17 aprile 2010

Manchester City e la maledizione delle magliette celesti

Oggi, vedendo in televisione il derby di Manchester, il colore delle maglie del City mi ha procurato un sussulto gastrico. Non perché in panchina ci fosse Ciuffettino Mancini che - passano gli anni - di calcio continua a capire molto poco, ma per un ricordo riaffiorato dal fondo delle memorie.
Giovedì 23 novembre 1978, a San Siro recupero degli ottavi di Coppa Uefa alle ore 13, dopo il rinvio per nebbia della sera precedente. A Milano c'era ancora la nebbia!
Questi sconosciuti inglesi, celesti come la Lazio, nostra maledizione di quella fine anni Settanta, non ci fecero vedere palla e rimediammo faticosamente un doppio svantaggio nel finale.
La nemesi al ritorno, con un perentorio 3 a 0.
Il Milan quel giorno schierò: Albertosi, Giuda Collovati, Maldera III, De Vecchi, Bet, Baresi, Buriani, Bigon, Novellino, Rivera, Chiodi. Allenatore, il Barone Liedholm.
Alla fine della stagione successiva, fummo declassati per una storiaccia di mazzette. Appunto insieme alla Lazio, nostra compare d'affari.

Barcellona non è Milano

Trasferta a Barcellona. Per vedere il miglior calcio in circolazione (se c'è una divinità del futbol, anche quest'anno la Champions dev'essere del Barça e non certo del manettaro) e per rivisitare una città che ha segnato epoche fondamentali della mia vita: primo viaggio all'estero a 19 anni, a diploma conseguito; viaggio di nozze, tappa intermedia verso Palma nel 1966; finale di Coppa Campioni con la Steaua il 24 Maggio 1989, il giorno in cui 80 mila milanisti arrivarono da ogni angolo d'Italia e dopo il trionfo invasero la città per tutta la notte, sbalordendo gli spagnoli che di queste ganassate sono i campioni del mondo. Quel club, allora magico, nel 1994 ad Atene diede la paga agli stessi blaugrana con identico 4 a 0: nottata sotto l'Acropoli, insieme ai miei cari e agli amici Benghi, Marubini e l'ineguagliabile Minoli. Bastano questi ricordi, insieme a tante altre chicche, per essere riconoscenti di essere stati milanisti lungo il percorso della vita.
Ed ora, a tramonto già iniziato, forse un'ultima visita.
Visitato con metodo il Barri Gotic, con la stupenda cattedrale, le Ramblas giù sino al mare ed al porto rammodernato con pontili avveniristici, e la mattina successiva il Paseig de Gracia con gli incredibili ma fascinosi palazzi modernisti di Gaudì e della sua scuola. Tappa finale alla Sagrada Famillia con la sorpresa, a me sgradita, di un completamento in corso e il timore che venga soffocata la folle poesia delle parti originariamente edificate sotto la guida del maestro.

Torno con la sensazione, già provata in altre capitali europee, che altrove si edifichino gli assetti urbanistici del futuro, si preservi il passato con amore e cultura, si abbia un rispetto profondo per la propria storia. Qui, nel paesone di Milano, si sia solo bravi a mandare in decadenza quel poco che l'incuria ed il disamore per la città hanno lasciato in piedi.
Barcellona, grazie alle Olimpiadi del 1992, ha ridisegnato il volto della città e del comprensorio con raziocinio e visione prospettica. Oggi la città è tappezzata di progetti che illustrano come sarà la Catalogna entro 150 anni. Scontiamo l'enfasi catalana, ma certamente Barcellona non dà l'impressione di fermarsi impotente ed annichilita da beghe di cortile e da politici mediocri.

Sbarco in un malinconico e semivuoto aereoporto di Malpensa.
Prendo l'espresso delle Nord. Avevano pubblicizzato che, grazie ad un costosissimo intervento in galleria, si sarebbe arrivati a Cadorna in 30 minuti. Solo per informazione, tanto non fa novità, il percorso si fa ancora in 40 minuti. Nel progettare opere costose ed ininfluenti, noi siamo sempre avanti 150 anni!

07 aprile 2010

In ricordo di Maurizio Mosca

"Lavorerai con Maurizio Mosca... Contento?"
L'annuncio era del direttore di produzione della rete per la quale lavoravo allora, Antenna Tre Lombardia. Ero arrivato a Milano da poco tempo e mi avevano affidato la conduzione di alcune trasmissioni in diretta oltre alle telecronache di Inter e Milan. Essendo stato a un passo dal lasciare questo mestiere per fare altre cose, pensavo che la stagione in arrivo potesse essere decisiva per il mio avvenire. E ci tenevo a fare le cose per bene.
Dunque non ero contento per niente: anzi... avevo reagito con un certo fastidio all'idea di dover condividere lo studio con quel personaggio così bizzarro e fuori dalle righe. Poi conobbi Maurizio: e tutto cambiò in pochi minuti. Lo andai a trovare nel suo nuovo ufficio a Legnano, nella sede della televisione, prendemmo un caffè e chiacchierammo a lungo. Andai a trovarlo il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora. Alla domenica eravamo in onda insieme per una diretta di cinque ore; poi, dopo un'ora di pausa, c'erano altre tre ore e mezza di diretta per il posticipo. Antenna Tredici, la trasmissione che conducevamo ogni volta che c'era campionato, sabato pomeriggio e sera, così come la domenica, era così: una maratona. Che lui affrontava con il sorriso sulle labbra e il gusto di tenerti sempre sulla corda, costringendoti all'imprevedibile, alla battuta che ti avrebbe spiazzato e messo anche in difficoltà.
Io in quella trasmissione non facevo nulla: a parte mettere il mio faccione in video e dare una continuità all'enorme quantità di contenuti che lui partoriva. Arrivavo in ufficio in moto con il mio bel vestitino stropicciato, andavamo a prendere un caffè e al ritorno nello stanzone arredato da centinaia di giornali accatastati in un ordine che solo lui riusciva a comprendere, mi illustrava i temi della trasmissione. Tutto ordinatamente scritto su un foglio vergato di pennarello nero punta grande con una bella grafia, molto chiara e pastorale: "Allora, sono sedici blocchi, apriamo con Vieri e poi parliamo dell'Inter che Moratti è incazzato come una biscia. E poi vediamo..."
Era proprio quel vediamo che mi preoccupava sempre moltissimo. Ma tant'è ci si trovava bene insieme: ed evidentemente se ne accorsero perché dopo un po' di tempo mi chiesero di condurre anche un'altra trasmissione con lui, Azzurro-Italia. Era uno dei programmi 'griffati' della rete, una trasmissione storica: lui era il castigamatti, io un vigile urbano incaricato di organizzare il traffico tra lui e gli opinionisti. Avevamo (fino a quando non trovavano la panchina di una squadra da rimettere in sesto) Franco Scoglio, Nedo Sonetti e tanti personaggi interessanti e molto diversi tra loro: Aldo Serena, Enzo Gambaro, José Altafini. Mosca li ha iniziati tutti: e avviati a una professione che in Italia non è semplice. A volte è sotto stimata anche per colpa di chi l'ha interpretata. Gli appuntamenti cominciarono a diventare parecchi, e si stava insieme anche per giornate intere: in onda e fuori.
"Adesso condurrai insieme a Maurizio Mosca 'Di qua o di là'. Contento?"
Anche no... Per quelli che non la ricordano, e i tantissimi che non l'hanno mai vista, 'Di qua o di là' era una trasmissione creata proprio da Maurizio nel corso della quale, divisi da due gradinate, i tifosi di tante squadre diverse cambiavano opinione a seconda dell'argomento trattato saltando da uno schieramento all'altro. Esempio: "Baggio deve giocare in Nazionale ai Mondiali"? Chi diceva sì stava di qua e chi diceva no andava di là. E si iniziava a discutere: e sorprendentemente in gradinata di trovavi interisti a braccetto con juventini e milanisti in pieno accordo con gli uni e con gli altri.
La trasmissione era divertente e surreale: difficilissima da condurre. Maurizio decideva tutto: gli argomenti, il modo di presentarli, i tempi delle discussioni. A me restava solo prendere la scaletta, mettere ordine, condurre e divertirmi. Iniziai quella trasmissione perché, secondo me, pochi avrebbero voluto farla: aveva poco di sportivo e molto di intrattenimento e tenere a bada un centinaio di tifosi non era una cosa semplice. Il rischio era quello di sputtanarsi anche un po'.
Tenere a bada Maurizio a volte era il rischio peggiore. Per cui, contento non ero: ma in poche settimane quella trasmissione diventò un bambino da coccolare. L'abbiamo condotta insieme per oltre due anni fino a quando le nostre strade si divisero, professionalmente parlando. Quella trasmissione mi ha lasciato ricordi indelebili: non mi sono mai divertito tanto in vita mia. C'erano momenti in cui mi dovevo nascondere dietro la scenografia per poter ridere liberamente e rientravo in onda con le lacrime agli occhi.
Oggi quella trasmissione mi ha lasciato tante cose belle: i ricordi, alcune foto, e l'amico più caro che ho, e che ho conosciuto proprio lì, in quello studio. Maurizio aveva l'abitudine di chiamare tutti i tifosi con un nomignolo e lui, che in realtà si chiama Stefano, era Batistuta a causa di una vaghissima somiglianza con l'attaccante argentino. Con Bati, c'erano Prodi e Oliver, Il Secco e Ciccio, Grugno e Gringo, Codino e Codazzo e tanti altri che ricordo solo vagamente. Opinionisti nati dal nulla che all'epoca erano vere e proprie celebrità, riconosciute e degne di richieste di autografo. L'unico pirla lì in mezzo era il conduttore: inutilmente teso nel dare una logica a una cosa che di logica non ne doveva avere, perché il bello del programma era proprio la sua illogicità.
Era il sogno di Maurizio, fare la tv della gente con la gente. In quel caso ci riuscì alla grande.
Alla sera, spesso, si usciva a cena insieme: e scoprivi il Mosca che la tv non avrebbe mai mostrato. Un intrattenitore brillante, grande esperto di calcio e grandissimo esperto di boxe. Un giornalista coi fiocchi, enormemente più preparato e professionale di quel personaggio bizzarro e sconclusionato che si era creato in televisione. Con il quale aveva in comune una sola cosa: l'incapacità di prendersi sul serio e di prendere tutto sul serio. Una sera, dopo la trasmissione, andiamo tutti a mangiare una pizza, tifosi compresi, e siamo più del previsto, almeno una trentina di persone: "Ok, dividiamo si fa alla romana". dice Oliver. "Io sono romano, e si fa a modo mio": e pagò per tutti. Un gesto che credetemi, da parte di uno che vive la tv da professionista e che in qualche modo è alimentato dal distacco catodico con la gente comune, non è da tutti. In tanti anni non l'ho mai visto fare da colleghi più 'piacioni' e molto più ricchi di lui.
Gli aneddoti sarebbero davvero troppi, e si finirebbe con il solito quadretto da libro Cuore che altri possono fare meglio di me. A lui procurerebbe un po' di nausea.
Di lui mi mancheranno le battute, i tormentoni, le rivelazioni (quelle che il pendolino non avrebbe mai detto) e le tante verità che Maurizio aveva e si teneva per sé. O al massimo rivelava davanti a un limoncello o a una di quelle orrende merendine al cioccolato che gli passavo sottobanco durante la trasmissione e che gli piacevano da morire. Come a me del resto...
Maurizio era molto, molto generoso; con attenzioni delicatissime: ed era pieno di difetti che lo rendevano anche più umano. Aveva improvvisi sbalzi di umore e imprevedibili e violentissimi sfoghi verbali che in onda potevano diventare molto problematici da controllare. Aveva un gusto per il divertimento unico nel suo genere: era convinto (secondo me anche un po' a torto) della buona buona fede e dell'onestà delle persone di sport. Ma soprattutto gli piaceva che la gente si divertisse, ridesse e magari che ragionasse anche attraverso una battuta, una spigolatura.
Se ce l'aveva con qualcuno lo diceva. E la cosa poteva accadere in studio, o durante un collegamento: se la discussione iniziava quasi certamente finiva in lite che, poteva rivivere ogni settimana, sempre più dura e astiosa. L'ho scritto altre volte: lavorare con lui, ma anche con il professor Scoglio, era un po' come cenare a un ristorante di lusso con una bomba a orologeria innescata sotto il tavolo. Maurizio aveva antipatie che potevano durare una vita, o finire in cinque secondi. Bastava mezza parola, in un senso o nell'altro. Una volta anche io e lui abbiamo discusso pesante: e ci siamo tenuti il muso a lungo. Ma alla fine a separarci non sono state le discussioni, ma le circostanze.
Mi sarebbe piaciuto poter proseguire l'esperienza di 'Di qua o di là': ma questo lavoro è così. E con la stessa rapidità con la quale mi portarono a lavorare con lui, l'occasione di condividere le mie giornate con Maurizio si dissolse portando me dietro una scrivania e lui davanti ad altre telecamere. Ci siamo sentiti pochissimo, e visti ancora meno da allora. Mi arrivavano i suoi saluti, e gli mandavo i miei. Bastava quello per sapere che ci si pensava, e che ci si voleva ancora bene.
Sapevo della sua sofferenza da tempo, e ogni domenica Guida al Campionato per me era l'occasione di constatare il suo stato di salute: "Finché è lì va tutto bene..." dicevo a mia moglie cercando di capire dalle inquadrature le sue condizioni, il suo umore. Ma lui, come sempre in onda non faceva trapelare nulla di quella che era la sua vita, il suo stato d'animo. Era capace di lavorare dodici-quattrodici ore al giorno senza interruzioni. E le tante preoccupazioni che aveva non trapelavano mai. E' stato capace di lavorare fino all'ultimo istante nonostante molta sofferenza, lunghissime cure, operazioni e terapie: perché questa sua dedizione era la cosa che lo definiva di più.
Di lui si possono dire un sacco di cose, a me ne interessa solo una. Perché è quella che ho sempre detto di lui a chi mi chiedeva 'come fosse lavorare con Mosca'.
Io so solo che con lui mi sono divertito un casino.

Ciao Maurizio, con te mi sono proprio divertito tanto.
Buon viaggio.

di Stefano Benzi, direttore di Eurosport

04 aprile 2010

Chi peggio?

È un dilemma di facile risposta. Sul calcio giocato in Italia da qualche anno, di qualità indecorosa, la vince alla grande lo squallido modo di commentarlo da parte di Sky Sport.

La Lega che vorrebbero che fosse

Ernesto Galli della Loggia, lo sfortunato commentatore del Curierun che qualche giorno prima delle elezioni ha preconizzato la disfatta elettorale del Pdl alle regionali perché afflitto da berlusconismo fatiscente e plasticità innata, oggi cerca di dare una lezione ideologico-programmatica alla Lega. Poiché questo partito ha vinto il test elettorale è bene, questo il suo ragionamento, trasferirlo dalla riserva indiana degli zotici paesani al proscenio dei movimenti che possono meglio interpretare le aspirazioni del mondo borghese di perpetrare il suo dominio sulla politica in Italia.
La Lega, dice il nostro Ernestino, sa interpretare la contemporaneità perché è fatta da uomini della stessa pasta del suo elettorato: pragmatici, lavoratori, perseveranti nel perseguire le poche idee che hanno in zucca. Federalismo, buon governo, legalità pubblica e privata.
Ma il federalismo è una chimera perché la gente è delusa dal regionalismo (sic! non vota Pd quindi il giocattolino non piace più) e perché adottarlo significherebbe mettere in angosce le regioni del sud, che infatti dovrebbero cominciare a fare i conti con il senso di responsabilità ed accantonare il clientelismo.
Meglio dunque dedicarsi allo riforma dello stato come eccellentemente fa Maroni ed abbandonare le ubbie federaliste.
L'articolo di Galli della Loggia è sintomatico di come il mondo alto-borghese che il Corriere della Sera fedelmente rappresenta da sempre continui non solo a non capire il fenomeno Lega ma nemmeno si sforzi di accettarlo. Da 25 anni lo considera una fastidiosa parentesi, esattamente come inquadra Berlusconi che non è della stessa pasta, è attaccabilissimo ma è purtroppo un fenomeno di consenso elettorale.
Il federalismo è visto come una mostruosità che potrebbe sconvolgere i poteri economici sul territorio e nel paese, e la subordinazione della politica agli stessi.
Meglio fargli fare, da bravi soldatini, la guerra alla malavita ed a compito finito, perché hanno le palle e potrebbero farcela in modo egregio, metterli in un'altra riserva, quella dei Cincinnati.
Mai che l'illustre docente ci racconti come e perché in Italia la borghesia, sempre quella alta, giusto per intenderci, non abbia saputo mai fare una grande creativa politica nazionale ed abbia sostanzialmente fallito tutte le occasioni storiche che le si sono presentate per cambiare l'Italia(solo per fare un esempio la ricostruzione post bellica ed ancora proprio quella riforma regionalistica oggi snobbata) delegando di volta in volta la sua rappresentanza ad obbedienti commis: democrazia cristiana, sinistra post comunista, sino ai piccoli manovratori quali oggi sono Casini e Fini.

02 aprile 2010

Che Italia è?

Che Italia è, quella che riprende la navigazione dopo essersi scannata nella baia delle regionali? Politicamente è uguale a se stessa, da quindici anni, con l’intero dibattito che ruota attorno a Silvio Berlusconi, con la sinistra ipnotizzata e, al tempo stesso, indemoniata dall’idea che si possa vincerlo senza batterlo elettoralmente, con alcuni volontari che, a turno, cercano di fargli le scarpe nel suo stesso schieramento, soccombendo uno appresso all’altro. Istituzionalmente peggiora, perché interi apparati dello Stato sono vicini al coma celebrale, mentre i giornali, per piaggeria o supposta furbizia, tendono a spandere incenso attorno al deragliamento che travolge gi equilibri costituzionali. Economicamente ha il fiatone, ha smesso di correre e ancora avanza a sobbalzi, piegandosi sul fianco e tenendosi la milza. Ha la stoffa di un gran corridore, ma acciaccato. Socialmente può essere letta in modi diversi, perché i numeri dell’economia dimostrano che le cose non vanno poi così male, ma l’umore complessivo è malmostoso, segnalando un Paese meno propenso alla grandiosità e alla generosità, più aggredito da invidia, accidia e rosiconeria. In questa situazione Berlusconi ha messo in atto il suo capolavoro elettorale.

Sa leggere e interpretare l’Italia meglio di chiunque altro, e per negarlo si deve essere non di parte o avversari, ma direttamente stupidi. Chi crede che sia lui a modellare quest’Italia s’illude, perché spera che mettendolo a tacere (è una parola!) le cose cambino. No, in quel caso si perderebbe il migliore interprete, non cambierebbe la realtà. Il capolavoro delle regionali dovrebbe essere studiato, Sarkozy dovrebbe passarci sopra le vacanze, perché usa le parole altrui a proprio vantaggio. La sinistra attacca perché ritiene illiberale chiudere le trasmissioni politiche della Rai? Lui non risponde negando, ma affermando che quei conduttori politicizzati dovrebbero tacere sempre. Lo attaccano sul piano giudiziario? Lui tralascia la sostanza e accusa i magistrati. Lo crocifiggono con le intercettazioni? E lui chiede agli italiani se si sentono tranquilli, quando parlano al telefono. Il tutto a uso e consumo di quella fetta d’italiani che seguono la politica e il dibattito pubblico. Non la maggioranza...

http://www.davidegiacalone.it/

Giorgio Porcaro, una vita che è durata uno sketch

Bruno Porcaro ha ventitrè anni, per sovravvivere fa l'assicuratore («Ma vorrei lavorare in radio»), è appena tornato dall'Arizona dove ha partecipato al reality show Wild West («Un'esperienza che ti arricchisce ma non ti cambia, alla fine hai qualcosa in più nel tuo bagaglio ma sei sempre il solito pirla») e a Milano ci sta talmente bene che la prossima volta che partirà per il deserto, la prima cosa che mette in valigia è l'iPod con registrato i rumori del tram: «La mia vita è questa, altro che selvaggio West».
«La mia vita è questa, altro che selvaggio sud» è una frase che suo padre, Giorgio Porcaro - il “terrunciello” che parlava un dialetto tra il pugliese e il lombardo completamente inventato - magari non ha mai detto ma di sicuro ha pensato un milione di volte quando si trovava a tirar mattina in un'osteria sui Navigli e gli capitava di pensare alla «sua» Benevento, dove era nato nel '52 (anche se bausciava di esser di Madonnetta, “che non è un paese ma la Madonna che sta sulla guglia più alta del Duomo” diceva) e che lasciò a cinque anni per salire a Milano: «Mio nonno era finanziere: gli cambiavano spesso destinazione».
Giorgio Porcaro, invece, il massimo che cambiò fu strada, da via Caracciolo dove passò la gioventù a via Volta, dopo sposato. E quando al tramonto della carriera e della vita finì a Milano 3 probabilmente si sentì all'estero, lui che se avesse potuto avrebbe costruito una «muraglia milanese» sul parallelo di Porta Genova, perché da lì in giù sono tutti meridionali diceva. Lui che si considerava un milanese col pedigree, che mangiava busecca e risotto, lui che creò il personaggio culto del terrunciello e se lo vide scippare - rob de matt - dal suo miglior amico, Diego Abatantuono: stessi riccioli stessa classe diverso destino.
Comico di gran razza, tra i più geniali e dimenticati cabarettisti italiani degli ultimi trent'anni, per Giorgio Porcaro la vita è durata il tempo di uno sketch: una risata e via. Un'ascesa e caduta - ha detto qualcuno - che appartengono alla mitologia dell'icona clownistica, della risata che nasconde abissi di tragedia personale: la gavetta, gli applausi, il successo che ormai è lì basta stringere il pugno, poi le luci che si spengono all'improvviso, l'assenza della ribalta mentre gli amici vanno avanti, infine una storiaccia di droga - lassem perd - e la malattia.
Giorgio Porcaro se ne andato che non aveva neppure cinquant'anni nell'estate del 2002. Cancro, come tanti. «L'ha affrontato con forza incredibile, fino alla fine. E sì che ha sempre avuto una paura matta dei medici e degli ospedali. Eppure, ha accettato tutto pur di tentare di vincere il suo male. Ancora il giorno prima, che non aveva più voce, ha chiesto i medici come andava. Ci ha creduto davvero».
Ci ha creduto davvero anche quando entrò per la prima volta al Derby, il tempio della comicità milanese, era l'inverno del '72: «Anni speciali, di sicuro i più belli della sua vita, papà lo diceva sempre: gli anni di quando la tv non aveva ancora ucciso il cabaret, del Meazza senza il terzo anello che alla domenica ci andavi a piedi, gli anni che se avevi bisogno di qualcuno sapevi sempre dov'era senza cercarlo sul telefonino. Diceva che era un'altra città, meno caotica, più aperta».
Appunto. Per Porcaro le porte dello spettacolo si aprirono grazie a un grande amico che si chiama Gianfranco Funari il quale lo scaraventò sul palco del Derby con il suo gruppo, I mormoranti, che divideva con Bruno Gracieffa e il (futuro) cantautore Fabio Concato. Titolo del primo spettacolo: Da dove vieni tu?. La risposta è: Non lo so, ma so dove voglio andare, lontano. Infatti arriva La Tappezzeria, anno 1977, uno spettacolo teatrale di Enzo Jannacci e un signore che si chiamava Beppe Viola. Poi il passo dal teatro al cabaret, sempre con l'amico «Dieco», Mauro Di Francesco («Papà diceva che era il più simpatico, gliene facevano di tutte, una volta gli misero del peperoncino nel flauto che usava per il suo numero») e poi Boldi, Teocoli, il (futuro) romanziere Giorgio Faletti. E Jannacci. «Fu lui il primo a credere nel personaggio del terrunciello inventato da papà, poi però disse a Diego “Portalo avanti tu che c'hai più la faccia da meridionale”. Mio padre era un bonaccione, non si oppose. Poi Abatantuono che è un grande artista ne fece il suo capolavoro. Per un po’ rimasero amici, dopo ci fu la rottura e alla fine i tentativi di riavvicinamento, anche se non fu più come prima». Anche quando la grande stagione del Derby si chiude e il gruppo di amici sulle orme dei Gatti di Vicolo Miracoli salta dal cabaret al cinema, alla fine dei Settanta, non fu più come prima per Giorgio Porcaro.
Tra il '79 e l'83, ai tempi del leggendario b-movie all'italiana, infilò cinque film uno dietro l'altro, dall'indimenticato Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi (con un Boldi strepitoso a fare il verso a un simil-Berlusca) al fortunatamente dimenticato Sturmtruppen II. I suoi però non erano più caratteri da commedia dell'arte ma macchiette ridotte a rubare un'inquadratura ad attori, disemm inscì, come Jimmy il Fenomeno, Gegia, Pongo e Giancarlo Magalli. «Il rimpianto più grande di papà era di non aver avuto ciò che meritava. Sapeva di aver scritto una pagina della storia del cabaret ma non aveva ricevuto niente in cambio. Però non era risentito o arrabbiato. Gli scocciava certo, ma aveva un gran carattere, sapeva passarci sopra. Mi ricordo una sera, era già in ospedale. Abatantuono era in tv, a Controcampo, e a un certo punto lo saluta in diretta e gli dice: “Dai Giorgio che ce la fai”. Papà si commosse, sono certo che dentro di lui ha detto, “Ma sì, va là che ci si vuol bene”. Era fatto così».
Già, com'era fatto papà? «Un martello: irresistibile e incontenibile, come sul palco, uno che quando andavamo in metropolitana iniziava a fare le imitazioni in mezzo alla gente, io mi vergognavo e dicevo “Basta papà, dai” e lui niente, anzi ad alta voce: Scusa?! Che cousa! Sent'bello, i sso' milanesss. Ogni volta così». Lo diceva per far ridere, milanesss i cent pi cent, ma Porcaro, nonostante il cognome e un debole per le 128 Krups rosa con interni leopardati, milanese si sentiva davvero. «Non avrebbe abbandonato questa città per nulla al mondo, in Puglia andava una volta all'anno a trovare i parenti, ma poi subito su a Milano, dove peraltro diceva che il 70 per cento sono pugliesi. Gli piaceva tutto della città, ristoranti e osterie soprattutto, be’ per uno come lui che tutte le sere finito lo spettacolo si andava fuori a mangiare... Una cosa non sopportava: l'immigrazione, non dei terùn però, degli orientali, i giapponaiiis come diceva lui». Ne diceva e ne faceva di cose, lui: parole e lingue inventate, zeppe, improvvisazioni, smorfie, tutte l'armamentario che fa di un vero artista quello che è: un talento naturale. Oggi purtroppo Giorgio Porcaro lo hanno dimenticato in tanti, quasi tutti. Verrebbe voglia di chiedergli scussa. Che in milanese si dice me dispiass.

di Luigi Mascheroni, su Il Giornale

01 aprile 2010

Il centrodestra allunga la sua striscia vincente

Concluse le elezioni, come dice oggi sul Curierun Paolo Ostellino, i voti si contano e non si pesano.
Queste elezioni di mezzo termine hanno sostanzialmente detto quattro verità.

1. In Italia il centrodestra è maggioritario e sopporta persino due anni di governo distratto e di scandaletti pornografici del Cavaliere. L'elettorato non è però beota, come fortunatamente crede il pensiero debole degli pseudo intelettuali di sinistra, ed i suoi messaggi li manda forti e chiari. La crescita geometrica della Lega è dovuta a questo, oltreché da una indubbia capacità politica (i migliori ministri sono leghisti o di cultura leghista).

2. Il Pd è ormai uno zatterone incapace di generare iniziativa politica. Il connubbio catto-comunista è peggio di una paresi facciale. Dal serpentone elettorale ogni tanto si stacca un sussulto di isteria politica che li indebolisce ulteriormente. Questa volta è toccato ai seguaci del comico genovese.

3. Il vero sconfitto è Casini, con la sua compagnia di giro dei Rutelli, Tabacci, Luca di Montezemolo e direttori di giornali. Il bipolarismo è una realtà che non si scalfisce con simili figuranti. Peggio, i nipotini democristiani si sono inventati una strategia dei due forni che li ha fatti somigliare a Mastella e che l'elettorato ha bocciato sonoramente.

4. Fini ha confermato di contare più sui giornali e sulle televisioni che nelle matite degli elettori di destra. Il suo rancoroso attacco prolungato a Berlusconi ed il suo altezzoso silenzio in campagna elettorale è costato poco elettoralmente, ma verrà da lui pagato molto in termini di incisività politica.

La sensazione è che il Pdl si sia ancora una volta ricompattato dietro al suo leader ed abbia accettato come ineluttabile l'asse di governo Berlusconi-Bossi.