23 dicembre 2010

Bilancio di un'epoca (fine)

Arriva il 25 ottobre.

1969:

Non succede nulla.

2010:
È il giorno del cambio dell'ora legale: le persone soffrono d'insonnia e di depressione.


La fine delle vacanze.

1969:

Dopo aver passato 15 giorni di vacanza con la famiglia, nella roulotte trainata da una Fiat 125, le vacanze terminano.
Il giorno dopo si ritorna al lavoro freschi e riposati.

2010:

Dopo 2 settimane alle Seychelles, ottenute grazie ai Last Minute, rientri stanco ed esasperato a causa di 8 ore di attesa all'aeroporto, seguite da 12 ore di volo.
I bagagli devi andarteli a riprendere la settimana dopo.
Al lavoro ti ci vogliono 4 giorni per riprenderti dal fuso orario.


Come si dice: viviamo in un'epoca davvero formidabile!

22 dicembre 2010

Bilancio di un'epoca (2)

Disciplina scolastica

1969:
Fai il bullo in classe. Il professore ti molla una sberla. Quando arrivi a casa, tuo padre te ne molla un’altra.

2010:
Fai il bullo in classe. Il professore ti domanda scusa. Tuo padre ti compra una moto e va a spaccare la faccia al prof. che ha fatto la spia. Forse dovrai andare dallo psicologo.


Michele vuole andare nel bosco all'uscita da scuola. Mostra il suo coltellino a Giovanni, col quale pensano di fabbricarsi una fionda.

1969:
Il preside vede il suo coltello e gli domanda dove l'ha comprato, per andarsene a comprare uno uguale.

2010:
Il preside chiama la polizia che porta Michele in commissariato e la scuola chiude.
Il TG1 presenta il caso durante il telegiornale in diretta dalla porta della scuola.
Studio Aperto fa un servizio sui Centri Sociali.


Franco e Marco litigano. Si danno qualche pugno dopo la scuola.

1969:
Gli altri seguono lo scontro. Franco vince. I due si stringono la mano e anni dopo, ne riparleranno ridendo con mogli e figli.

2010:
La scuola chiude.
Il TG1 denuncia la violenza scolastica.
Il Corriere della Sera mette la notizia in prima pagina su 5 colonne.


Enrico rompe il parabrezza di un auto nel quartiere. Suo padre si sfila la cintura e gli fa capire come va la vita.


1969:
Enrico farà più attenzione la prossima volta.
Diventa grande normalmente, finisce gli studi, va all'università e diventa una bravo professionista.

2010:

La polizia arresta il padre di Enrico per maltrattamenti sui minori.
Enrico si unisce ad una banda di delinquenti.
Lo psicologo arriva a convincere sua sorella che il padre abusava di lei e lo fa mettere in prigione.


Giovanni cade nell'intervallo durante una corsa con i compagni. Si ferisce il ginocchio e piange. La maestra lo raggiunge, lo prende in braccio per confortarlo.

1969:

In due minuti Giovanni sta meglio e continua la corsa.

2010:

La maestra è accusata di perversione su minori e si ritrova disoccupata, si becca 3 anni di prigione con la condizionale.
Giovanni va in terapia per 5 anni. I suoi genitori chiedono i danni e gli interessi alla scuola ed al Ministero per negligenza nella sorveglianza, e alla maestra per trauma emotivo.
Vincono tutti i processi. La maestra disoccupata e interdetta, si suicida gettandosi da un palazzo.
Più tardi Giovanni morirà per overdose in una casa occupata.

21 dicembre 2010

Bilancio di un'epoca (1)

Latte, burro e uova

1969:
Vai a prendere il latte dal lattaio, che ti saluta, con in mano il bidone in alluminio; prendi il burro fatto con latte di mucca, tagliato a panetti. Poi chiedi una dozzina di uova che sono messe in un vaso di vetro. Paghi con il sorriso della lattaia ed esci sotto il sole splendente. Il tutto ha richiesto 10 minuti di tempo.

2010:
Prendi un carrello del cavolo, che ha una ruota bloccata e lo fa andare in tutti i sensi salvo in quello che tu vorresti, passi per la porta che dovrebbe girare, ma che è bloccata perché un cretino l'ha spinta; cerchi il settore latticini, dove normalmente ti ghiacci e cerchi di scegliere fra 12 marche di burro, che dovrebbe essere fatto a base di latte comunitario. E controlli la data di scadenza...
Per il latte: devi scegliere fra vitaminico, intero, scremato, nutriente, per bambini, per malati, ad alta digeribilità o magari in promozione.
Per le uova: cerchi la data di deposizione, se sono deposti a terra o in gabbia, il nome della ditta e soprattutto verifichi che nessun uovo sia incrinato o rotto.
Fai la coda alla cassa, ma la cicciona davanti a te ha preso un articolo in promozione che non ha il codice...
Allora aspetti e aspetti... Poi sempre con questo carrello del cavolo, esci per prendere la tua auto sotto la pioggia, ma non la trovi perché hai dimenticato il numero della corsia...
Dopo aver caricato l'auto, bisogna riportare l'arnese rotto e solo in quel momento ti accorgi che è impossibile recuperare la moneta...

Torni alla tua auto sotto la pioggia che è raddoppiata nel frattempo...
È più di un'ora che sei uscito.



Fare un viaggio in aereo

1969:
Viaggi con Alitalia, ti danno da mangiare e ti invitano a bere quello che vuoi, il tutto servito da bellissime hostess: il tuo sedile è talmente largo che ci si può stare in due.

2010:
Entri in aereo continuando ad impigliarti con la tua cintura, che ti hanno fatto togliere in dogana per passare il controllo. Ti siedi sul tuo sedile e se respiri un po' forte, dai una botta con il gomito allo schienale del vicino. Se hai sete lo steward ti porta la lista e i prezzi sono stratosferici.

18 dicembre 2010

Un Natale a luci spente

La crisi di vocazioni sacerdotali ha ridotto gli organici ai minimi storici in Italia. Per fronteggiare la situazione si è provveduto ad un accorpamento di parrocchie, con una soluzione vagamente federale, ritenendo forse non maturi i tempi per affidarsi a preti extra-comunitari.
Tant'è ma il risultato è sconfortante. Nella mia chiesa, ridotta di rango,le messe hanno subito un drastico taglio tremontiano, la vita comunitaria ne ha sofferto e la casa parrocchiale, senza inquilino è chiusa.
È un segno dei tempi che si preannunciano veramente tempestosi se i messaggeri evangelici dovessero assotigliarsi ulteriormente.

01 dicembre 2010

Un sogno chiamato Barça

Tecnica, radici e calcio totale: l'utopia realizzata

La partita perfetta del Barça al Camp Nou è l'utopia realizzata, il calcio totale del terzo millennio capace di concretizzare l'antico sogno del club: fondere l'anima e la tecnica catalana con il pensiero calcistico olandese che dagli Anni '70 (con Rinus Michels e Joahn Cruyff) ha permeato la storia blaugrana. Alla disintegrazione del Real Madrid hanno partecipato - davanti al mondo intero, fra cui 1 milione e 320 mila persone sintonizzate con Sky - ben 8 canterani (diventati 10 con l'ingresso di Bojan e Jeffren), gente del famoso vivaio de La Masia, esemplari di calciatori tutti con caratteristiche ben precise e riprodotte in serie: tecnica di base sopraffina, creatività e «catalanità». Un imprinting fortissimo che, oltre a un generale risparmio (la rosa del Barça è costata 157 milioni, quella del Real 477), determina una memoria genetica di gioco e un senso di appartenenza unici. «Ai miei grandi catalani parlavo dell'orgoglio di giocare per il loro popolo, agli stranieri parlavo di soldi...», raccontò il furbo Helenio Herrera ricordando il proprio periodo al Camp Nou dal 1958 al 1960. Retorica, forse, ma la grinta con cui il Barça, guidato dall'icona e capitano Puyol, pressa e sa difendere (particolare sempre decisivo per costruire le grandi squadre) e la ferocia con cui ha infierito sul Real con il quinto gol al 91', oltre che alla storica rivalità e alle provocazioni di Mourinho, ha probabilmente a che fare anche con questo. A La Masia, non a caso nata su suggerimento di Cruyff nel '79 all'allora presidente Nuñez sull'esempio dell'Ajax, l'hardware domestico si integra con il software olandese, che prevede un modulo base (4-3-3) e la versatilità dei giocatori, chiamati a svolgere diverse funzioni, cambiare posizione, insomma «fare tutto» nel miglior modo possibile. Esemplari sono gli scambi di posizione fra Pedro e Messi e il movimento - mai a vuoto e senza sprechi di energie - di Xavi e Iniesta, protetti nel loro lavoro creativo da Busquets, fondamentale uomo-sponda che offre sempre una linea di passaggio per il tiki-taka veloce come un flipper. Tra le mille sfumature di questa filosofia, la più interessante è l'assenza di un attaccante sfondatore. Da La Masia, mediamente, escono grandissimi centrocampisti, difensori solidi, bravi portieri, ma non bomber tradizionali. Non a caso, nella storia recente del club, i grandi realizzatori sono stati importati: Lineker, Stoichkov, Romario, Ronaldo, Eto'o, Ibrahimovic. E non a caso Guardiola si è liberato senza problemi degli ultimi due, estremizzando il principio supremo del football all'olandese. «Il calcio totale è ricostruire ogni volta l'architettura spaziale del campo, creare spazio ed entrarci», diceva Barry Hulshoff, difensore del grande Ajax degli Anni '70. È quello che fa il Barça, ridisegnando il campo in tante ristrette zone per «torelli» con l'avversario e creando azioni-gol lavorate ai limiti del manierismo. Tutto ciò, per essere inaffrontabile come con il Real, presuppone uno stato di grazia collettivo. Se non c'è - poiché l'ortodossia non prevede un piano B - arrivano cortocircuiti come quello dell'anno scorso in Champions nei 180' con l'Inter, la cui impresa, dopo lo show di lunedì, appare ancora più leggendaria. Forse qualcuno (magari lo stesso Real a primavera) riuscirà a imitarla, ma gli 8 titoli vinti dal Barça di Guardiola in due stagioni confermano che il calcio totale del Duemila non è solo bellezza ma tanta, tremenda sostanza.

di Alessandro Pasini, dal Corriere dell Sera di oggi

09 novembre 2010

Fine della fajolada rossonera?

Con Allegri nella «guerra» agli intoccabili.

Che Alexandre Pato, firmando il terzo gol milanista a Bari dopo un'ora di sana panchina, abbia festeggiato portando la mano all'orecchio sinistro, è un fatto secondario. Come pure il destinatario (o i destinatari) della sua polemica esultanza: che ce l'avesse col suo allenatore, colpevole di averlo schiaffato tra le riserve, oppure con chi per due volte (Juve e Real) lo aveva fischiato a San Siro, non cambia la sostanza delle cose. Quello che invece conta è il tempismo con cui Massimiliano Allegri ha colto al volo le indicazioni della notte di Milan-Real Madrid. Se i rossoneri non sono affondati contro i mourinhani dopo gli scivoloni di Madrid e con la Juve, il merito è interamente ascrivibile allo zoccolo duro della vecchia guardia, non certo all'aria fritta sparsa a piene mani da Pato e dal suo sodale Ronaldinho. A noi i brasiliani sono naturalmente simpatici perché esprimono allegria e gioia di vivere. Però quando si fa sul serio, i bongo, il samba, la fajolada e tutte le amenità del floklore brasileiro non ci interessano più. Al Milan si gioca a pallone, si corre e, se è il caso, si sputa sangue. Chi, come Ronaldinho e Pato, dimostra di essere duro di comprendonio, non ha più diritto a cambiali in bianco: il suo posto è la panchina. Finalmente, dopo anni di lassismo all'insegna di una malintesa brasilianità, qualcuno l'ha capito. Quel qualcuno è Massimiliano Allegri e noi siamo con lui.

di Alberto Costa, sul Corriere della Sera di oggi

26 settembre 2010

Lezioni di onestà dai ladri

Coira-Flims.
Prima colazione in un albergo svizzero con una compagnia di gitanti italiani.
Sul tavolo un foglietto.
"Ti auguriamo buona colazione, ma non riempirti di cibo il calzone".
Solo un demente può impossessarsi di fette biscottate alla segale o marmellatine che una locanda pugliese si vergognerebbe di mettere in tavola.
Ma il razzismo è un sentimento forte, specie in un paese che è sopravissuto grazie agli evasori fiscali italiani.
Per meglio inquadrare la situazione, la sera prima a cena un caffè orribile come solo questi scimmioni sanno fare: franchi svizzeri 4,50 alla tazza!

Lettera al Foglio

Pier Luigi Bersani dopo la direzione del PD: "La bussola c'è". Mancano ancora solo il vascello, l'equipaggio, il nocchiero, le carte di navigazione e il porto di approdo.

di Michele Magno

19 agosto 2010

Nun ve reggae più

Agosto politico come una pochade teatrale.
Fini l'austero esce dal Pdl con trentatre argonauti, ma giochicchia con il patrimonio di An e con la famiglia della convivente.
Feltri il vendicatore orobico, ormai pervaso da una egocentrica missione distruttrice, finirà per fottere anche il suo editore.
Berlusconi si risveglia senza maggioranza e perde la trebisonda, perché è il momento di fare funzionare la testa e non la pancia. Ma è un ex da un pezzo!
L'opposizione frastornata, perché la storia l'ha posta davanti al bivio agognato: la fine dell'avventura berlusconiana.
Ma quello che tutti avevano capito, ad eccezione dei repubblicones, è sotto i nostri occhi: politicamente non esiste un progetto alternativo, non esiste un candidato, e trovano spazio persino il presidente che ha fatto fallire la regione Puglia o il pallido ciuffettino della Ferrari, ormai scaricato dal clan Agnelli.
Trova così rilievo il progetto del governo tecnico, cioè di quel generone romano che ha contaminato la politica italiana degli ultimi trent'anni e che ha dato illuminante prova di sè con i governi Ciampi e Dini.
La proposta folgorante ed apprezzata dal geometra Bersani è Casini, un portaborse della prima repubblica che non ha saputo imparare la scienza politica della Dc (a sua scusante, era nella corrente di Forlani).
Bossi dice e disdice, ma il pieno l'ha già fatto al nord e questo gli basta.
Tremonti tace. La prudenza senza coraggio si chiama ignavia.
Pochi minuti fa ho scoperto un programma che riproduce vecchi spezzoni cinematografici. Mi sono divertito con la tigre di Arezzo, Amintore Fanfani, e con la graffiante ironia del grande presidente della Repubblica che ci ha lasciato in queste ore. Ma soprattutto con il video di quel grande chansonnier che fu Rino Gaetano, e che suggerisco a tutti di andare a vedere e risentire.
Anni '80: non vi reggo più. Come ora, 2010.
Penisola immodificabile, ladrona, spensierata, dove una minoranza di malfattori sopravvive a tutti i regimi perché è essa stessa il vero eterno regime che comanda da un secolo in Italia.
Alla soglia degli addii vi lascio il messaggio crudo ed inoppugnabile di Rino.
Nun ve reggae più!

23 luglio 2010

Farisei

Il termine indica "i separati" o anche "i separatori", cioè coloro che distinguono i precetti della Legge biblica secondo la loro maggiore o minore importanza. Si tratta di una corrente del giudaismo di taglio spirituale, aperta alle esigenze del popolo,costituita da laici, spesso in contrasto con la corrente sacerdotale detta dei "Sadducei". I Vangeli polemizzano con loro più per l'ipocrisia e l'incoerenza del loro comportamento che non per i contenuti della loro dottrina che era abbastanza vicina ad alcuini insegnamenti di Gesù.

di Gianfranco Ravasi, 500 curiosità della fede

Eden

Il vocabolo di per sè rimanda alla"delizia", al "piacere" anche se nelle lingue della Mesopotamia designava invece "la steppa" e il "deserto". La Bibbia, infatti, identifica la regione di Eden non col "giardino" ma piuttosto col suo contenitore geografico: "Il Signore piantò un giardino in Eden"(Genesi 2,8). È in questa luce che diventa un contenitore "paradisiaco".

di Gianfranco Ravasi, 500 curiosità della fede

21 luglio 2010

A quando l'outing di un magistrato?

I più attenti forse ricordano che qualche giorno fa c’è stato lo sciopero dei giornalisti italiani, l’ennesimo. Non entriamo nel merito, non abbiamo un'opinione, però siamo curiosi di sapere se contro la legge bavaglio abbia scioperato quel signore vicino all’età della pensione, sindacalista viscerale, che al Mondiale appena entrato Lippi in sala stampa dopo la disfatta contro la Slovacchia ha esordito così: “A nome di tutti vorrei ringraziare per i momenti vissuti insieme”. Sicuramente il momento più basso del giornalismo sportivo mondiale.
Probabilmente ha scioperato perfino il suo collega, altro eroe, altro cronista guerriero sempre in prima fila per difendere la libertà di stampa, quello che ha dato l’ultima mazzata all’ex ct: “Marcello, complimenti per il tuo coraggio nel prenderti le responsabilità”. No, non eravamo su Scherzi a parte. E' la stampa italiana, bellezza. E notate che Lippi era al suo ultimo giorno come allenatore, per cui almeno in quella situazione una domanda scomoda la si poteva fare. No, i nostri eroi hanno lasciato che il fallimentare c.t. prendesse in giro un giornalista ugandese reo di avergli fatto una domanda su Totti.
Una pattuglia dell'esercito dei giornalisti scomodo si esibirà oggi a Milanello, con una strategia non dissimile dai colleghi di Appiano e Trigoria. Felici di esswere smentiti dai fatti, dubitiamo che in conferenza stampa sentirete le seguenti domande:
a) Perché mai non cedete almeno 20 per cento del Milan investendo i soldi incassati in acquisti?
b) Come mai non siete riusciti a piazzare nemmeno uno degli undici giocatori in scadenza fra un anno? L’Inter si è liberata di quasi tutti i pesi morti, perfino di Quaresma (non ancora di Burdisso e Mancini)...
c) Come si spiega l’acquisto di Daminuta, uno che in Romania ha giocato 42 minuti in 19 gare, uno che è stato mandato nella seconda squadra in un momento dove la Dinamo non aveva nemmeno un difensore centrale di ruolo? Che ci fa Daminuta al Milan? Sapete che il ragazzo non sa se fare il centrocampista oppure il difensore? Il suo ex allenatore glielo aveva chiesto, lui ha risposto "Mister, non saprei che dire"...
d) Sapete di aver vinto un solo scudetto negli ultimi undici anni?
e) Signor Presidente, ci può confermare che lei stenta a investire per non dare la possibilità all’opposizione di partire con il bolso discorso “Lui pensa al Milan mentre il paese è in crisi”? E come mai si cura di quello che dice l’opposizione, proprio su un argomento di così poco conto? Uno qualsiasi dei vari scandali vale di più dell'ingaggio (teorico) di Dzeko...
Ecco, sarebbe bello sentire queste domande. Ma non accadrà. Vi chiederete forse perché, se facciamo tanto gli eroi, non andiamo a gridarle noi le domande. Risposta semplice: noi non lavoriamo per un quotidiano, nessuno ci paga per fare domande scomode o anche solo domande. E quando le facciamo, visto che spesso non resistiamo alla tentazione, il giorno dopo vediamo il lavoro (gratis) sfruttato dagli stenografi (con stipendio). E poi i grandi giornalisti con la schiena diritta (…) non ti difendono mai, anzi, si dissociano, iniziano a ridere se vieni attaccato dal Lippi di turno, come dire: “Guarda questo, viene qui a creare problemi, viene lui a fare domande, ben gli stai”. E’ accaduto mille volte e accade tuttora, quelli che scioperano sono i primi a farlo: oggi a Milanello sarà pieno di gente che aspetta religiosamente lo stipendio senza mai rischiare.
Qualche anno fa, ad Appiano Gentile, dopo l’eliminazione nei preliminari della Champions contro l'Helsingborgs, Lippi si presentò per dire che non si dimetteva, che si era preso tre giorni liberi per andare con la barca e che il mare era bellissimo. Chiedemmo, noi: “Scusi, ci interessa poco, semmai vorrebbe dirci se è vero che rimane solo per via dei soldi?”. Lui ci guardò male, gli altri si sentirono imbarazzati, ma un collega mise subito le cose a posto: ''Mister, da dove si riparte?''. Anche lui ha scioperato, per la libertà di stampa. Pure quelli che danno alla Juve mille nomi in arrivo, se abbiamo fatti i conti siamo a quota 100 nomi nell’ultimo mese: peccato non sia arrivato ancora nessuno e nessuno arriverà. Dalla lista mancano solo Cruijff e Rensenbrink, per il resto ci sono tutti.
E cosa dire della conferenza stampa di Del Piero, considerato dalla stragrande maggioranza dei tifosi bianconeri la zavorra numero uno? Andate sul sito di Tuttosport, tutti i lettori in coro a sostenere che fino a quando ci sarà lui la Juve non vincerà mai. Risultato? Titoli su Del Piero che ha detto 'Vinciamo tutto', Del Piero che ha detto 'Oggi è sabato', Del Piero che ha detto 'L’anno ha dodici mesi'. Del Piero dovrebbe ritirarsi, ma qualcosa al calcio ha dato. Questo tipo di giornalismo invece dal calcio ha solo preso. E non si ritira mai. Al massimo sciopera, sempre a ridosso del fine settimana.


di Dominique Antognoni, in esclusiva per Indiscreto

20 luglio 2010

Falsa memoria

Copione perfetto. Suggestivo, ma fuorviante: prima lo sfregio alle statue di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, poi quattro gatti alla marcia del “popolo dell’agenda rossa”, quindi il governo assente alle celebrazioni per l’anniversario della strage di via D’Amelio. Non c’è altro da aggiungere, sono ingredienti più che sufficienti per la stampa originalmente conformista, pronta a scrivere che Palermo è ripiombata nell’omertà e nella connivenza, che lo Stato si prostituisce ai depistaggi e che solo pochi uomini, puri e coraggiosi, reggono il vessillo della verità e dell’antimafia. Tutto totalmente falso. Come ieri i politici dell’antimafia (Leoluca Orlando Cascio in testa a tutti) si scagliarono contro i migliori nemici della mafia, oggi i professionisti della commemorazione, veri profanatori del ricordo, si dedicano a inquinare la memoria, cercando ancora di sfregiare il volto di due uomini che morirono isolati e sconfitti, da palermitani che credevano nello Stato e lo servivano con non ricambiata lealtà.

Il Presidente della Repubblica lo ha detto in modo autorevolissimo: “si deve fare luce”. Forse sarebbe meno scontato e retorico chiedersi da dove è giunto il buio, e fare l’elenco dei nemici di Borsellino e Falcone. Che furono tanti. Qualcuno occulto, ma tantissimi noti e palesi, dentro e fuori il Consiglio Superiore della Magistratura.

In tutti questi anni sono state raccontate panzane colossali, ripetutamente facendo fare a Falcone e Borsellino la parte degli stupidi o quella, a loro davvero estranea, dei cospiratori. Gli stessi che provvidero a togliere dalle mani di Falcone le inchieste contro la mafia poi si sono visti, in gramaglie e condolenti, piangere la sua scomparsa, quale irrimediabile danno ai siciliani e agli italiani onesti. Ah sì? E allora, di grazia, perché la magistratura politicizzata e la sinistra togata dedicarono tanto tempo e fatica all’opera di demolizione, isolamento e neutralizzazione di Falcone? Sono cose che ho già scritto, anche se si dovrebbe ristamparle ogni giorno. Vorrei porre, però, una questione ai congiunti di Borsellino, a quelli non si fanno mancare un’occasione per comparire, al punto da organizzare manifestazioni che non manifestano nulla: scusate, ma voi sapevate che il carabiniere Carmelo Canale era uno strettissimo collaboratore del magistrato, tanto stretto che questi lo chiamava “fratello”, e sapevate che detto carabiniere ha subito 14 anni di processo, accusato d’essere un traditore e un venduto alla mafia? Io lo sapevo, e scrivevo che quell’ipotesi d’accusa era, prima di tutto, un’offesa a Paolo Borsellino, un modo per descriverlo deficiente e incapace. Non ho sentito le vostre parole, fra le tante che avete avuto modo di dire. Oggi avete una possibilità: reclamate il suo reintegro nell’Arma, da definitivamente assolto, fatelo per la memoria di Paolo Borsellino. Che qui abbiamo difeso sempre, senza attendere le ricorrenze e senza farne strumento di personale affermazione.

L’ultima offesa a Borsellino, in ordine di tempo, consiste nel raccontare che egli morì perché si oppose alla trattativa fra la mafia e lo Stato. E’ offensivo perché banale (figuratevi se Falcone e Borsellino potevano anche solo concepire una simile trattativa fra “istituzioni”!), offensivo perché derivante dalle parole di un Ciancimino qualsiasi, discendente di un disonorato che si asservì al crimine per fare soldi, e lasciarli ai familiari, offensivo perché facendo finta di credere alla trattativa fra la politica e la cupola si occulta la trattativa vera, che ci fu, e consistette nel fermare le indagini sugli affari e scarcerare canaglie meritevoli della galera a vita. A questa roba Borsellino si oppose per davvero, ed è la ragione per cui, come prima Falcone, era visto come un ostacolo da chi intendeva utilizzare le inchieste per fare politica, anziché giustizia, per alimentare teoremi, anziché cercare prove, e pagò, Borsellino, in vita con l’isolamento (come Falcone) e con l’interdizione a compiere certi atti d’indagine (ritirata la mattina stessa in cui un’auto bomba lo aspettava), e pagò da morto, perché le preziose carte dell’inchiesta mafia-appalti finirono nelle mani della procura di Palermo, che provvide a spezzettarle, smembrarle, neutralizzarle. I carabinieri che le avevano condotte finirono, a vario titolo, sul banco degli imputati, accusati di mafia.

Il cacasottismo mafiologico, la mollezza mentale e spinale di tanti biascicabanalità, usò le accuse a quei carabinieri quasi a dimostrazione che i due eroi, tali perché morti, sarebbero giunti chissà dove, avrebbero scoperto chissà quali santuari, se solo non fossero stati così velenosamente circondati e infiltrati. Sfuggiva un dettaglio: se quei due potevano essere circondati da mafiosi è segno che non erano eroi, ma cretini. Questo hanno finito con il far credere, i tanti marciatori della memoria bugiarda. Ora vorrebbero anche darci a bere che se i palermitani non si gettano in massa a sfilare dietro alle loro spalle è segno che sono ricaduti nella loro natura sicula: apatica, scettica, collusa. Essi offendono i morti, con i vivi.

Ho l’impressione che Palermo, vergine baldracca, assista a riti, voci, cortei e fiaccolate senza né commozione né indignazione. Ha la colpa di non credere mai. Ha l’attenuante che non ne vale la pena. Un atteggiamento che fa rabbia e paura. Ma, e riconosco la mia debolezza di panormense, sempre meglio di quel mondo che disarmò i due grandi palermitani, li consegnò alla morte e pretende di piangerli. Questo, fa schifo

da www.davidegiacalone.it

19 luglio 2010

Cherubini

Il termine ebarico kerùb è di origine mesopotamica; in quella cultura indicava degli esseri alati parzialmente zoomorfi, posti a custodia delle aree sacre e regali. Israele li trasforma in ministri angelici della corte divina. Per questo appaiono nelle visioni, come nel caso della vocazione del profeta Ezechiele (cap.1), sono rappresentati sull'arca dell'alleanza sia nella tenda santa nel deserto, sia nel tempio di Sion, sono tratteggiati talora come i destrieri di Dio (Salterio 18,11) e come i custodi dell'area divina (Genesi 3,24). Sono, comunque, ben diversi dalla tradizionale iconografia cristiana che li ha dipinti come bambini graziosi e paffuti.

di Gianfranco Ravasi, 5oo curiosità della fede

Beelzebul

Di per sè era il nome di un dio venerato dai filistei e significava "signore principe". In ebraico era stato deformato in Beelzebub (forse signore delle mosche) per disprezzo e, così, era passato a designare il diavolo, anzi, "il principe dei demoni" (Matteo 12,24).

di Gianfranco Ravasi, 500 curiosità della fede

Anno sabbatico

Ogni sette anni la terra doveva "riposare" (in ebraico shabat) cioè non essere coltivata, così da riconoscere che i suoi frutti erano dono divino e che l'unico Signore della terra era Dio. Inoltre, in questa anno "sabbatico" si praticava la remissione dei debiti così da correggere le diseguaglianze sociali (Dueteronomio 15,2), una prassi che veniva esaltata (ma non sempre rispettata) nell'anno del giubileo che cadeva ogni sette settimane d'anni, ossia dopo quarantanove anni, nel cinquantesimo.

di Gianfranco Ravasi, 500 curiosità della fede

18 luglio 2010

Tremonti, il software del governo

È utile leggere sul sito di Repubblica (no soldi a quelli di Largo Fochetti) l'intervista al ministro Giulio Tremonti.
Utile ed importante per chi è convinto che la nervatura del crepuscolare governo Berlusconi sia saldamente nelle mani e nella mente del ganzo Giulio.
Due i messaggi forti che vengono lanciati alla starnazzante opposizione dei media e dei dipietrini-bersaniani.
La barra della politica governativa è dritta verso l'Europa ed il federalismo. Nella Comunità la credibilità di Tremonti è fortissima e la sua politica economica è un modello imitato ed apprezzato.
Il dibattito urlato dal Pd, ma anche da settori del Pdl, contro la manovra è stato francamente di una pochezza desolante: la controricetta che per pudore non è stata declarata è un massiccio aumento delle tasse, secondo una logica vischiana che ha già massacrato il paese e la credibilità stessa della sinistra. Nessun disegno strategico alternativo ma solo il rifiuto di accettare che la ricreazione è finita. Molto poco per candidarsi alla guida del paese in fantomatici governi delle larghe intese e dei mandanti noti.
Il secondo messaggio-cardine è il federalismo. Dice Tremonti, lì il paese si gioca tutto: la democrazia economica, la modernizzazione dello stato, la prospettiva strategica.
È obbligatorio credergli e sostenerlo. L'alternativa è il ritorno alle disastrose logiche dei potentati romani, agli apparati della spesa e del malaffare, alla politica cialtrona.
Tremonti non sfugge al giudizio sul rigurgito di corruzione che ha coinvolto il governo ed appassionato la compagnia dello sterco nel ventilatore (Corsera e Repubblica).
Il giudizio morale non è equivoco e di netto distacco ma l'analisi è di largo respiro: la corruzione è un fenomeno nazionale e regionale, veicolato dal fiume di soldi senza controllo d'uso che passa per le pipelines della sanità.
La ricetta non è un governo contro la volontà del popolo elettore ma una politica finanziaria del rigore che costringa il governo locale ad assumersi precise responsabilità verso i propri governati(al riguardo sarebbe di sollievo sapere che fine hanno fatto i 18 miliardi erogati dall'agonizzante governo Prodi nel 2006 a favore delle cinque regioni più indebitate per sanità, ora fra quelle che fanno più rumore contro le nuove regole).
Non sfugge infine Tremonti ad una nota di pessimismo sulle norme antintercettazioni. Legge bavaglino la chiama, cogliendo nel giusto. Grande dispendio di parole e di autoesaltazioni, probabile modesta efficacia.
Berlusconi si è fatto mettere in un angolo ed ha perso di vista, come ormai spesso gli capita, l'obiettivo.
Vuoi preservare dallo sputtanamento la vita privata di indifesi cittadini?
Bastava un articolo. Chi promuove intercettazioni è responsabile della loro secretezza sino al deposito degli atti.
Fuga di notizie? Immediato trasferimento ad altro incarico e provvedimento disciplinare di espulsione dalla magistratura.

12 luglio 2010

Mondiali Sudafrica (fine)

È finita secondo logica e forza del destino. La Spagna (meglio sarebbe dire il Barcellona) esprimendo metà del suo potenziale, soffocata nel suo gioco dal supercatenaccio orange condito di una scarponeria che avrebbe fatto arrossire i Blason e Scagnellato, ha piazzato la ciliegina al 116' supplementare.
Vince così chi si sforza di fare gioco anche in condizioni di emergenza (Torres sparito all'appuntamento della storia, Puyol ex calciatore purtroppo, ora solo guerriero), perde chi confonde il calcio con il catch.
Come è stato scritto da Pace sul Foglio, il gioco dell'Olanda "fa cagare" e proprio per questa sua intrinseca caratteristica svanisce all'appuntamento decisivo. Aveva un unico obiettivo: arrivare ai rigori e sperare nella fortuna e nelle esasperazioni comportamentali dei latini.
Obiettivo fallito.
Cosa lasciano questi mondiali?
Un'atmosfera surreale negli stadi. Niente tifo, solo trombette assordanti.
A Blatter è piaciuto così.
Gioco molto, molto mediocre, incostanza di rendimento delle big, un'occasione mancata per le sudamericane, favorite dalla stagione australe, il flop generalizzato delle star a dimostrazione di quanto paranoico sia il calcio europeo nell'incoronare idoli appena normali alla prova della storia.
L'Italia? Fortunatamente non pervenuta. Il prodotto calcio, come con fine cialtroneria dice Piersilvio, è sull'orlo del baratro. Gli stadi sono fatiscenti, sempre più vuoti.
Il calcio giocato fa pena a dispetto delle vittorie dei globetrotters di Moratti, i vivai sono inariditi anche perché da noi arrivano solo neri brocchi, gli allenatori sono pavidi e senza inventiva tattica. Un esempio? Un vecchio trombone fallito come Del Neri incaricato di ricostruire le glorie della Juve.
Per la televisione satellitare tutto questo è inesistente.
Poche settimane e rivedremo partite pazzesche, meravigliose, ora anche in tre dimensioni.

05 luglio 2010

Mondiali Sudafrica (5)

Mai dare per morto il calcio europeo! In semifinale ci ritroviamo i terribili panzer tedeschi, veri specialisti del torneo mondiale, la Spagna incostante come una damina romantica, l'Olanda che non capisci mai cosa ci faccia in alta quota con quella miseria di classe collettiva che si ritrova, ed infine gli uruguagi a difendere una solida tradizione di calcio sudamericano raffinatamente difensivo.
Sono caduti i sacri mostri, Argentina e Brasile, ed anche piuttosto male.
L'Argentina vantava il più bel potenziale d'attacco, ma alla prova del nove ha pagato la totale ignoranza del conduttore Maradona che, per menarsi vanto, aveva dichiarato che in panchina non capiva un c****. Puntuale, la nemesi ha mostrato al mondo che Diego non sa effettivamente fare le uniche cose per le quali si danno soldi a dei tromboni in panchina: correggere la formazione ed adattarla alle pieghe della partita, sostituire tempestivamente chi ha il serbatoio delle energie vuoto. Se ti innamori della tua rosa, fai uno spogliatoio di fedelissimi ma affondi con le loro debolezze. Noi a Milano, sponda rossonera, di queste vicende siamo esperti.
Il discorso sul Brasile è un po' diverso. Dunga non è uno sprovveduto, ma semmai un prevenuto.
Prevenuto verso il calciatore di pura indole brasiliana, genialoide ma sregolato, capace di sublimi raffinatezze che fanno amare il calcio, ma anche di nefandezze tattiche che ti fanno perdere una partita. Dunga, cresciuto calcisticamente in Italia, è un difensivista convinto in un paese ove si vorrebbe, per assurda follia, che anche il portiere partecipasse al gioco d'attacco. Ha plasmato una nazionale di normali, tutti maturati al calcio europeo, ma con un formidabile senso del collettivo. Doveva e poteva bastare per vincere questo mediocre mondiale. È stato tradito proprio dall'istinto brasiliano ad offendere che, nel momento necessario, non era nelle corde di questo organico, scivolato in un psicodramma impotente ed imbarazzante come raramente si era visto.
Dunga giustamente se ne va, perché era un innesto contro natura nel calcio brasiliano, ma il vero problema comincia ora. Il successore dovrà inventarsi una formula magica che recuperi l'anima carioca e la faccia convivere con le esperienze degli "europei" che non possono e non devono essere esclusi dalla Seleçao.
Auguri Leonardo, se il compito ti sarà affidato!

02 luglio 2010

Mondiali Sudafrica (4)

Oggi cominciano i quarti ai mondiali australi.
Sinora gioco mediocre, scomparsa dei fuoriclasse, fatto salvo l'immenso Messi con le ultime stille di energia che gli ha lasciato la stagione di Liga, appiattimento tattico e trionfo dell'assioma di Gipo Viani: primo non prenderle.
Qualche segnale arriva però forte e distintinguibile.
Il calcio sudamericano è in ottima salute e beneficia delle esperienze europee di migliaia di emigranti del pallone. Poiché, come dice il vecchio saggio Altafini (che per tale ragione a Sky presentano come un folcloristico rincoglionito), l'abc del calcio è il controllo di palla, in questo i sudacas eccellono sin dalle elementari. Disciplinati in Europa sotto il profilo caratteriale e tattico, non possono che essere protagonisti in un mondiale che li agevola anche stagionalmente. Su questo tema i soloni della critica italiana non si soffermano, forse perché loro la differenza non la colgono. Bucatini e pizza, rigorosamente a sbafo a Casa Italia, annaffiati dai vini migliori.
Altra piccola considerazione della memoria.
Ovunque nel mondo, nelle versioni precedenti (soprattutto centro e sudamericane) vagonate di sterco sui regimi locali, miserie indicibili, rivolte soffocate nel sangue. Chi ha buona memoria o archivi ben conservati non può non ricordare. Qui in Sudafrica ove regna Mandela, l'icona delle anime belle, dopo che Fidel e fratello si sono dimostrati quelle canaglie che sono sempre stati, silenzio assoluto sulla situazione dell'ordine pubblico, sulle favelas che sono peggio che ai tempi dei bianchi colonizzatori, sulle malefatte della classe politica. Questa è la concezione democratica dei nostri cronisti, quelli che urlano al mondo la fine della libertà in Italia perché gli si vuole rendere difficile il copia e incolla delle procure militanti.
Tornando al calcio, l'Europa presenta tre squadre di solida tradizione, specie la Germania che ha una continuità di risultati di eccellenza ai mondiali a partire dal 1954 (edizione svizzera). Il cuore latino dice però Spagna, se non perderanno concentrazione ed umiltà. All'Olanda non credo, tanto meno in questa che ha il tasso tecnico più scadente fra le migliori. Di Giappone e Ghana non fa conto parlare.

Ma noi milanisti cosa abbiamo fatto di male?

Fervono i mondiali ma la politica non si fa mancare nulla. Ai tempi della balena bianca, i mondiali erano un time-out dell'intrallazzo e dell'azzeccagarbuglio.
Ora invece lavorano indefessi. Sui grandi temi della privatezza e dello scudo giudiziario, l'epica battaglia si combatte fra due eserciti egualmente servi. Gli uni di Berlusconi, gli altri delle procure.
Il mio antidoto? Alle 20 un telegiornale, a piccolissime dosi, tanto delle cazzate ho fatto il pieno al mattino in edicola.
Nel frattempo, sotto traccia, si sta giocando la gigantesca partita del sottopotere: authority, enti, Rai e quant'altro, tutti i mandarini sono in movimento. Si riformulano le graduatorie, si sistemano gli amici, si consumano le vendette politiche all'interno della maggioranza.
L'agonia del berlusconismo non è differente da quella del centrosinistra, o meglio della Dc, con un'unica significativa variante: l'altra volta la magistratura era un valore salvifico per l'opinione pubblica, oggi è correttamente interpretata come uno degli addendi del prossimo regolamento di conti.
A noi, che l'età consente di giudicare con serenità e divertimento tutto ciò, perché riconosciamo vecchi copioni spiegazzati ed immutabili comparse che reinterpretano se stessi, un'unica grande angoscia: Berlusconi a Panama comunica che non vende il Milan.
Una notizia terribilmente seria rilasciata durante il solito spettacolo di cabaret per la stampa internazionale (ma non facciamoci abbagliare: i cronisti di politica sono della stessa famiglia di quelli del calcio, bastano bucatini e pizza annaffiati da buon vino per appagarli). Anzi è intenzionato a trascinare le sue sclerosi per altri 25 anni in Via Turati, insieme a Galliani e Braida, con l'assistenza medico-spirituale di Don Verzè.
Il calcio non è la politica. Non si può tifare Inter per protesta.
Scriveva Ugo Tognazzi che si può cambiare donna ma non la squadra del cuore. Profonda verità.
Ma noi cacciaviti cosa abbiamo fatto di male?

26 giugno 2010

Mondiali Sudafrica (3)

È finita l'avventura dell'Italia in Sudafrica.
Con il peggiore risultato di sempre, ultima in un girone politicamente di favore.
Io nella mia giovinezza ho vissuto il pathos struggente dell'eliminazione da parte dei Coreani del Nord ad Inghilterra 2006. In quella serata incancellabile fummo battuti sulla corsa, giocammo in dieci per l'infortunio di Bulgarelli che era la nostra mente di centrocampo, la fortuna ci disse di no in occasioni da gol incredibili. Perché tutto il clan giornalistico con a capo Brera aveva snervato l'ambiente e l'inviso allenatore Mondino Fabbri, colpevole di avere abiurato il catenaccio ed impostato la nazionale sugli odiati abatini, Rivera in primis.
Sudfrica 2010: nulla di tragico, tutto quietamente normale, ma la logica conseguenza di una spedizione scellerata, di un'accozzaglia di vecchi campioni del mondo bolliti e di giovincelli senza classe e senza carattere. Diciamocelo con franchezza realistica: Nuova Zelanda e Slovacchia valgono una normale squadra di C2 italiana, ma noi non siamo riusciti a batterli perché come complesso valiamo di meno.
Questa eliminazione è il frutto di una crisi sistemica, che Germania 2006 aveva purtroppo mascherato. L'Italia non produce più talenti perché la politica dei vivai è stata abbandonata per supportare una politica degli ingaggi demenziale.
In Italia non esiste più da anni un progetto tattico di gioco. Viviamo con una generazione di allenatori che non sa costruire calcio ma solo assembramenti di uomini in venti metri di campo. Capita così che qualche mago cialtrone venuto dall'estero, con una rosa appena migliore della concorrenza (i reduci del campionato della Beneamata sono i peggiori nelle loro nazionali!) ma con una concezione della verticalità ormai ignota agli indigeni, vinca scudetti e coppe.
Ultimo particolare. Ai mondiali non si può fare lotta libera in area, non si possono tirare gomitate vigliacche, non ci si può rotolare agonizzanti dopo ogni intervento. Per i nostri giocatori questo è un altro sport, e ciò spiega talune timidezze imbarazzanti riscontrate in questa disastrosa avventura mondiale.
Ora il baraccone tende a perpetuarsi. Abete, con una faccia di tolla che viene da decenni di potere democristiano, parla del nuovo allenatore, le televisioni spostano il tiro sul calcio-mercato, i dirigenti parlano di stadi vecchi invece che di cervelli vecchi, i telecronisti di Sky si preparano a mugolare di un altro calcio superfantastico.
Unica consolazione, e stiamone certi perché nessuno come noi è voltagabbana ed impietoso, non sentiremo più parlare l'arrogante ed ignorante Lippi e le sue figurine Panini del 2006, non vedremo più il ghigno di Cannavaro e gli spot pubblicitari di Gattuso.
Dite che è poco?

Berlusconi, basta!

La vicenda del ministro Brancher è indegnamente vergognosa. Costui, con un processo sulle spalle per intrallazzi nella vicenda Bpi-Unipol, anziché essere invitato ad una pausa di silenzio (è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio!) affinché organizzi al meglio la sua difesa, viene nominato ministro cosicché possa immediatamente vantare un legittimo impedimento alla partecipazione al processo.
Credo che con questa vicenda Berlusconi abbia toccato il fondo della protervia politica.
Se ne vada e lasci il patrimonio della destra di governo a chi, come Tremonti, sta tentando di fare politica strategica e non cabaret di squallido ordine.

20 giugno 2010

Mondiali Sudafrica (2)

Trascorrono i giorni delle eliminatorie, ma il Mondiale australe non decolla.
Pubblico di dementi strombazzanti a parte, le condizioni ambientali per fare gioco piacevole ci sono tutte: prati ineccepibili, clima tardo autunnale, arbitraggi onesti. Eppure si vede un calcio di infimo ordine, malato di tatticismo e povero di invenzione e fantasia.
Se il movimento a livello mandiale si è appiattito così, temo che il calcio finirà per scoppiare come una vescica esausta.
Presto per analizzare le ragioni. Appare evidente sin d'ora che la coesistenza del calcio professionistico dei club con stagioni sempre più dilatate (60/70 partite ufficiali all'anno) e le esigenze delle rappresentative nazionali è sempre più difficoltosa.
Aggiungo che è evidente l'asservimento dei talenti alle esigenze tattiche, né il futuro promette molto se si è avuta la pazienza di seguire i mondiali under 17/20.
Chi si salva? Una su tutte, l'Argentina che sa stare fuori del coro forse proprio perché ha in panchina un giocatore fuoriclasse, che non si sforza nemmeno per un po' di fare l'allenatore ma solo il capitano anziano non giocatore.
La peggiore? Per ora l'Inghilterra, massacrata da un campionato durissimo e forse nemmeno allenata adeguatamente.
L'Italia oggi gioca con la Nuova Zelanda, un paese di nessuno calcistici. Una volta si sarebbe scommesso sulla goleada, stasera ci accontenteremmo di un gol di scarto.

Addio Roberto

Si è spento dopo dieci anni di malattia incurabile Roberto Rosato, stopper di uno dei Milan degli invincibili, quello di Rocco anni '70.
Grande difensore, marcatore implacabile, faccia d'angelo e carattere d'acciaio.
Una delle icone della mia gioventù, un altro coetaneo che mi precede sul sentiero sconosciuto.
I funerali si terranno a Chieri, città d'origine, martedì.
Che la terra ti sia lieve, caro Roberto.

14 giugno 2010

Mondiali Sudafrica (1)

Sono cominciati i campionati del mondo di calcio più assurdi della storia. Più di Giappone-Corea del Sud 2002, che si salvarono per l'efficienza organizzativa nipponica e lasciarono un seme calcistico che ha fruttificato una discreta scuola regionale.
Nell'Africa australe il calcio è uno sport semisconosciuto, senza tradizioni e probabilmente senza futuro. Se, giustamente, l'Africa andava finalmente premiata, meglio dare l'organizzazione a paesi con una solida radice calcistica come Ghana o Nigeria o Camerun. I rischi ambientali sarebbero stati i medesimi del Sudafrica, sebbene le anime belle invasate di mandelismo tacciano che questi mondiali si stanno giocando in un clima di emergenza delinquenziale, la stessa emergenza che ha impedito il decollo turistico della manifestazione.
Ciò premesso, parliamo di calcio.
Per ora se ne è visto poco, esasperatamente tattico, povero di individualità di classe. Il calcio si avvia ad una strana involuzione, un virus che ha infettato tutti i campionati nazionali europei, salvo poche e non significative eccezioni.
Le squadre non attaccano più, sono spariti gli avanti di fascia, i rifinitori sono scartati sin dai vivai, le punte giocano spalle alla porta. Ne deriva una spaventosa melassa, in cui si agitano in venti nello spazio di trenta metri, tutti dediti a schemi perimetrali, tutti in attesa di un magico pertugio che consenta un tiro agevole in porta. È una noia infinita, una noia tale che le poche eccezioni che giocano calcio verticale sembrano marziani tornati dagli anni '80.
Stasera esordisce l'Italia. I connotati della squadra sono quelli descritti, il ritmo da vecchie glorie.
Ma il balun è rotondo, e magari i miracoli si ripetono!

07 giugno 2010

Com'è cambiato il senso civico

L'educazione smarrita.

Alle 15.43 di un pomeriggio feriale in piazza Susa, dove viale Campania e i suoi controviali intersecano l'inizio di viale Argonne, il motociclista brucia in venti metri tre sensi vietati e sprinta sulle strisce pedonali: con elegante torsione evita il basito pedone e si lancia accelerando verso viale Romagna. Il pedone, ancora stupefatto di essere tutto intero, volge lo sguardo verso il disinvolto centauro appena in tempo per vederlo festeggiare con il dito medio alzato in aria. Avesse voglia di una qualsiasi replica, se la deve far passare in fretta: lo strombazzare dei clacson annuncia la marea di auto, che ha ricevuto il via libera dal semaforo. Alla stregua di un paria fugge sul marciapiede. Nessuno lo degna della minima considerazione: d'altronde, non ha nemmeno un graffio. Che cosa pretende di più? Nel 1971 arrivando da Catania a Milano il disorientamento poteva durare settimane. Non era dovuto al semplice rispetto del codice stradale, ai marciapiedi liberi da vetture in sosta, alla possibilità di attraversare la strada senza essere travolti, agli uomini che cedevano il passo alle donne al momento di salire sui mezzi pubblici, all'abitudine di far sedere le persone anziane e le signore incinte; il disorientamento era, invece, dovuto al prevalere della creanza, dalla quale discendevano i piccoli comportamenti virtuosi che stupivano l'aspirante meteco appena sfuggito all'eccessivo calore del Meridione. Prima di essere la capitale dell'economia, della stampa, dell'intraprendenza, della moda, benché i futuri stilisti venissero chiamati sarti, Milano era la capitale dell'educazione elargita e pretesa. A suo simbolo assurgeva l'anziana signora pronta a sbattere l'ombrellino da passeggio contro il cofano della macchina colpevole, sulle strisce pedonali in via Senato, di aver frenato troppo vicina. E il consenso dei passanti stava a sottolineare che quell'ombrellino veniva sostenuto da cento mani. Poi, a presidiare marciapiedi e incroci, s'incontravano i vigili urbani. Ormai sono spariti. Sennò si sarebbero accorti che allo sbocco di via Sidoli in piazza Novelli da due anni lo scivolo per gli handicappati è occupato dalle vetture; che la pista ciclabile di via Alberto da Giussano è spesso impraticabile per le macchine posteggiate a spina di pesce; che la pista ciclabile di via Olona è in realtà il parcheggio di moto e motorini dei bar adiacenti, tranne il martedì e il sabato quando diventa il deposito per l'immondizia del mercato. Negli anni che ci apparivano peggiori, allorché proteste, rabbia, odii, sangue segnavano la nostra quotidianità, la cortesia del vivere, il regalo di un sorriso, la spontaneità del saluto rappresentavano a Milano la regola, non l'eccezione. Nelle pieghe degli affari e sui divani dei salotti si esibivano farabutti, pescecani e maliarde in numero identico a quello attuale, ma almeno - Arbasino docet - non portavano i pantaloni con la vita bassa. E il dialetto, dolce e sincopato, delle mercerie e dei panifici, degli artigiani e dei tassisti fungeva da colonna sonora, costituiva il veicolo di trasmissione delle buone maniere: ai meteci era concesso di non saperlo pronunciare, non di sconoscerlo. Oggi Milano ha perso le botteghe, ha perso il dialetto, soprattutto ha perso l' educazione.

di Alfio Caruso, sul Corriere della Sera del 6 giugno 2010

04 giugno 2010

Le radici dell'Europa

Ogni tanto bisogna prendersi una vacanza. Anche dal blog.
Torno dopo un mesetto dedicato in parte ad un piacevolissimo viaggio in Andalucía, e per il resto ad un adattamento all'estate che arriverà e che andrà vissuta con l'intensità che meritano i beni in via di esaurimento.
Come riprendere la frequentazione? Con le memorie di viaggio?
No. Forse più avanti.
Forse meglio riflettere sulla crisi di valori ed ideali del continente in cui viviamo, riportando le parole di un grande poeta del novecento europeo: Thomas Stearns Eliot.
"Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quello che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va anche la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto".

07 maggio 2010

Quel che resta del calcio italiano

Non occorre uno scienziato per capire che i playoff scudetto (ed eventualmente qualcosa di simile per rimanere in A, che non vorremmo chiamare playout) risolverebbero qualsiasi problema di credibilità delle partite di fine stagione. Perché il fine stagione è per molti cominciato da tre mesi. Genoa, Parma, Bari, Chievo, Udinese, Cagliari, e lasciamo fuori la Fiorentina il cui centroclassifica è un fallimento e non un adattarsi al quieto vivere: con tutta l'onestà del mondo, sono squadre che si trascinano fin dalle settimane in cui c'era la neve. E il loro trascinarsi inevitabilmente deciderebbe le posizioni nel tabellone dei playoff, ma almeno non lo scudetto. Nessun meccanismo è perfetto, perché come dimostra anche il basket italiano (dove l'unico obbiettivo è non finire nella parte di tabellone di Siena) può essere più conveniente arrivare settimi che arrivare quarti. Esempio: la Sampdoria si beccherebbe l'Inter in semifinale, mentre la Juventus la incontrerebbe solo nella ipotetica finale scudetto. Come indennizzo per le sorprese basterebbe assegnare tutti i diritti televisivi e commerciali alla squadra con il fattore campo. Già al primo turno sarebbero botte da minimo 5 milioni, per non parlare di quanto varrebbe ospitare il Super Bowl italiano. Tanto non si farà mai, quindi teniamoci la finta sorpresa di chi in Siena-Juventus del 2006 girava la faccia dall'altra parte e con il sorrisino da uomo di calcio ti spiegava che "cose così sono sempre accadute, dipendono dalle motivazioni". Vedremo quindi le motivazioni di Chievo e Cagliari al centro del mercato, oltre che quelle del Siena all'inseguimento del premio retrocessione.

di Stefano Olivari, su Indiscreto

17 aprile 2010

Manchester City e la maledizione delle magliette celesti

Oggi, vedendo in televisione il derby di Manchester, il colore delle maglie del City mi ha procurato un sussulto gastrico. Non perché in panchina ci fosse Ciuffettino Mancini che - passano gli anni - di calcio continua a capire molto poco, ma per un ricordo riaffiorato dal fondo delle memorie.
Giovedì 23 novembre 1978, a San Siro recupero degli ottavi di Coppa Uefa alle ore 13, dopo il rinvio per nebbia della sera precedente. A Milano c'era ancora la nebbia!
Questi sconosciuti inglesi, celesti come la Lazio, nostra maledizione di quella fine anni Settanta, non ci fecero vedere palla e rimediammo faticosamente un doppio svantaggio nel finale.
La nemesi al ritorno, con un perentorio 3 a 0.
Il Milan quel giorno schierò: Albertosi, Giuda Collovati, Maldera III, De Vecchi, Bet, Baresi, Buriani, Bigon, Novellino, Rivera, Chiodi. Allenatore, il Barone Liedholm.
Alla fine della stagione successiva, fummo declassati per una storiaccia di mazzette. Appunto insieme alla Lazio, nostra compare d'affari.

Barcellona non è Milano

Trasferta a Barcellona. Per vedere il miglior calcio in circolazione (se c'è una divinità del futbol, anche quest'anno la Champions dev'essere del Barça e non certo del manettaro) e per rivisitare una città che ha segnato epoche fondamentali della mia vita: primo viaggio all'estero a 19 anni, a diploma conseguito; viaggio di nozze, tappa intermedia verso Palma nel 1966; finale di Coppa Campioni con la Steaua il 24 Maggio 1989, il giorno in cui 80 mila milanisti arrivarono da ogni angolo d'Italia e dopo il trionfo invasero la città per tutta la notte, sbalordendo gli spagnoli che di queste ganassate sono i campioni del mondo. Quel club, allora magico, nel 1994 ad Atene diede la paga agli stessi blaugrana con identico 4 a 0: nottata sotto l'Acropoli, insieme ai miei cari e agli amici Benghi, Marubini e l'ineguagliabile Minoli. Bastano questi ricordi, insieme a tante altre chicche, per essere riconoscenti di essere stati milanisti lungo il percorso della vita.
Ed ora, a tramonto già iniziato, forse un'ultima visita.
Visitato con metodo il Barri Gotic, con la stupenda cattedrale, le Ramblas giù sino al mare ed al porto rammodernato con pontili avveniristici, e la mattina successiva il Paseig de Gracia con gli incredibili ma fascinosi palazzi modernisti di Gaudì e della sua scuola. Tappa finale alla Sagrada Famillia con la sorpresa, a me sgradita, di un completamento in corso e il timore che venga soffocata la folle poesia delle parti originariamente edificate sotto la guida del maestro.

Torno con la sensazione, già provata in altre capitali europee, che altrove si edifichino gli assetti urbanistici del futuro, si preservi il passato con amore e cultura, si abbia un rispetto profondo per la propria storia. Qui, nel paesone di Milano, si sia solo bravi a mandare in decadenza quel poco che l'incuria ed il disamore per la città hanno lasciato in piedi.
Barcellona, grazie alle Olimpiadi del 1992, ha ridisegnato il volto della città e del comprensorio con raziocinio e visione prospettica. Oggi la città è tappezzata di progetti che illustrano come sarà la Catalogna entro 150 anni. Scontiamo l'enfasi catalana, ma certamente Barcellona non dà l'impressione di fermarsi impotente ed annichilita da beghe di cortile e da politici mediocri.

Sbarco in un malinconico e semivuoto aereoporto di Malpensa.
Prendo l'espresso delle Nord. Avevano pubblicizzato che, grazie ad un costosissimo intervento in galleria, si sarebbe arrivati a Cadorna in 30 minuti. Solo per informazione, tanto non fa novità, il percorso si fa ancora in 40 minuti. Nel progettare opere costose ed ininfluenti, noi siamo sempre avanti 150 anni!

07 aprile 2010

In ricordo di Maurizio Mosca

"Lavorerai con Maurizio Mosca... Contento?"
L'annuncio era del direttore di produzione della rete per la quale lavoravo allora, Antenna Tre Lombardia. Ero arrivato a Milano da poco tempo e mi avevano affidato la conduzione di alcune trasmissioni in diretta oltre alle telecronache di Inter e Milan. Essendo stato a un passo dal lasciare questo mestiere per fare altre cose, pensavo che la stagione in arrivo potesse essere decisiva per il mio avvenire. E ci tenevo a fare le cose per bene.
Dunque non ero contento per niente: anzi... avevo reagito con un certo fastidio all'idea di dover condividere lo studio con quel personaggio così bizzarro e fuori dalle righe. Poi conobbi Maurizio: e tutto cambiò in pochi minuti. Lo andai a trovare nel suo nuovo ufficio a Legnano, nella sede della televisione, prendemmo un caffè e chiacchierammo a lungo. Andai a trovarlo il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora. Alla domenica eravamo in onda insieme per una diretta di cinque ore; poi, dopo un'ora di pausa, c'erano altre tre ore e mezza di diretta per il posticipo. Antenna Tredici, la trasmissione che conducevamo ogni volta che c'era campionato, sabato pomeriggio e sera, così come la domenica, era così: una maratona. Che lui affrontava con il sorriso sulle labbra e il gusto di tenerti sempre sulla corda, costringendoti all'imprevedibile, alla battuta che ti avrebbe spiazzato e messo anche in difficoltà.
Io in quella trasmissione non facevo nulla: a parte mettere il mio faccione in video e dare una continuità all'enorme quantità di contenuti che lui partoriva. Arrivavo in ufficio in moto con il mio bel vestitino stropicciato, andavamo a prendere un caffè e al ritorno nello stanzone arredato da centinaia di giornali accatastati in un ordine che solo lui riusciva a comprendere, mi illustrava i temi della trasmissione. Tutto ordinatamente scritto su un foglio vergato di pennarello nero punta grande con una bella grafia, molto chiara e pastorale: "Allora, sono sedici blocchi, apriamo con Vieri e poi parliamo dell'Inter che Moratti è incazzato come una biscia. E poi vediamo..."
Era proprio quel vediamo che mi preoccupava sempre moltissimo. Ma tant'è ci si trovava bene insieme: ed evidentemente se ne accorsero perché dopo un po' di tempo mi chiesero di condurre anche un'altra trasmissione con lui, Azzurro-Italia. Era uno dei programmi 'griffati' della rete, una trasmissione storica: lui era il castigamatti, io un vigile urbano incaricato di organizzare il traffico tra lui e gli opinionisti. Avevamo (fino a quando non trovavano la panchina di una squadra da rimettere in sesto) Franco Scoglio, Nedo Sonetti e tanti personaggi interessanti e molto diversi tra loro: Aldo Serena, Enzo Gambaro, José Altafini. Mosca li ha iniziati tutti: e avviati a una professione che in Italia non è semplice. A volte è sotto stimata anche per colpa di chi l'ha interpretata. Gli appuntamenti cominciarono a diventare parecchi, e si stava insieme anche per giornate intere: in onda e fuori.
"Adesso condurrai insieme a Maurizio Mosca 'Di qua o di là'. Contento?"
Anche no... Per quelli che non la ricordano, e i tantissimi che non l'hanno mai vista, 'Di qua o di là' era una trasmissione creata proprio da Maurizio nel corso della quale, divisi da due gradinate, i tifosi di tante squadre diverse cambiavano opinione a seconda dell'argomento trattato saltando da uno schieramento all'altro. Esempio: "Baggio deve giocare in Nazionale ai Mondiali"? Chi diceva sì stava di qua e chi diceva no andava di là. E si iniziava a discutere: e sorprendentemente in gradinata di trovavi interisti a braccetto con juventini e milanisti in pieno accordo con gli uni e con gli altri.
La trasmissione era divertente e surreale: difficilissima da condurre. Maurizio decideva tutto: gli argomenti, il modo di presentarli, i tempi delle discussioni. A me restava solo prendere la scaletta, mettere ordine, condurre e divertirmi. Iniziai quella trasmissione perché, secondo me, pochi avrebbero voluto farla: aveva poco di sportivo e molto di intrattenimento e tenere a bada un centinaio di tifosi non era una cosa semplice. Il rischio era quello di sputtanarsi anche un po'.
Tenere a bada Maurizio a volte era il rischio peggiore. Per cui, contento non ero: ma in poche settimane quella trasmissione diventò un bambino da coccolare. L'abbiamo condotta insieme per oltre due anni fino a quando le nostre strade si divisero, professionalmente parlando. Quella trasmissione mi ha lasciato ricordi indelebili: non mi sono mai divertito tanto in vita mia. C'erano momenti in cui mi dovevo nascondere dietro la scenografia per poter ridere liberamente e rientravo in onda con le lacrime agli occhi.
Oggi quella trasmissione mi ha lasciato tante cose belle: i ricordi, alcune foto, e l'amico più caro che ho, e che ho conosciuto proprio lì, in quello studio. Maurizio aveva l'abitudine di chiamare tutti i tifosi con un nomignolo e lui, che in realtà si chiama Stefano, era Batistuta a causa di una vaghissima somiglianza con l'attaccante argentino. Con Bati, c'erano Prodi e Oliver, Il Secco e Ciccio, Grugno e Gringo, Codino e Codazzo e tanti altri che ricordo solo vagamente. Opinionisti nati dal nulla che all'epoca erano vere e proprie celebrità, riconosciute e degne di richieste di autografo. L'unico pirla lì in mezzo era il conduttore: inutilmente teso nel dare una logica a una cosa che di logica non ne doveva avere, perché il bello del programma era proprio la sua illogicità.
Era il sogno di Maurizio, fare la tv della gente con la gente. In quel caso ci riuscì alla grande.
Alla sera, spesso, si usciva a cena insieme: e scoprivi il Mosca che la tv non avrebbe mai mostrato. Un intrattenitore brillante, grande esperto di calcio e grandissimo esperto di boxe. Un giornalista coi fiocchi, enormemente più preparato e professionale di quel personaggio bizzarro e sconclusionato che si era creato in televisione. Con il quale aveva in comune una sola cosa: l'incapacità di prendersi sul serio e di prendere tutto sul serio. Una sera, dopo la trasmissione, andiamo tutti a mangiare una pizza, tifosi compresi, e siamo più del previsto, almeno una trentina di persone: "Ok, dividiamo si fa alla romana". dice Oliver. "Io sono romano, e si fa a modo mio": e pagò per tutti. Un gesto che credetemi, da parte di uno che vive la tv da professionista e che in qualche modo è alimentato dal distacco catodico con la gente comune, non è da tutti. In tanti anni non l'ho mai visto fare da colleghi più 'piacioni' e molto più ricchi di lui.
Gli aneddoti sarebbero davvero troppi, e si finirebbe con il solito quadretto da libro Cuore che altri possono fare meglio di me. A lui procurerebbe un po' di nausea.
Di lui mi mancheranno le battute, i tormentoni, le rivelazioni (quelle che il pendolino non avrebbe mai detto) e le tante verità che Maurizio aveva e si teneva per sé. O al massimo rivelava davanti a un limoncello o a una di quelle orrende merendine al cioccolato che gli passavo sottobanco durante la trasmissione e che gli piacevano da morire. Come a me del resto...
Maurizio era molto, molto generoso; con attenzioni delicatissime: ed era pieno di difetti che lo rendevano anche più umano. Aveva improvvisi sbalzi di umore e imprevedibili e violentissimi sfoghi verbali che in onda potevano diventare molto problematici da controllare. Aveva un gusto per il divertimento unico nel suo genere: era convinto (secondo me anche un po' a torto) della buona buona fede e dell'onestà delle persone di sport. Ma soprattutto gli piaceva che la gente si divertisse, ridesse e magari che ragionasse anche attraverso una battuta, una spigolatura.
Se ce l'aveva con qualcuno lo diceva. E la cosa poteva accadere in studio, o durante un collegamento: se la discussione iniziava quasi certamente finiva in lite che, poteva rivivere ogni settimana, sempre più dura e astiosa. L'ho scritto altre volte: lavorare con lui, ma anche con il professor Scoglio, era un po' come cenare a un ristorante di lusso con una bomba a orologeria innescata sotto il tavolo. Maurizio aveva antipatie che potevano durare una vita, o finire in cinque secondi. Bastava mezza parola, in un senso o nell'altro. Una volta anche io e lui abbiamo discusso pesante: e ci siamo tenuti il muso a lungo. Ma alla fine a separarci non sono state le discussioni, ma le circostanze.
Mi sarebbe piaciuto poter proseguire l'esperienza di 'Di qua o di là': ma questo lavoro è così. E con la stessa rapidità con la quale mi portarono a lavorare con lui, l'occasione di condividere le mie giornate con Maurizio si dissolse portando me dietro una scrivania e lui davanti ad altre telecamere. Ci siamo sentiti pochissimo, e visti ancora meno da allora. Mi arrivavano i suoi saluti, e gli mandavo i miei. Bastava quello per sapere che ci si pensava, e che ci si voleva ancora bene.
Sapevo della sua sofferenza da tempo, e ogni domenica Guida al Campionato per me era l'occasione di constatare il suo stato di salute: "Finché è lì va tutto bene..." dicevo a mia moglie cercando di capire dalle inquadrature le sue condizioni, il suo umore. Ma lui, come sempre in onda non faceva trapelare nulla di quella che era la sua vita, il suo stato d'animo. Era capace di lavorare dodici-quattrodici ore al giorno senza interruzioni. E le tante preoccupazioni che aveva non trapelavano mai. E' stato capace di lavorare fino all'ultimo istante nonostante molta sofferenza, lunghissime cure, operazioni e terapie: perché questa sua dedizione era la cosa che lo definiva di più.
Di lui si possono dire un sacco di cose, a me ne interessa solo una. Perché è quella che ho sempre detto di lui a chi mi chiedeva 'come fosse lavorare con Mosca'.
Io so solo che con lui mi sono divertito un casino.

Ciao Maurizio, con te mi sono proprio divertito tanto.
Buon viaggio.

di Stefano Benzi, direttore di Eurosport

04 aprile 2010

Chi peggio?

È un dilemma di facile risposta. Sul calcio giocato in Italia da qualche anno, di qualità indecorosa, la vince alla grande lo squallido modo di commentarlo da parte di Sky Sport.

La Lega che vorrebbero che fosse

Ernesto Galli della Loggia, lo sfortunato commentatore del Curierun che qualche giorno prima delle elezioni ha preconizzato la disfatta elettorale del Pdl alle regionali perché afflitto da berlusconismo fatiscente e plasticità innata, oggi cerca di dare una lezione ideologico-programmatica alla Lega. Poiché questo partito ha vinto il test elettorale è bene, questo il suo ragionamento, trasferirlo dalla riserva indiana degli zotici paesani al proscenio dei movimenti che possono meglio interpretare le aspirazioni del mondo borghese di perpetrare il suo dominio sulla politica in Italia.
La Lega, dice il nostro Ernestino, sa interpretare la contemporaneità perché è fatta da uomini della stessa pasta del suo elettorato: pragmatici, lavoratori, perseveranti nel perseguire le poche idee che hanno in zucca. Federalismo, buon governo, legalità pubblica e privata.
Ma il federalismo è una chimera perché la gente è delusa dal regionalismo (sic! non vota Pd quindi il giocattolino non piace più) e perché adottarlo significherebbe mettere in angosce le regioni del sud, che infatti dovrebbero cominciare a fare i conti con il senso di responsabilità ed accantonare il clientelismo.
Meglio dunque dedicarsi allo riforma dello stato come eccellentemente fa Maroni ed abbandonare le ubbie federaliste.
L'articolo di Galli della Loggia è sintomatico di come il mondo alto-borghese che il Corriere della Sera fedelmente rappresenta da sempre continui non solo a non capire il fenomeno Lega ma nemmeno si sforzi di accettarlo. Da 25 anni lo considera una fastidiosa parentesi, esattamente come inquadra Berlusconi che non è della stessa pasta, è attaccabilissimo ma è purtroppo un fenomeno di consenso elettorale.
Il federalismo è visto come una mostruosità che potrebbe sconvolgere i poteri economici sul territorio e nel paese, e la subordinazione della politica agli stessi.
Meglio fargli fare, da bravi soldatini, la guerra alla malavita ed a compito finito, perché hanno le palle e potrebbero farcela in modo egregio, metterli in un'altra riserva, quella dei Cincinnati.
Mai che l'illustre docente ci racconti come e perché in Italia la borghesia, sempre quella alta, giusto per intenderci, non abbia saputo mai fare una grande creativa politica nazionale ed abbia sostanzialmente fallito tutte le occasioni storiche che le si sono presentate per cambiare l'Italia(solo per fare un esempio la ricostruzione post bellica ed ancora proprio quella riforma regionalistica oggi snobbata) delegando di volta in volta la sua rappresentanza ad obbedienti commis: democrazia cristiana, sinistra post comunista, sino ai piccoli manovratori quali oggi sono Casini e Fini.

02 aprile 2010

Che Italia è?

Che Italia è, quella che riprende la navigazione dopo essersi scannata nella baia delle regionali? Politicamente è uguale a se stessa, da quindici anni, con l’intero dibattito che ruota attorno a Silvio Berlusconi, con la sinistra ipnotizzata e, al tempo stesso, indemoniata dall’idea che si possa vincerlo senza batterlo elettoralmente, con alcuni volontari che, a turno, cercano di fargli le scarpe nel suo stesso schieramento, soccombendo uno appresso all’altro. Istituzionalmente peggiora, perché interi apparati dello Stato sono vicini al coma celebrale, mentre i giornali, per piaggeria o supposta furbizia, tendono a spandere incenso attorno al deragliamento che travolge gi equilibri costituzionali. Economicamente ha il fiatone, ha smesso di correre e ancora avanza a sobbalzi, piegandosi sul fianco e tenendosi la milza. Ha la stoffa di un gran corridore, ma acciaccato. Socialmente può essere letta in modi diversi, perché i numeri dell’economia dimostrano che le cose non vanno poi così male, ma l’umore complessivo è malmostoso, segnalando un Paese meno propenso alla grandiosità e alla generosità, più aggredito da invidia, accidia e rosiconeria. In questa situazione Berlusconi ha messo in atto il suo capolavoro elettorale.

Sa leggere e interpretare l’Italia meglio di chiunque altro, e per negarlo si deve essere non di parte o avversari, ma direttamente stupidi. Chi crede che sia lui a modellare quest’Italia s’illude, perché spera che mettendolo a tacere (è una parola!) le cose cambino. No, in quel caso si perderebbe il migliore interprete, non cambierebbe la realtà. Il capolavoro delle regionali dovrebbe essere studiato, Sarkozy dovrebbe passarci sopra le vacanze, perché usa le parole altrui a proprio vantaggio. La sinistra attacca perché ritiene illiberale chiudere le trasmissioni politiche della Rai? Lui non risponde negando, ma affermando che quei conduttori politicizzati dovrebbero tacere sempre. Lo attaccano sul piano giudiziario? Lui tralascia la sostanza e accusa i magistrati. Lo crocifiggono con le intercettazioni? E lui chiede agli italiani se si sentono tranquilli, quando parlano al telefono. Il tutto a uso e consumo di quella fetta d’italiani che seguono la politica e il dibattito pubblico. Non la maggioranza...

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Giorgio Porcaro, una vita che è durata uno sketch

Bruno Porcaro ha ventitrè anni, per sovravvivere fa l'assicuratore («Ma vorrei lavorare in radio»), è appena tornato dall'Arizona dove ha partecipato al reality show Wild West («Un'esperienza che ti arricchisce ma non ti cambia, alla fine hai qualcosa in più nel tuo bagaglio ma sei sempre il solito pirla») e a Milano ci sta talmente bene che la prossima volta che partirà per il deserto, la prima cosa che mette in valigia è l'iPod con registrato i rumori del tram: «La mia vita è questa, altro che selvaggio West».
«La mia vita è questa, altro che selvaggio sud» è una frase che suo padre, Giorgio Porcaro - il “terrunciello” che parlava un dialetto tra il pugliese e il lombardo completamente inventato - magari non ha mai detto ma di sicuro ha pensato un milione di volte quando si trovava a tirar mattina in un'osteria sui Navigli e gli capitava di pensare alla «sua» Benevento, dove era nato nel '52 (anche se bausciava di esser di Madonnetta, “che non è un paese ma la Madonna che sta sulla guglia più alta del Duomo” diceva) e che lasciò a cinque anni per salire a Milano: «Mio nonno era finanziere: gli cambiavano spesso destinazione».
Giorgio Porcaro, invece, il massimo che cambiò fu strada, da via Caracciolo dove passò la gioventù a via Volta, dopo sposato. E quando al tramonto della carriera e della vita finì a Milano 3 probabilmente si sentì all'estero, lui che se avesse potuto avrebbe costruito una «muraglia milanese» sul parallelo di Porta Genova, perché da lì in giù sono tutti meridionali diceva. Lui che si considerava un milanese col pedigree, che mangiava busecca e risotto, lui che creò il personaggio culto del terrunciello e se lo vide scippare - rob de matt - dal suo miglior amico, Diego Abatantuono: stessi riccioli stessa classe diverso destino.
Comico di gran razza, tra i più geniali e dimenticati cabarettisti italiani degli ultimi trent'anni, per Giorgio Porcaro la vita è durata il tempo di uno sketch: una risata e via. Un'ascesa e caduta - ha detto qualcuno - che appartengono alla mitologia dell'icona clownistica, della risata che nasconde abissi di tragedia personale: la gavetta, gli applausi, il successo che ormai è lì basta stringere il pugno, poi le luci che si spengono all'improvviso, l'assenza della ribalta mentre gli amici vanno avanti, infine una storiaccia di droga - lassem perd - e la malattia.
Giorgio Porcaro se ne andato che non aveva neppure cinquant'anni nell'estate del 2002. Cancro, come tanti. «L'ha affrontato con forza incredibile, fino alla fine. E sì che ha sempre avuto una paura matta dei medici e degli ospedali. Eppure, ha accettato tutto pur di tentare di vincere il suo male. Ancora il giorno prima, che non aveva più voce, ha chiesto i medici come andava. Ci ha creduto davvero».
Ci ha creduto davvero anche quando entrò per la prima volta al Derby, il tempio della comicità milanese, era l'inverno del '72: «Anni speciali, di sicuro i più belli della sua vita, papà lo diceva sempre: gli anni di quando la tv non aveva ancora ucciso il cabaret, del Meazza senza il terzo anello che alla domenica ci andavi a piedi, gli anni che se avevi bisogno di qualcuno sapevi sempre dov'era senza cercarlo sul telefonino. Diceva che era un'altra città, meno caotica, più aperta».
Appunto. Per Porcaro le porte dello spettacolo si aprirono grazie a un grande amico che si chiama Gianfranco Funari il quale lo scaraventò sul palco del Derby con il suo gruppo, I mormoranti, che divideva con Bruno Gracieffa e il (futuro) cantautore Fabio Concato. Titolo del primo spettacolo: Da dove vieni tu?. La risposta è: Non lo so, ma so dove voglio andare, lontano. Infatti arriva La Tappezzeria, anno 1977, uno spettacolo teatrale di Enzo Jannacci e un signore che si chiamava Beppe Viola. Poi il passo dal teatro al cabaret, sempre con l'amico «Dieco», Mauro Di Francesco («Papà diceva che era il più simpatico, gliene facevano di tutte, una volta gli misero del peperoncino nel flauto che usava per il suo numero») e poi Boldi, Teocoli, il (futuro) romanziere Giorgio Faletti. E Jannacci. «Fu lui il primo a credere nel personaggio del terrunciello inventato da papà, poi però disse a Diego “Portalo avanti tu che c'hai più la faccia da meridionale”. Mio padre era un bonaccione, non si oppose. Poi Abatantuono che è un grande artista ne fece il suo capolavoro. Per un po’ rimasero amici, dopo ci fu la rottura e alla fine i tentativi di riavvicinamento, anche se non fu più come prima». Anche quando la grande stagione del Derby si chiude e il gruppo di amici sulle orme dei Gatti di Vicolo Miracoli salta dal cabaret al cinema, alla fine dei Settanta, non fu più come prima per Giorgio Porcaro.
Tra il '79 e l'83, ai tempi del leggendario b-movie all'italiana, infilò cinque film uno dietro l'altro, dall'indimenticato Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi (con un Boldi strepitoso a fare il verso a un simil-Berlusca) al fortunatamente dimenticato Sturmtruppen II. I suoi però non erano più caratteri da commedia dell'arte ma macchiette ridotte a rubare un'inquadratura ad attori, disemm inscì, come Jimmy il Fenomeno, Gegia, Pongo e Giancarlo Magalli. «Il rimpianto più grande di papà era di non aver avuto ciò che meritava. Sapeva di aver scritto una pagina della storia del cabaret ma non aveva ricevuto niente in cambio. Però non era risentito o arrabbiato. Gli scocciava certo, ma aveva un gran carattere, sapeva passarci sopra. Mi ricordo una sera, era già in ospedale. Abatantuono era in tv, a Controcampo, e a un certo punto lo saluta in diretta e gli dice: “Dai Giorgio che ce la fai”. Papà si commosse, sono certo che dentro di lui ha detto, “Ma sì, va là che ci si vuol bene”. Era fatto così».
Già, com'era fatto papà? «Un martello: irresistibile e incontenibile, come sul palco, uno che quando andavamo in metropolitana iniziava a fare le imitazioni in mezzo alla gente, io mi vergognavo e dicevo “Basta papà, dai” e lui niente, anzi ad alta voce: Scusa?! Che cousa! Sent'bello, i sso' milanesss. Ogni volta così». Lo diceva per far ridere, milanesss i cent pi cent, ma Porcaro, nonostante il cognome e un debole per le 128 Krups rosa con interni leopardati, milanese si sentiva davvero. «Non avrebbe abbandonato questa città per nulla al mondo, in Puglia andava una volta all'anno a trovare i parenti, ma poi subito su a Milano, dove peraltro diceva che il 70 per cento sono pugliesi. Gli piaceva tutto della città, ristoranti e osterie soprattutto, be’ per uno come lui che tutte le sere finito lo spettacolo si andava fuori a mangiare... Una cosa non sopportava: l'immigrazione, non dei terùn però, degli orientali, i giapponaiiis come diceva lui». Ne diceva e ne faceva di cose, lui: parole e lingue inventate, zeppe, improvvisazioni, smorfie, tutte l'armamentario che fa di un vero artista quello che è: un talento naturale. Oggi purtroppo Giorgio Porcaro lo hanno dimenticato in tanti, quasi tutti. Verrebbe voglia di chiedergli scussa. Che in milanese si dice me dispiass.

di Luigi Mascheroni, su Il Giornale

01 aprile 2010

Il centrodestra allunga la sua striscia vincente

Concluse le elezioni, come dice oggi sul Curierun Paolo Ostellino, i voti si contano e non si pesano.
Queste elezioni di mezzo termine hanno sostanzialmente detto quattro verità.

1. In Italia il centrodestra è maggioritario e sopporta persino due anni di governo distratto e di scandaletti pornografici del Cavaliere. L'elettorato non è però beota, come fortunatamente crede il pensiero debole degli pseudo intelettuali di sinistra, ed i suoi messaggi li manda forti e chiari. La crescita geometrica della Lega è dovuta a questo, oltreché da una indubbia capacità politica (i migliori ministri sono leghisti o di cultura leghista).

2. Il Pd è ormai uno zatterone incapace di generare iniziativa politica. Il connubbio catto-comunista è peggio di una paresi facciale. Dal serpentone elettorale ogni tanto si stacca un sussulto di isteria politica che li indebolisce ulteriormente. Questa volta è toccato ai seguaci del comico genovese.

3. Il vero sconfitto è Casini, con la sua compagnia di giro dei Rutelli, Tabacci, Luca di Montezemolo e direttori di giornali. Il bipolarismo è una realtà che non si scalfisce con simili figuranti. Peggio, i nipotini democristiani si sono inventati una strategia dei due forni che li ha fatti somigliare a Mastella e che l'elettorato ha bocciato sonoramente.

4. Fini ha confermato di contare più sui giornali e sulle televisioni che nelle matite degli elettori di destra. Il suo rancoroso attacco prolungato a Berlusconi ed il suo altezzoso silenzio in campagna elettorale è costato poco elettoralmente, ma verrà da lui pagato molto in termini di incisività politica.

La sensazione è che il Pdl si sia ancora una volta ricompattato dietro al suo leader ed abbia accettato come ineluttabile l'asse di governo Berlusconi-Bossi.

27 marzo 2010

Le mie previsioni

Test regionali. Pdl forte calo, Pd leggero incremento, Mozzaorecchi in crescita, Lega forte crescita nel Nord.
PS: non la prendo mai.

22 marzo 2010

Ognuno ha i propri vivai

Le Procure italiane.
La cantera dell'Italia dei valori.

Aspettando inam e rabbini pedofili

Con molti amici e nemici di Indiscreto abbiamo in comune almeno una cosa, complice l'assenza del web nella nostra adolescenza e anche dopo: la frequentazione dello sport di base nelle vesti più diverse (addirittura anche l'arbitro), senza mai correre il rischio di diventare campioni, oltre alla frequentazione degli oratori quando erano un irrinunciabile punto di aggregazione e non solo il ricettacolo di tutte le sfighe del mondo.
Mai detta una preghiera in vent'anni di frequentazione sportiva, ancora oggi la domenica quando durante il Padre Nostro ci si stringe la mano viene istintivo pensare agli azzurri di Italia Novanta: Giannini che dava forza a De Napoli che la dava a Maldini, che la dava a Zenga, eccetera. Mai detta una preghiera come biglietto di entrata, ma conosciuto centinaia di sacerdoti e di persone di buonissima volontà (oggi li si definirebbe 'educatori') che dedicavano il proprio tempo a ragazzini di periferia che non erano il massimo né della simpatia né dell'educazione. Ai nostri tempi avevano già inventato gli spogliatoi e le docce, che si facevano senza vestiti. Passavamo metà della giornata sotto gli occhi di questi adulti, che in fondo consideravamo anche poco ma che vedevamo più dei nostri genitori. Dalla prima elementare all'università ne avremo incrociati mille, della nostra e di altre realtà locali. Nessuno ci ha mai molestato, nessuno ci ha mai dedicato una battuta o un'allusione come invece è capitato in ambienti più 'laici'. Parliamo per noi e per tutti i ragazzi che abbiamo conosciuto: l'1% di una battuta, se mai fosse stata pronunciata, sarebbe diventata in automatico di dominio pubblico e base del meccanismo di scherno che rende i giovani spesso più crudeli degli adulti. Dove vogliamo arrivare? A una cosa seria, una volta nella vita. A dire che i singoli casi di pedofilia vanno giudicati e puniti caso per caso, ma non in quanto 'di categoria'. Il commercialista pedofilo è un criminale che disonora se stesso o i commercialisti? Quello che veramente pensiamo è che la Chiesa Cattolica sia un bersaglio troppo facile per i moralisti di ogni specie, quelli che alzano il ditino sapendo di non rischiare niente. Ansiosi di guadagnarsi patenti 'liberal' senza troppa fatica: un'articolessa insinuante sul coro di Ratisbona e oplà, il gioco è fatto. Citiamo, che in italiano vuol dire 'copiamo', Andreotti quando disse che "E' strano che non esistano imam o rabbini pedofili". Liberarsi dalle religioni, quelle rivelate, quelle filosofiche e quelle laiche: saremo senz'altro più soli e impauriti, ma forse troveremo Dio. Nella peggiore delle ipotesi noi stessi.

Stefano Olivari, sul blog Indiscreto

02 marzo 2010

Pro memoria per molti Italiani (ed una parte del clero)

Ai musulmani che vogliono vivere secondo la legge della Sharia Islamica, recentemente è stato detto di lasciare l'Australia, questo allo scopo di prevenire e evitare eventuali attacchi terroristici. Sembra che il primo ministro John Howard abbia scioccato alcuni musulmani australiani dichiarando: "GLI IMMIGRATI NON AUSTRALIANI DEVONO ADATTARSI! Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è sviluppata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà. La nostra lingua ufficiale è l'INGLESE, non lo spagnolo, il libanese, l'arabo, il cinese, il giapponese, o qualsiasi altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua! La maggior parte degli Australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d'influenza della destra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato. E' quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un'altre parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.
Questo è il NOSTRO PAESE; la NOSTRA TERRA e il NOSTRO STILE DI VITA. E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un'altra grande libertà australiana: IL DIRITTO AD ANDARVENE. Se non siete felici qui, allora PARTITE. Non vi abbiamo forzati a venire qui, siete voi che avete chiesto di essere qui. Allora rispettate il paese che VI ha accettati."

28 febbraio 2010

Sri Lanka

Tornando da un viaggio, specie in terre prima sconosciute, viene da chiedermi, in una galleria di paesaggi, monumenti, volti, ambienti, quali sia il flash che resterà impresso nella memoria, che sarà la sintesi di quell'esperienza, la chiave per riaprire le emozioni vissute.
Mi capitò in terra di Israele, dove dopo giorni passati a ricercare la spiritualità che là avrei voluto trovare e che mi si nascondeva ancora, in un tardo pomeriggio, in un Santo sepolcro finalmente vuoto di torme di fedeli, incontrai l'emozione assoluta, solo, inginocchiato sulla pietra sepolcrale. Lì era il senso del pellegrinaggio e la chiave di lettura della visita in Terra Santa. Quanto meno per me, in quei giorni della mia vita.
Oggi, di ritorno dallo Sri Lanka, mi pongo la stessa domanda.
In una decina di giorni ho visto paesaggi inusuali, una vegetazione lussureggiante, tutte le tonalità del verde, animali selvaggi, rettili, una moltitudine di cani a guardia della minaccia dei serpenti.
Poi le statue del Buddha nella roccia, disegnato nelle grotte, riprodotto in povere edicole infiorate lungo le strade.
Le piantagioni montane del the e la silenziosa fatica delle contadine che colgono le foglioline più giovani per la bevanda.
Le poche grandi città, eguali alle nostre nel degrado urbano, nei quartieri di lamiera delle periferie, nella sorda ottusità delle folle che le attraversano, nell'insistenza disperata delle torme di mendicanti che vedono nei turisti il mezzo per sopravvivere un'altra giornata.
Il lusso spropositato dei grand hotel, isole aliene in un panorama di miseria tangibile e disperante nella sua normalità.
La fede nei templi, dinnanzi agli alberi sacri, serena e silenziosa con i poveri ornamenti dei lumini e dei fiori di loto.
Eppure il ricordo dell'isola meravigliosa è il saluto della gente. Radioso, i profondi occhi neri sgranati, il sorriso aperto, l'ingenua disponibilità verso i diversi. Sorrisi e saluti ovunque. Dai bambini delle scuole, dai contadini al lavoro nei campi, dalle ragazze al passeggio, da un mondo che sa vivere una difficile e povera esistenza con la serena consapevolezza che la loro missione è stare in pace con la natura e con il prossimo, anche con il diverso quale noi siamo per loro.
Questo è l'inprinting dello Sri Lanka nella mia mente.

Berlusconi e Fini

La fedeltà è una dote canina. Può essere chiesta ai quadrupedi o, in politica, a chi non abbia altro da offrire. La lealtà, invece, è roba importante, ma complicata: si dovrebbe essere leali nei confronti dei propri compagni di lotta o di partito, così come si dovrebbe esserlo verso gli elettori. La coerenza, insomma, è una dote morale. Gli incoerenti e gli sleali possono ben vincere qualche partita, o galleggiare per una vita, ma non possono costruire nulla di buono, perché è guasto il materiale che li compone. Infine: è vero che Machiavelli sostenne il fine giustificare i mezzi, ma la cosa è largamente banalizzata e fraintesa, perché necessita di un fine nobile, non certo bastando il proprio tornaconto. Scusatemi se l’ho presa tanto alla lontana, ma parlare di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini ha un senso se si pensa all’insieme dei nostri problemi, altrimenti è noiosamente ripetitivo.
Trovo giusto che Fini faccia osservare quanto sia inconcludente un centro destra con la bava alla bocca. Ma lui e gli altri, che un tempo si definivano camerati, sarebbero rimasti a bocca abbondantemente asciutta se Berlusconi non avesse adottato quel modulo comunicativo. Trovo opportuno che Fini abbia sottolineato quanto il federalismo fiscale rischia d’essere un costo, e che andare a rimorchio della Lega significa parlare solo ad una parte d’Italia. Ma quella riforma si trova nel programma elettorale da lui condiviso, e la vittoria che lo ha portato ad essere la terza carica dello Stato si deve all’alleanza con la Lega. Ricordi, inoltre, a proposito di sconquassi nelle casse pubbliche, che fu lui a fermare il già flebile piglio riformatore, nel secondo governo Berlusconi, impedendo interventi significativi a danno del pubblico impiego e della spesa improduttiva, dove, forse, vedeva sacche di proprio elettorato. E’ sensato che Fini chieda di affrontare razionalmente il tema dell’immigrazione, e su questo, da noi, sfonda una porta aperta, ma farà bene a non dimenticare due cose: la Lega che si rivolge ai reali dolori delle periferie eredita parole d’ordine che dovrebbero ricordargli qualche cosa, e la legge che regola l’immigrazione si chiama Bossi-Fini.
Potrei continuare, ma mi fermo, per non essere frainteso. Cambiare idea può essere cosa buona e giusta, e, nel caso di Fini, ha effettivamente cambiato idee che erano profondamente e inaccettabilmente sbagliate (ricordate il Mussolini più grande statista del secolo? Poi divenuto l’autore delle leggi razziali: il male assoluto). Solo che si deve aver cura di avvertire che si sta cambiando, specificando perché prima si sbagliava, un po’ come quando si gira, con la macchina, e si deve mettere la freccia, e, inoltre, di non farlo sempre all’indomani dell’avere incassato qualche cosa. Non sta bene.
Ma le questioni aperte fra Berlusconi e Fini non sono di carattere personale, modello Bibì & Bibò, o, per quel che lo sono, non m’interessano affatto. Sono questioni politiche, riassumibili così: a. si trovano nello stesso partito, che, però, non è un partito, non ci sono congressi, direzioni o segreterie in cui una linea perde e l’altra vince, sicché convivono senza fondersi; b. chi porta la gran pare dei voti è Berlusconi, capacissimo di costruire vittorie elettorali, ma meno di costruire il consenso attorno a linee politiche. A sinistra succede la stessa cosa, ma con leaders meno forti, al punto che ieri si sono dovuti umiliare ad aderire alla seconda edizione di una manifestazione che avevano inizialmente snobbato.
Berlusconi, per chi gli vuol bene e per chi gli vuol male, domina la scena da quindici anni. Ma non domina la politica. E’ un motore che romba e intimorisce, ma fatica a ingranare la marcia. Il resto del mondo politico vive nella sua ombra, che gli sia alleato o avversario. Non so quanto ancora durerà, so che chi non ha il coraggio di affrontarlo direttamente, sfidandolo sul terreno del consenso, non gli succederà. Né che gli sia alleato, né che gli sia avversario. Lo ignorano quelli che non pensano, ma lo sanno quelli che occupano le prime file. Per questo il tira e molla dura decenni, con il ringhiare minaccioso che segue e precede lo scodinzolare festoso.

da
www.davidegiacalone.it

26 febbraio 2010

Caso Mills, un pessimo esempio di esercizio della giustizia

La partita conclusa ieri, in Cassazione, porta il nome apparente di David Mills, ma diversa era la posta reale: Silvio Berlusconi. La sentenza delude quelli che speravano di condannare il secondo, per il tramite del primo, lascia aperto un procedimento penale destinato ad autodistruggersi e impone una nuova agenda politica, in tema di giustizia. L’avvocato Mills la sfanga, salvo dover risarcire la parte civile, che, per ironia della storia, è quella presidenza del Consiglio oggi abitata dal suo cliente di un tempo. Ma chiusa una partita se ne apre un’altra, tocca al governo dare le carte, e c’è da sperare che giochi con la testa, senza il solito appellarsi alla fortuna o all’isteria.

Oggi in molti scriveranno che la Cassazione ha considerato Mills copevole, ma prescritto il reato, sicché deve ritenersi colpevole anche Berlusconi, che, però, non era parte in causa. La situazione è ancora più grottesca di quel che sembra: per effetto (perverso) del lodo Alfano, ovvero della sospensione del procedimento contro Berlusconi, e quale conseguenza della successiva sentenza d’incostituzionalità, il presunto corrotto e il presunto corruttore hanno avuto due processi diversi, di cui uno, quello a Mills, appena concluso, e l’altro, quello a Berlusconi, appena iniziato. Non occorre essere giuristi per rendersi conto che è una situazione da manicomio, che si sarebbe potuta evitare se la legge fosse stata fatta in modo meno superficiale, talché, oltre a renderla costituzionale, si fosse provveduto a sospendere anche i procedimenti a carico dei coimputati. E non occorre essere studiosi, bastando il buon senso, per aver chiaro che non è ragionevole vedersi condannare in un processo nel quale neanche si è imputati, quindi non ci si è difesi. Questo, però, è quel che stava succedendo.

La Cassazione fischia la scadenza del tempo: datando il reato al novembre del 1999 si constata l’intervenuta prescrizione. Se è vero per il corrotto, lo è anche per il corruttore. Anziché condannato, Berlusconi è prescritto per interposto Mills. E’ vero, non c’è, per Mills, l’assoluzione nel merito. Ma così come non si può essere un po’ incinte, neanche si può essere un po’ colpevoli. O lo si è, o non lo si è: senza sentenza di condanna, vale l’innocenza. (Si tenga a mente questo principio, lo tenga a mente il governo, cui oggi fa comodo, perché torneremo a parlare di mafia, e vedremo che le cose non sono poi così chiare.

da
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24 febbraio 2010

Corruzione ed intercettazioni, un parere che fa riflettere

La popolarità di Guido Bertolaso, il fatto che le accuse non ne abbiano provocato l’immediata cancellazione dal consesso civile, ha introdotto una novità, nella barbarie della malagiustizia italiana: nel processo mediatico, con la giuria riunita al bar, la parola spetta anche alla difesa. Un passo in avanti, rispetto a tempi in cui poteva parlare solo l’accusa. Non resta, ora, che avviare l’uso del televoto, che tante soddisfazioni ha dato, in altri ambiti.

Nel mentre l’inciviltà giuridica continua la propria marcia trionfale, le molte allodole del giornalismo italico svolazzano puntando sugli appositi specchietti, compitando pensose articolesse che sono, nella sostanza, veline di procura.

Ribadisco la sensazione già esposta: se gli inquirenti non stanno producendosi in uno striptease giudiziario, sicché il colpo di scena arriva alla fine, in sala la tensione si smoscerà presto, perché dietro le piume dell’allusione non c’è nulla di memorabile. E sarà un disastro, non perché a me piaccia la corrida giustizialista, che aborro, ma perché passeranno in cavalleria i guasti del sistema, dopo settimane passate in onanistiche discussioni sulla moralità collettiva e la più pertinente curiosità circa i massaggi. Lascio le supposizioni ai mestatori per vocazione, professione e profitto. Metto in fila qualche fatto.

1. Lo scontro fra procure è già cominciato, com’è tradizione. Firenze indaga, Roma vuol essere informata, Perugia è competente per i magistrati della capitale. Ciascuno tenta di attirare a sé la gestione della ciccia, consistente nel mettere le mani sulla politica e sui colleghi. La prima testa rotolata via è quella di Achille Toro. Mica uno da poco: delegato ai reati della pubblica amministrazione e candidato a guidare la procura capitolina. Dice l’attuale capo: certo che gli parlavo delle indagini, perché non avrei dovuto fidarmene? Perché all’epoca della scalata Bnl lo stesso Toro fu sospettato di passare informazioni riservate. Fu prosciolto, ma rimetterlo all’incrocio fra soldi e politica non è stata un’idea saggia. Ora s’è dimesso dalla magistratura, in modo da evitare il procedimento disciplinare. Spero che sia, anche questa volta, innocente. Resta da stabilire se, in quel caso, lo sia averlo riaccusato.

2. Il procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, lamenta che i colleghi di Firenze non avrebbero rispettato le regole relative alla competenza territoriale. Già la cosa è grave, perché l’idea che le leggi non siano rispettate in procura è imbarazzante (ma niente affatto nuova, perché attorno alla “competenza” si sono agitati scontri eclatanti, in passato). Ma la cosa cui a Roma non possono sfuggire è la seguente: se i fiorentini avessero passato carte, relative ad indagini su reati ai danni della pubblica amministrazione, queste sarebbero finite a Toro, che loro, però, stavano indagando. C’è del marcio in procura, insomma, restando da stabilire in quale.

3. Le indagini fiorentine vanno avanti, a quel che sembra, dall’aprile 2008. In un lasso di tempo così vasto le intercettazioni telefoniche “a strascico” possono non solo coinvolgere chiunque, ma riguardare ogni cosa, comprese le divagazioni sessuali. Qui si nasconde una colossale ipocrisia: con la digitalizzazione delle comunicazioni tutto è archiviabile, senza che ci sia bisogno di mettere al lavoro gli uomini con le cuffie. La legge che regola le intercettazioni non può, naturalmente, amputare un così efficace strumento d’indagine, ma neanche può far credere che tutto ruoti attorno al timbro formale del giudice dell’indagine preliminare, perché c’è un limite al prendersi in giro. Siccome la mafia può permettersi di funzionare con i pizzini, ma il mondo normale parla al telefono, dovrebbe semplicemente essere proibito utilizzare, quindi depositare e pubblicare, conversazioni senza senso compiuto, colme di puntini di sospensione, ove il soggetto che più allude è proprio chi indaga. E dovrebbe essere proibito utilizzare e depositare conversazioni che hanno a che vedere con condotte private, ivi comprese le risate notturne. A meno che non ci siano altri elementi di prova che dimostrano l’evidente significato di quelle frasi smozzicate. La supposizione e il sospetto non bastano.

4. Le misure cautelari servono a preservare la genuinità della prova. Ma la tempestività di quelle misure è servita a stoppare la corsa di Bertolaso e un provvedimento del governo (che a me non piaceva, quindi non scrivo per difenderlo). La sconnessione temporale fra le misure cautelari ed il processo, fra il mostrarsi dell’indizio e il formarsi della prova, genera mostri. Che potete comodamente osservare nel mentre scorazzano sulla pubblica scena.

5. Il tema di fondo, ineludibile, è quello degli appalti pubblici. Non funzionano, mentre la protezione civile ha funzionato perché poteva aggirare quelle regole. Se la morale finale di questa storia fosse la cancellazione della deroga non solo sarebbe un danno, ma consegnerebbe il governo reale delle cose d’Italia nelle mani di chi popola il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Soggetti di cui ha già parlato il presidente della seconda Corte, da me ripreso nei giorni scorsi. Questa non è una china pericolosa, è una china suicida.

6. Per evitare che la deroga conduca al peggio occorre riscrivere le regole degli appalti, e far funzionare la giustizia. Non è solo una questione di leggi, ma anche di pratiche amministrative e giudiziarie, che oggi si svolgono in una così pesta opacità da tenere lontani dal mercato italiano i grandi operatori internazionali delle infrastrutture. Se questa storia porterà ad una maggiore presenza del mercato, quindi della trasparenza e della concorrenza, nelle opere pubbliche, sarà una fortunata dimostrazione dell’eterogenesi dei fini. Se, invece, porterà alla pretesa di più controlli, generando più controllori, sarà un caso di masochismo nazionale, destinato a rafforzare il genetico intrallazzonismo del suo generone, imprenditoriale e politico.

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