21 giugno 2009

“Questo papa non mi piace”

È una frase che spesso si sente dire da chi fa un confronto tra l’attuale “Pontefice” e Giovanni Paolo II. Questo Papa “è difficile da capire!”... o forse ci chiede una minore superficialità e un maggiore sforzo intellettuale? Sicuramente Benedetto XVI è (come lo presentano i mezzi di comunicazione di massa) un conservatore... oppure lavora in profondità per creare futuro?
Lasciamoci aiutare da questo articolo di fratel Enzo Bianchi (Comunità di Bose) dal titolo “Un papa, un rabbino e un imam”, che fa riflettere sul viaggio del Papa in Terrasanta di qualche settimana fa.

Sono rare e preziose le circostanze in cui è dato di cogliere quasi fisicamente il significato di certe parole. Il viaggio di Benedetto XVI in Israele e Giordania ci ha dato la possibilità di cogliere in pienezza la portata di uno dei titoli attribuiti al papa: «Pontefice», ideatore e costruttore di ponti. Compito non facile perché, restando nella metafora, bisogna conoscere bene il terreno sulle due sponde che si vogliono congiungere, i materiali da usare, le persone da impiegare; bisogna saper attendere e osare, costruire sostegni provvisori e rimediare a difficoltà impreviste. Tutti problemi che possono solo aumentare quando, come in Medioriente, le sponde non sono solo due ma tre e quando sono da secoli, se non in conflitto, almeno in costante attrito. È stata proprio questa missione di «pontefice» a innervare le giornate, gli incontri, le parole e i gesti di Benedetto XVI in Terrasanta. Conoscenza dei problemi, ascolto attento delle realtà concrete, consapevolezza della difficoltà della missione uniti a una sapiente fermezza hanno fatto sì che il Papa non abbia ceduto a nessuna pressione politica e si sia mostrato in ogni momento autentico fautore di pace: l’agenda degli appuntamenti e le parole dei discorsi non erano dettate da pressioni esterne, anche perché il successore di Pietro non dimentica che, qualora alcune sue parole dispiacessero a qualcuno, restano sempre di consolazione le parole di Gesù: «Beati voi quando diranno male di voi!». Anche stavolta non sono mancate critiche e rimproveri nei suoi confronti, ma paiono debitrici soprattutto di un clima ormai instauratosi di incomprensioni e diffidenze che impedisce a molti di riconoscere la sincera volontà di pacificazione e riconciliazione che anima il Papa. In realtà, parole forti del Papa sui dolorosi problemi che affliggono quella regione della Terra non erano certo mancate in questi anni, ma anche le parole hanno un peso diverso a seconda del luogo e del tempo in cui vengono pronunciate. Così, il «senso tragico» di un muro lo si coglie in pienezza quando ce lo si trova di fronte, costruzione che si erge plasticamente antitetica a qualsiasi ponte, a qualsiasi strada che mette in comunicazione un uomo con il proprio fratello in umanità. E se davanti al Muro occidentale il silenzio del Papa si è fatto preghiera in solidarietà con l’Israele orante di tutti i tempi, davanti al muro eretto da mani d’uomo contro altri uomini le sue parole sono state un grido di dolore. Anche la memoria della Shoah si scolpisce indelebilmente nelle menti e nei cuori quando - come nel museo Yad Vashem - è accompagnata dalla presenza dei «nomi» che evocano le persone: «Concederò nella mia casa e dentro le mie mura - dice il Signore - un memoriale e un nome (yad vashem)... darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Isaia 56,5). Lì, con un discorso di altro tono rispetto a quello del suo predecessore Giovanni Paolo II, ma con altrettanta chiarezza e parresia ha fatto memoria di un’immane tragedia inclusiva ricordando, assieme ai «sei milioni di ebrei brutalmente sterminati», tutte le vittime della storia, «da Abele il giusto» fino all’ultimo anonimo essere umano perseguitato, torturato e ucciso. Per tutti ha fatto risuonare la consolante parola della Scrittura: «Le misericordie di Dio non sono finite, né esaurite». Ma la terra cara ai tre monoteismi è custode di una cultura millenaria che non scinde mai le parole dai gesti, dalla concretezza di un vissuto che può a sua volta essere narrato, raccontato, spiegato da una parola nuova, rivisitata e inverata dall’agire. E anche di questi gesti è stato intessuto il viaggio di Benedetto XVI, come la salita al Monte Nebo per contemplare come Mosè una terra «altra», sempre promessa e mai pienamente posseduta; o come il raccoglimento nella moschea di Amman, rispettoso di uno spazio di preghiera che non è possibile condividere ma che si può accogliere nel cuore. Anche la sosta di raccoglimento e di preghiera di fronte al Muro occidentale e a Yad Vashem sono gesti forti, ormai assunti dalla Chiesa cattolica come «luoghi» di un dialogo nella carità. Ma il gesto che forse resterà come pietra angolare del ponte gettato in questo pellegrinaggio viene ancora una volta dall’inatteso, dalla capacità di cogliere i segni di un tempo propizio e di trasformarlo in evento che si imprime negli occhi e nel cuore. Il Papa, un rabbino e un imam che si alzano in piedi, si prendono per mano e uniscono le loro voci nell’invocazione che sale a Dio da tutta l’assemblea - «Pax, Shalom, Salam!» - dice ben di più dei confronti intellettuali sui temi religiosi, dei giusti distinguo sui pericoli del sincretismo, di ogni ragionamento sul permanere di alterità inconciliabili... Ormai «la Chiesa cattolica è impegnata in modo irreversibile sul cammino scelto dal Vaticano II per una riconciliazione autentica e duratura tra cristiani ed ebrei», così come è auspicabile che si creino «luoghi, oasi di pace e di meditazione in cui la voce di Dio possa nuovamente essere ascoltata, in cui la verità possa essere scoperta al cuore della ragione universale». Anche la necessità del dialogo interreligioso è stata riaffermata in quel tenersi per mano al canto di invocazione della pace: «Cristiani e musulmani - ha affermato il Papa - devono proclamare insieme che Dio esiste, che si può conoscerlo, che la Terra è la sua creazione». Un dialogo convinto che si spinge fino a ricercare una dimensione «trilaterale», coinvolgendo ebrei, cristiani e musulmani e che diviene decisivo per perseguire la pace e permettere a ogni persona di vivere la propria fede e a ogni comunità di credenti di testimoniare la pertinenza della fede in un mondo indifferente alla presenza di un Dio creatore e salvatore: così si impedirà anche che le differenze religiose siano strumentalizzate da integralismi sempre possibili. Conversando con i giornalisti nel volo di ritorno, Benedetto XVI ha ribadito «l’impressione che in tutti gli ambienti - ebrei, cristiani e musulmani - ci sia una decisa volontà di dialogo interreligioso: non una collaborazione per motivi politici, ma dettata dalla fede. Credere che questo Dio ci vuole famiglia implica questo incontro del dialogo e della collaborazione come esigenza della fede stessa». Sì, il viaggio è apparso davvero come pellegrinaggio di fede incarnata nell’oggi della storia e la costruzione di ponti, il dialogo ne rimane la chiave interpretativa più feconda.

da L'In-formatore, del 7-21 giugno 2009

19 giugno 2009

Il Presidente sciupafemmine

Nella più recente storia di puttane, Berlusconi e conseguente codazzo della magistratura militante, quello che non si coglie nella canea vociante del giornalismo radical-chic sono parole di pena verso lo squallore di una vecchiaia che, invece di risplendere di saggezza ed equilibrio, si nutre di sesso guardone ed ostentazione di licenziosità.
L'immoralità è una connotazione di questa società ed in fondo anche essere il primo puttaniere d'Italia potrebbe essere, nella loro logica, una genialata di marketing.

Il 24 luglio

Caro Cav, un premier non si difende così.

Berlusconi denuncia un piano eversivo contro di lui, regista il gruppo editoriale di Repubblica e settori dell’opposizione vicini ad una magistratura sensibile alle sollecitazioni politiche più faziose. Può essere che abbia ragione, tanto più che non parla di un oscuro complotto ma del dipanarsi alla luce del sole di una campagna di feroce inimicizia, che rimesta nel privato e punta al character assasination, al più completo sputtanamento del nemico sul piano interno e internazionale. Questa rappresentazione della realtà, e chiamatela se volete "funzione di garanzia della libera stampa", nessuno la può onestamente negare. Il problema è che le armi affilate di questa campagna provengono tutte da Berlusconi in persona e del suo entourage. La prima arma è una licenziosità di comportamento difficile da classificare, con molti tratti d'innocuo divertimento che abbiamo cercato di spiegare e di difendere su queste colonne fin dove possibile, uno stile di vita esposto comunque ai noti meccanismi di condizionamento e di ricatto che, vero o falso che sia il singolo caso scandalistico, sono la eterna tentazione di coloro che frequentano in condizioni non perfettamente trasparenti gli uomini pubblici. La seconda arma è un’autodifesa spesso risibile, esposta al ludibrio della stampa italiana e internazionale, difficile da capire nella logica di uno staff compos sui, capace di fare il proprio mestiere. Quando l’avvocato Ghedini, deputato, ammette anche solo per assurdo che possa essere vero il racconto di Patrizia D’Addario, la ragazza che si è non troppo metaforicamente autodenunciata come putain de la République et du premier ministre, e aggiunge che il suo cliente e leader non potrebbe comunque essere perseguito penalmente perché "utilizzatore finale" del corpo della ragazza, non soltanto dice una bestialità culturale e civile, ma riduce la storia in cui si cerca di invischiare il suo cliente, il che è veramente grave, a qualcosa di simile a quello che capitò all’onorevole Cosimo Mele. Il presidente del Consiglio dei ministri, per quanto sfolgoranti siano le sue doti anomale di leader di un'Italia politica sburocratizzata, inventiva, orgogliosa, liberale, giocosa e un po' pazza, non può comportarsi come un deputato di provincia preso con le mani nel vasetto della marmellata. Se non vuole stendere un velo di penosa incompetenza sull'insieme del suo lavoro di uomo di stato, per molti aspetti ottimo, Berlusconi deve liberarsi della molta stupidità e inesperienza politico-istituzionale che lo circonda, e deve decidersi: o accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni. Il premier non si fa rappresentare da dichiarazioni slabbrate, non naviga per settimane tra mezze bugie che alimentano sospetti anche e soprattutto sugli aspetti più candidi del suo comportamento, non si dà per accessibile al primo che passa: un capo di governo parla al paese, agisce sulle cose che contano, evita di farsi intrappolare nello scandalismo, parla un linguaggio di verità capace di indurre il grosso della nazione, o quella parte di essa che non ha portato il cervello all'ammasso dell'antiberlusconismo più fazioso, a voltare pagina e stroncare le provocazioni. Altrimenti si andrà avanti con questo 24 luglio permanente, in un clima di sospetti di palazzo arroventato da un establishment sempre pronto a tutte le incursioni corsare e anche da una classe dirigente di maggioranza e di governo attenta alle proprie convenienze e opportunisticamente piegata, orecchio a terra, a captare i rumori e i rumors di un imminente declino. Siamo da molti anni amici politici non servili di Berlusconi, figura importante di un cambiamento italiano tuttora incompiuto e abbiamo fatto il possibile, e talvolta l'impossibile, per razionalizzare il suo comportamento e valutarlo con la fairness che gli è negata dai molti farabutti che lo avversano. Ma ora tocca a lui tirarsi su da questa incredibile condizione di minorità civile in cui si è ficcato, e reagire con scrupolo, intelligenza e forza d'animo. La situazione si è fatta grave, e perfino seria.

da Il Foglio, del 18 giugno 2009

04 giugno 2009

43 anni

Oggi fanno 43 anni dalla data del mio matrimonio.
Sarebbe bello poterlo festeggiare ancora in due.

Israele: una meravigliosa terra tragica

Sono tornato da Israele. Ricco di emozioni e di esperienze, come sempre viaggiando per terre straniere.
Le prime le lascio al mio intimo, non sono materia da blog ma da riflessioni personalissime.
Le esperienze sono state forti ed indimenticabili, le stesse provate in Egitto, un'altra terra culla della civiltà meditterranea.
Israele non è solo Terra Santa per ebrei, cristiani e musulmani.
È anche lo specchio di un'umanità che non riesce a convivere sebbene abbia in comune la razza, le radici territoriali e una religione monoteista. È la maledizione dell'uomo, oserei dire, che nei luoghi più sacri della sua tradizione riesce a generare i mostri insanabili dell'odio e dell'intolleranza.
La domanda che ci si pone partendo è: potranno mai convivere?
La sensazione dice no, e non solo perché gli ebrei sono proiettati nel terzo millennio con la rabbia di fare, mentre gli arabi restano figli di un medioevo non solo religioso ma anche civile e culturale.
Voglio dire che mancano gli elementi di connotazione comune che sono stati il mixer di popoli egualmente divisi e travagliati.
Leggo che Obama, come già il Papa, caldeggia una soluzione: due popoli, due stati.
È una falsa soluzione. Le due comunità sono intersecate territorialmente l'una nell'altra, sono geneticamente intolleranti (vedi la diaspora dei cristiani nei territori arabi), hanno un solo credo fondante: eliminarsi reciprocamente.
Come finirà? Io penso che l'alternativa ad un massacro finale, probabilmente degli ebrei, sia un ritorno all'inizio della vicenda moderna.
Un protettorato internazionale, possibilmente dell'Unione Europea, che elimini le frontiere ed i muri della vergogna ma che impedisca le stragi palestinesi e le ritorsioni israeliane con un regime di polizia pressante ma indipendente dalle parti in causa.
Vorrebbe dire convivere con una controllata dose di terrorismo reciproco.
Sarà possibile? Non ho abbastanza anni per verificarlo, ma credo sia l'unica alternativa ad un massacro finale che renderebbe ancora più tragica la storia di questa terra in cui tutto l'Occidente affonda le sue radici religiose e culturali.