È finita l'avventura dell'Italia in Sudafrica.
Con il peggiore risultato di sempre, ultima in un girone politicamente di favore.
Io nella mia giovinezza ho vissuto il pathos struggente dell'eliminazione da parte dei Coreani del Nord ad Inghilterra 2006. In quella serata incancellabile fummo battuti sulla corsa, giocammo in dieci per l'infortunio di Bulgarelli che era la nostra mente di centrocampo, la fortuna ci disse di no in occasioni da gol incredibili. Perché tutto il clan giornalistico con a capo Brera aveva snervato l'ambiente e l'inviso allenatore Mondino Fabbri, colpevole di avere abiurato il catenaccio ed impostato la nazionale sugli odiati abatini, Rivera in primis.
Sudfrica 2010: nulla di tragico, tutto quietamente normale, ma la logica conseguenza di una spedizione scellerata, di un'accozzaglia di vecchi campioni del mondo bolliti e di giovincelli senza classe e senza carattere. Diciamocelo con franchezza realistica: Nuova Zelanda e Slovacchia valgono una normale squadra di C2 italiana, ma noi non siamo riusciti a batterli perché come complesso valiamo di meno.
Questa eliminazione è il frutto di una crisi sistemica, che Germania 2006 aveva purtroppo mascherato. L'Italia non produce più talenti perché la politica dei vivai è stata abbandonata per supportare una politica degli ingaggi demenziale.
In Italia non esiste più da anni un progetto tattico di gioco. Viviamo con una generazione di allenatori che non sa costruire calcio ma solo assembramenti di uomini in venti metri di campo. Capita così che qualche mago cialtrone venuto dall'estero, con una rosa appena migliore della concorrenza (i reduci del campionato della Beneamata sono i peggiori nelle loro nazionali!) ma con una concezione della verticalità ormai ignota agli indigeni, vinca scudetti e coppe.
Ultimo particolare. Ai mondiali non si può fare lotta libera in area, non si possono tirare gomitate vigliacche, non ci si può rotolare agonizzanti dopo ogni intervento. Per i nostri giocatori questo è un altro sport, e ciò spiega talune timidezze imbarazzanti riscontrate in questa disastrosa avventura mondiale.
Ora il baraccone tende a perpetuarsi. Abete, con una faccia di tolla che viene da decenni di potere democristiano, parla del nuovo allenatore, le televisioni spostano il tiro sul calcio-mercato, i dirigenti parlano di stadi vecchi invece che di cervelli vecchi, i telecronisti di Sky si preparano a mugolare di un altro calcio superfantastico.
Unica consolazione, e stiamone certi perché nessuno come noi è voltagabbana ed impietoso, non sentiremo più parlare l'arrogante ed ignorante Lippi e le sue figurine Panini del 2006, non vedremo più il ghigno di Cannavaro e gli spot pubblicitari di Gattuso.
Dite che è poco?
26 giugno 2010
Berlusconi, basta!
La vicenda del ministro Brancher è indegnamente vergognosa. Costui, con un processo sulle spalle per intrallazzi nella vicenda Bpi-Unipol, anziché essere invitato ad una pausa di silenzio (è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio!) affinché organizzi al meglio la sua difesa, viene nominato ministro cosicché possa immediatamente vantare un legittimo impedimento alla partecipazione al processo.
Credo che con questa vicenda Berlusconi abbia toccato il fondo della protervia politica.
Se ne vada e lasci il patrimonio della destra di governo a chi, come Tremonti, sta tentando di fare politica strategica e non cabaret di squallido ordine.
Credo che con questa vicenda Berlusconi abbia toccato il fondo della protervia politica.
Se ne vada e lasci il patrimonio della destra di governo a chi, come Tremonti, sta tentando di fare politica strategica e non cabaret di squallido ordine.
20 giugno 2010
Mondiali Sudafrica (2)
Trascorrono i giorni delle eliminatorie, ma il Mondiale australe non decolla.
Pubblico di dementi strombazzanti a parte, le condizioni ambientali per fare gioco piacevole ci sono tutte: prati ineccepibili, clima tardo autunnale, arbitraggi onesti. Eppure si vede un calcio di infimo ordine, malato di tatticismo e povero di invenzione e fantasia.
Se il movimento a livello mandiale si è appiattito così, temo che il calcio finirà per scoppiare come una vescica esausta.
Presto per analizzare le ragioni. Appare evidente sin d'ora che la coesistenza del calcio professionistico dei club con stagioni sempre più dilatate (60/70 partite ufficiali all'anno) e le esigenze delle rappresentative nazionali è sempre più difficoltosa.
Aggiungo che è evidente l'asservimento dei talenti alle esigenze tattiche, né il futuro promette molto se si è avuta la pazienza di seguire i mondiali under 17/20.
Chi si salva? Una su tutte, l'Argentina che sa stare fuori del coro forse proprio perché ha in panchina un giocatore fuoriclasse, che non si sforza nemmeno per un po' di fare l'allenatore ma solo il capitano anziano non giocatore.
La peggiore? Per ora l'Inghilterra, massacrata da un campionato durissimo e forse nemmeno allenata adeguatamente.
L'Italia oggi gioca con la Nuova Zelanda, un paese di nessuno calcistici. Una volta si sarebbe scommesso sulla goleada, stasera ci accontenteremmo di un gol di scarto.
Pubblico di dementi strombazzanti a parte, le condizioni ambientali per fare gioco piacevole ci sono tutte: prati ineccepibili, clima tardo autunnale, arbitraggi onesti. Eppure si vede un calcio di infimo ordine, malato di tatticismo e povero di invenzione e fantasia.
Se il movimento a livello mandiale si è appiattito così, temo che il calcio finirà per scoppiare come una vescica esausta.
Presto per analizzare le ragioni. Appare evidente sin d'ora che la coesistenza del calcio professionistico dei club con stagioni sempre più dilatate (60/70 partite ufficiali all'anno) e le esigenze delle rappresentative nazionali è sempre più difficoltosa.
Aggiungo che è evidente l'asservimento dei talenti alle esigenze tattiche, né il futuro promette molto se si è avuta la pazienza di seguire i mondiali under 17/20.
Chi si salva? Una su tutte, l'Argentina che sa stare fuori del coro forse proprio perché ha in panchina un giocatore fuoriclasse, che non si sforza nemmeno per un po' di fare l'allenatore ma solo il capitano anziano non giocatore.
La peggiore? Per ora l'Inghilterra, massacrata da un campionato durissimo e forse nemmeno allenata adeguatamente.
L'Italia oggi gioca con la Nuova Zelanda, un paese di nessuno calcistici. Una volta si sarebbe scommesso sulla goleada, stasera ci accontenteremmo di un gol di scarto.
Addio Roberto
Si è spento dopo dieci anni di malattia incurabile Roberto Rosato, stopper di uno dei Milan degli invincibili, quello di Rocco anni '70.
Grande difensore, marcatore implacabile, faccia d'angelo e carattere d'acciaio.
Una delle icone della mia gioventù, un altro coetaneo che mi precede sul sentiero sconosciuto.
I funerali si terranno a Chieri, città d'origine, martedì.
Che la terra ti sia lieve, caro Roberto.
Grande difensore, marcatore implacabile, faccia d'angelo e carattere d'acciaio.
Una delle icone della mia gioventù, un altro coetaneo che mi precede sul sentiero sconosciuto.
I funerali si terranno a Chieri, città d'origine, martedì.
Che la terra ti sia lieve, caro Roberto.
14 giugno 2010
Mondiali Sudafrica (1)
Sono cominciati i campionati del mondo di calcio più assurdi della storia. Più di Giappone-Corea del Sud 2002, che si salvarono per l'efficienza organizzativa nipponica e lasciarono un seme calcistico che ha fruttificato una discreta scuola regionale.
Nell'Africa australe il calcio è uno sport semisconosciuto, senza tradizioni e probabilmente senza futuro. Se, giustamente, l'Africa andava finalmente premiata, meglio dare l'organizzazione a paesi con una solida radice calcistica come Ghana o Nigeria o Camerun. I rischi ambientali sarebbero stati i medesimi del Sudafrica, sebbene le anime belle invasate di mandelismo tacciano che questi mondiali si stanno giocando in un clima di emergenza delinquenziale, la stessa emergenza che ha impedito il decollo turistico della manifestazione.
Ciò premesso, parliamo di calcio.
Per ora se ne è visto poco, esasperatamente tattico, povero di individualità di classe. Il calcio si avvia ad una strana involuzione, un virus che ha infettato tutti i campionati nazionali europei, salvo poche e non significative eccezioni.
Le squadre non attaccano più, sono spariti gli avanti di fascia, i rifinitori sono scartati sin dai vivai, le punte giocano spalle alla porta. Ne deriva una spaventosa melassa, in cui si agitano in venti nello spazio di trenta metri, tutti dediti a schemi perimetrali, tutti in attesa di un magico pertugio che consenta un tiro agevole in porta. È una noia infinita, una noia tale che le poche eccezioni che giocano calcio verticale sembrano marziani tornati dagli anni '80.
Stasera esordisce l'Italia. I connotati della squadra sono quelli descritti, il ritmo da vecchie glorie.
Ma il balun è rotondo, e magari i miracoli si ripetono!
Nell'Africa australe il calcio è uno sport semisconosciuto, senza tradizioni e probabilmente senza futuro. Se, giustamente, l'Africa andava finalmente premiata, meglio dare l'organizzazione a paesi con una solida radice calcistica come Ghana o Nigeria o Camerun. I rischi ambientali sarebbero stati i medesimi del Sudafrica, sebbene le anime belle invasate di mandelismo tacciano che questi mondiali si stanno giocando in un clima di emergenza delinquenziale, la stessa emergenza che ha impedito il decollo turistico della manifestazione.
Ciò premesso, parliamo di calcio.
Per ora se ne è visto poco, esasperatamente tattico, povero di individualità di classe. Il calcio si avvia ad una strana involuzione, un virus che ha infettato tutti i campionati nazionali europei, salvo poche e non significative eccezioni.
Le squadre non attaccano più, sono spariti gli avanti di fascia, i rifinitori sono scartati sin dai vivai, le punte giocano spalle alla porta. Ne deriva una spaventosa melassa, in cui si agitano in venti nello spazio di trenta metri, tutti dediti a schemi perimetrali, tutti in attesa di un magico pertugio che consenta un tiro agevole in porta. È una noia infinita, una noia tale che le poche eccezioni che giocano calcio verticale sembrano marziani tornati dagli anni '80.
Stasera esordisce l'Italia. I connotati della squadra sono quelli descritti, il ritmo da vecchie glorie.
Ma il balun è rotondo, e magari i miracoli si ripetono!
07 giugno 2010
Com'è cambiato il senso civico
L'educazione smarrita.
Alle 15.43 di un pomeriggio feriale in piazza Susa, dove viale Campania e i suoi controviali intersecano l'inizio di viale Argonne, il motociclista brucia in venti metri tre sensi vietati e sprinta sulle strisce pedonali: con elegante torsione evita il basito pedone e si lancia accelerando verso viale Romagna. Il pedone, ancora stupefatto di essere tutto intero, volge lo sguardo verso il disinvolto centauro appena in tempo per vederlo festeggiare con il dito medio alzato in aria. Avesse voglia di una qualsiasi replica, se la deve far passare in fretta: lo strombazzare dei clacson annuncia la marea di auto, che ha ricevuto il via libera dal semaforo. Alla stregua di un paria fugge sul marciapiede. Nessuno lo degna della minima considerazione: d'altronde, non ha nemmeno un graffio. Che cosa pretende di più? Nel 1971 arrivando da Catania a Milano il disorientamento poteva durare settimane. Non era dovuto al semplice rispetto del codice stradale, ai marciapiedi liberi da vetture in sosta, alla possibilità di attraversare la strada senza essere travolti, agli uomini che cedevano il passo alle donne al momento di salire sui mezzi pubblici, all'abitudine di far sedere le persone anziane e le signore incinte; il disorientamento era, invece, dovuto al prevalere della creanza, dalla quale discendevano i piccoli comportamenti virtuosi che stupivano l'aspirante meteco appena sfuggito all'eccessivo calore del Meridione. Prima di essere la capitale dell'economia, della stampa, dell'intraprendenza, della moda, benché i futuri stilisti venissero chiamati sarti, Milano era la capitale dell'educazione elargita e pretesa. A suo simbolo assurgeva l'anziana signora pronta a sbattere l'ombrellino da passeggio contro il cofano della macchina colpevole, sulle strisce pedonali in via Senato, di aver frenato troppo vicina. E il consenso dei passanti stava a sottolineare che quell'ombrellino veniva sostenuto da cento mani. Poi, a presidiare marciapiedi e incroci, s'incontravano i vigili urbani. Ormai sono spariti. Sennò si sarebbero accorti che allo sbocco di via Sidoli in piazza Novelli da due anni lo scivolo per gli handicappati è occupato dalle vetture; che la pista ciclabile di via Alberto da Giussano è spesso impraticabile per le macchine posteggiate a spina di pesce; che la pista ciclabile di via Olona è in realtà il parcheggio di moto e motorini dei bar adiacenti, tranne il martedì e il sabato quando diventa il deposito per l'immondizia del mercato. Negli anni che ci apparivano peggiori, allorché proteste, rabbia, odii, sangue segnavano la nostra quotidianità, la cortesia del vivere, il regalo di un sorriso, la spontaneità del saluto rappresentavano a Milano la regola, non l'eccezione. Nelle pieghe degli affari e sui divani dei salotti si esibivano farabutti, pescecani e maliarde in numero identico a quello attuale, ma almeno - Arbasino docet - non portavano i pantaloni con la vita bassa. E il dialetto, dolce e sincopato, delle mercerie e dei panifici, degli artigiani e dei tassisti fungeva da colonna sonora, costituiva il veicolo di trasmissione delle buone maniere: ai meteci era concesso di non saperlo pronunciare, non di sconoscerlo. Oggi Milano ha perso le botteghe, ha perso il dialetto, soprattutto ha perso l' educazione.
di Alfio Caruso, sul Corriere della Sera del 6 giugno 2010
Alle 15.43 di un pomeriggio feriale in piazza Susa, dove viale Campania e i suoi controviali intersecano l'inizio di viale Argonne, il motociclista brucia in venti metri tre sensi vietati e sprinta sulle strisce pedonali: con elegante torsione evita il basito pedone e si lancia accelerando verso viale Romagna. Il pedone, ancora stupefatto di essere tutto intero, volge lo sguardo verso il disinvolto centauro appena in tempo per vederlo festeggiare con il dito medio alzato in aria. Avesse voglia di una qualsiasi replica, se la deve far passare in fretta: lo strombazzare dei clacson annuncia la marea di auto, che ha ricevuto il via libera dal semaforo. Alla stregua di un paria fugge sul marciapiede. Nessuno lo degna della minima considerazione: d'altronde, non ha nemmeno un graffio. Che cosa pretende di più? Nel 1971 arrivando da Catania a Milano il disorientamento poteva durare settimane. Non era dovuto al semplice rispetto del codice stradale, ai marciapiedi liberi da vetture in sosta, alla possibilità di attraversare la strada senza essere travolti, agli uomini che cedevano il passo alle donne al momento di salire sui mezzi pubblici, all'abitudine di far sedere le persone anziane e le signore incinte; il disorientamento era, invece, dovuto al prevalere della creanza, dalla quale discendevano i piccoli comportamenti virtuosi che stupivano l'aspirante meteco appena sfuggito all'eccessivo calore del Meridione. Prima di essere la capitale dell'economia, della stampa, dell'intraprendenza, della moda, benché i futuri stilisti venissero chiamati sarti, Milano era la capitale dell'educazione elargita e pretesa. A suo simbolo assurgeva l'anziana signora pronta a sbattere l'ombrellino da passeggio contro il cofano della macchina colpevole, sulle strisce pedonali in via Senato, di aver frenato troppo vicina. E il consenso dei passanti stava a sottolineare che quell'ombrellino veniva sostenuto da cento mani. Poi, a presidiare marciapiedi e incroci, s'incontravano i vigili urbani. Ormai sono spariti. Sennò si sarebbero accorti che allo sbocco di via Sidoli in piazza Novelli da due anni lo scivolo per gli handicappati è occupato dalle vetture; che la pista ciclabile di via Alberto da Giussano è spesso impraticabile per le macchine posteggiate a spina di pesce; che la pista ciclabile di via Olona è in realtà il parcheggio di moto e motorini dei bar adiacenti, tranne il martedì e il sabato quando diventa il deposito per l'immondizia del mercato. Negli anni che ci apparivano peggiori, allorché proteste, rabbia, odii, sangue segnavano la nostra quotidianità, la cortesia del vivere, il regalo di un sorriso, la spontaneità del saluto rappresentavano a Milano la regola, non l'eccezione. Nelle pieghe degli affari e sui divani dei salotti si esibivano farabutti, pescecani e maliarde in numero identico a quello attuale, ma almeno - Arbasino docet - non portavano i pantaloni con la vita bassa. E il dialetto, dolce e sincopato, delle mercerie e dei panifici, degli artigiani e dei tassisti fungeva da colonna sonora, costituiva il veicolo di trasmissione delle buone maniere: ai meteci era concesso di non saperlo pronunciare, non di sconoscerlo. Oggi Milano ha perso le botteghe, ha perso il dialetto, soprattutto ha perso l' educazione.
di Alfio Caruso, sul Corriere della Sera del 6 giugno 2010
04 giugno 2010
Le radici dell'Europa
Ogni tanto bisogna prendersi una vacanza. Anche dal blog.
Torno dopo un mesetto dedicato in parte ad un piacevolissimo viaggio in Andalucía, e per il resto ad un adattamento all'estate che arriverà e che andrà vissuta con l'intensità che meritano i beni in via di esaurimento.
Come riprendere la frequentazione? Con le memorie di viaggio?
No. Forse più avanti.
Forse meglio riflettere sulla crisi di valori ed ideali del continente in cui viviamo, riportando le parole di un grande poeta del novecento europeo: Thomas Stearns Eliot.
"Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quello che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va anche la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto".
Torno dopo un mesetto dedicato in parte ad un piacevolissimo viaggio in Andalucía, e per il resto ad un adattamento all'estate che arriverà e che andrà vissuta con l'intensità che meritano i beni in via di esaurimento.
Come riprendere la frequentazione? Con le memorie di viaggio?
No. Forse più avanti.
Forse meglio riflettere sulla crisi di valori ed ideali del continente in cui viviamo, riportando le parole di un grande poeta del novecento europeo: Thomas Stearns Eliot.
"Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quello che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va anche la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto".
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