01 ottobre 2011

Banca Popolare di Milano: una nobile decaduta

Sono riluttante a scrivere di Bpm. Troppe emozioni, troppi ricordi, troppe ferite appena rimarginate.
Ma l'odissea della sua governance, come si usa dire oggi, merita qualche modestissimo commento.
La peculiarità delle società cooperative è il voto capitario in assemblea. Conta il libro soci, non le azioni possedute. È certamente un concetto che sa di socialismo ottocentesco e di sana cultura mazziniana, ma funziona egregiamente, checché ne pensi Draghi, a precise condizioni.
1) La sfera decisionale dei manager, del consiglio di amministrazione e delle rappresentanze dei soci si riconosca reciprocamente totale autonomia nell'ambito delle specifiche competenze.
2) La banca sappia esprimere una redditività ed un'efficienza operativa di buon livello.
3) Il Consiglio di amministrazione sia la proiezione delle migliori istanze economico-culturali del territorio di riferimento.
Questa è l'unica "velina" che ha diritto di cittadinanza in una cooperativa e che ha ispirato per decenni i delicati equilibri e rapporti della Bpm, che fu negli anni '80 fra le prime otto banche italiane e, fra le popolari, seconda per dimensione alla Novara ma prima per efficienza gestionale (negli anni '90 vinse l'oscar del più trasparente bilancio bancario).
Sono passati quattro lustri e sono arrivate nuove generazioni di soci-cooperatori, che forse non hanno saputo distinguere il possibile dal passibile e si sono inebriati nel gioco del potere, senza l'umiltà di studiare la storia e senza la consapevolezza che una banca non è un consiglio comunale e che gli errori nessuno li ripiana. I consigli si sono sbiaditi qualitativamente e la gestione è stata a uomini di cultura finanziaria certo poco sensibile alle connotazioni storiche di una cooperativa forte e radicata sul proprio territorio e della cultura media dei livelli manageriali interni.
Ci si sono messe le crisi sistemiche e globali, certamente, ma da quelle ci si difende meglio se si è se stessi e non si scimmiottano improbabili modelli gestionali.
Si è dispersa una bella cultura bancaria, forse ruspante, ma genuinamente vicina alle esigenze del territorio; si sono fatte prove di grandeur espansionistica che hanno dilapidato il patrimonio aziendale e trovata impreparata la banca a dimensioni troppo dilatate.
Questa la mia analisi, discutibile, ma questo percorso introspettivo sarebbe stato bene che tutti gli attori in campo lo avessero fatto prima di esercitarsi in formulette statutarie che paiono pensate più per conservare lo sbagliato che non per recuperare l'originario spirito e il consenso e la solidarietà della clientela e del territorio.