio, del 5 luglio 2008

La Lega invita Berlusconi a cambiare rotta

Il saggio Calderoli ha oggi pronunciato parole chiare e razionali sul tema giustizia e priorità di governo. Ha rammentato che le priorità che il popolo ha consegnato ai vincitori sono potere d'acquisto dei salari, detassazione e federalismo. Il tema giustizia è un nervo scoperto della società italiana ma anche e solo un affanno di Berlusconi, e non è risolvibile con leggi-salvacondotto ma piuttosto con una profonda riforma di lungo periodo concepita in una logica bipartisan. Ciò è indispensabile per la portata drammatica dell'argomento e politicamente opportuno per isolare i giustizialisti alla Di Pietro. Per i fabbisogni processuali del premier basta ed avanza il lodo Alfano, in attesa di rimettere mano all'obbligatorietà dell'azione penale, magari secondo gli schemi cui Nordio ha lavorato per cinque anni.
L'uscita di Calderoli è a mio avviso sintomatica dell'irritazione leghista per il mese di follia di Berlusconi, e sottointende anche qualche importante presa di distanza nel Pdl dell'ala Tremontiana.
L'altolà arriva quanto mai opportuno per rimettere in linea di gallegiamento l'azione di governo e per mandare un segnale chiaro e forte a Berlusconi. Gli anni dell'improvvisazione e della difesa degli interessi particolari sono finiti. Questa maggioranza ha fiato per governare per più lustri se saprà realizzare gli importanti obiettivi di politica economica e sociale che il paese si aspetta.
O l'uomo di Arcore se ne fa una ragione o questa maggioranza ha forza e fiato per avvicendarlo al posto di comando.

01 luglio 2008

Europei 2008: gli iberici hanno vinto e convinto

Il centravanti campione del mondo che ti segna più di zero gol in cinque partite, il grande talento del calcio italiano che avendo intorno fiducia si mette e fare la differenza, il centrocampo che pur senza il suo regista è pieno di gente che ha vinto tutto da protagonista, la difesa registrata dopo l'esordio disastroso, il miglior portiere del mondo o giù di lì: Donadoni si starà chiedendo come mai gli azzurri non siano campioni d'Europa, con lui glorificato ed il ridicolo contratto prolungato in automatico, ma questo non toglie che le sconfitte ai rigori siano vere sconfitte (altrimenti le vittorie non sarebbero vere vittorie, dalla Coppa del Mondo in giù) e che la Spagna in ogni reparto abbia una qualità ed un'età media da fare spavento non solo ad un'Italia che comunque i suoi De Silvestri e Balotelli li produce sempre. Grottesca la retorica sui giovani, che applicata alla Spagna prende spesso connotazioni politiche (i vecchi spagnoli saranno rinchiusi in qualche lager?), così come la scoperta di Aragones che allena da 35 anni ai massimi livelli nella Liga. E che fra poco a 70 anni, invece di fare il santone ritirandosi o gestendo una Spagna che va avanti da sola, proverà per la prima volta l'avventura all'estero sulla impossibile panchina del Fenerbahce che ha distrutto i nervi non solo di Zico ma anche di gente come Hiddink, Parreira, Ivic, Venglos e Baric. Grande coraggio, complimenti. In questo Europeo la bravura di Aragones, oltre a quella di pensionare Raul-Del Piero (ancora valido ma troppo condizionante), è stata soprattutto gestire con il pugno di ferro le rotazioni dei giocatori, particolarmente complicate a centrocampo dove quasi sempre Fabregas e Xabi Alonso sono partiti dalla panchina. Integrando il tutto con cambi di posizione che hanno fatto la differenza, in questo favorito dalla versatilità di un Iniesta di superlusso. Poi l'infortunio di Villa in leggero calo gli ha paradossalmente facilitato il compito nel finale: se con un centrocampo a quattro gli avversari vedevano poco la palla, con uno a cinque non l'hanno proprio mai vista. Un successo dal peso specifico pazzesco, passando in scioltezza il girone, superando con merito i campioni del mondo e la squadra con i picchi di rendimento più alti dell'Europeo, infine evitando di perdere la testa in una finale da strafavoriti. Vinta correndo pochi rischi contro una Germania dalle poche armi, lasciando capire che ci sarà molto altro da dire: con in panchina un altro saggio come Vicente Del Bosque, anche lui senza le emozioni del visionario ma con la credibilità (e rispetto ad Aragones qualche trofeo in più, ogni paese ha i suoi amanti del genere 'bacheca') per farsi ascoltare da un gruppo di talenti.

Stefano Olivari su La Settimana Sportiva