Si apprende che negli atti di chiusura istruttoria del tribunale di Napoli per la vicenda Calciopoli figurano, alla vigilia di uno Juventus-Milan del dicembre 2004, ben 42 telefonate fra il designato arbitro Bertini, Moggi ed il suo assistente, all'epoca direttore sportivo del Messina.
La partita finì 0 a 0 anche per tre o quattro errori arbitrali decisivi, ivi compresi due rigori solari negati al Milan nei minuti iniziali.
Non vorrei farla lunga sulla catena di strane coincidenze quali: materiale istruttorio non preso in considerazione da Borrelli, illecito direttamente influente sulla mancata assegnazione dello scudetto alla Juve ma negato al Milan, assoluzione piena a Bertini da parte del Tribunale degli arbitri e via discorrendo, sino allo scudetto di cartone del 2005 assegnato alla squadra dei petrolieri.
Ma il dubbio che mi perseguita è questo: se Bertini è innocente per la giustizia sportiva perché nulla commise d'illecito anche in quella vigilia di Juve-Milan; se Borrelli non ha nemmeno preso in considerazione l'argomento; se l'avvocato Rossi, informato, si limitò a dire «nerazzurri siamo noi»... in quel freddo mese di dicembre, per 42 volte Moggi e Bertini si scambiarono gli auguri di Natale?
18 aprile 2007
Bianco Natale 2004
06 aprile 2007
Guido Rossi, un garante garantito dalla sinistra
Una lunga affinità, da Togliatti (col “compagno” Mattioli) al Manifesto.
Roma. In fondo erano e sono rimasti dei gruppettari di lusso. Una famiglia politica endogamica, una setta finanziaria. Ieri potevano chiamarsi Giulio Einaudi o Giangiacomo Feltrinelli. Oppure essere loro amici, progenie di borghesi e industriali che espiavano la propria origine piegando la lotta di classe al settarismo cinese e cambogiano. Oggi hanno perso il nome principesco, ma sono gli stessi e fanno i guardiani del mercato perfetto. All’occorrenza
sono mozzorecchi e scrivono sul Manifesto per il quale, con l’uscita di Guido Rossi dal cda Telecom, scompare “l’uomo che fino ad ora è stato garante presso le banche e forse anche presso la magistratura” (dal Manifesto). A un grado diverso sono sempre loro a manifestarsi, sull’Unità, con lo stupore indignato di Livia Ravera che dice di Telecom: “Io proprio non capisco”. “Perché dare in mano un’ulteriore carta di potere a Silvio Berlusconi?”. Nostalgici di un’economia equa e solidale, perciò immaginaria, tremendamente urbanizzati fin dal secondo dopoguerra, i settari della sinistra finanziaria soffrono il capitalismo delle praterie, temono il denaro negli spazi aperti. Perché tutto, ai loro occhi, deve rimanere nella famiglia nata dall’osmosi tra il capitalismo di relazione e la falce e martello. Certi legami germogliavano già nei salotti più ristretti prima della caduta del fascismo, quando il padrone della Comit, Raffaele Mattioli, era impegnato a trasformare le grandi banche italiane nell’università della nuova classe dirigente. E’ in questo paesaggio che Mattioli e Palmiro Togliatti, grazie al comune amico Piero Sraffa, salvano i “Quaderni” di Antonio Gramsci. Attraverso gli stessi canali, dopo il 25 luglio del 1943, Togliatti intreccerà un duraturo rapporto di fiducia con l’establishment britannico che in lui vedeva un argine agli impeti antimonarchici della resistenza incontrollabile. E se un giorno Togliatti ha potuto scrivere di Mattioli: “Mi rincresce di non essere autorizzato a chiamarlo compagno”; se un giorno Giovanni
Amendola a Mattioli ha offerto una candidatura nel Fronte popolare, non bisogna stupirsi che l’osmosi sia durata nel tempo. All’ombra delle banche di stato e arricchita dall’egemonia dei figli d’arte come Rodolfo Banfi di Mediocredito. Che è l’istituto nel quale si è formato Guido Carli, governatore della Banca d’Italia fino alla metà degli anni Settanta, quando diventa presidente di Confindustria e avvia la collaborazione con l’Espresso sotto lo pseudonimo di Bankor. Grandi firme per grandi famiglie editoriali. Come erano gli Agnelli, nel loro azionismo repubblicano accudito da Enrico Cuccia. E come cercarono di essere i Romiti, sempre attenti alla salute del Manifesto. Come una “muraglia” (ancora Mattioli) issata sulla linea di frontiera tra il cattolicesimo dossettiano e il Partito comunista, questo capitalismo di garanzia ha svolto una funzione balsamica fino a Tangentopoli, ha addomesticato il conflitto sociale e ne ha ricavato una pace remunerativa. Dal 1992 in poi, con il Pci in crisi e i socialisti sbandati, i settari della sinistra in grisaglia sono usciti allo scoperto ritornando alle origini: da Giustizia e Libertà a Libertà e Giustizia, l’associazione moralista che si pregia d’avere Guido Rossi nel comitanto dei garanti. E il loro compito è, appunto, di garanzia
economica e giudiziaria. Se le cose non vanno per il verso giusto, se il sistema si contorce e i barbari avanzano, loro insorgono in qualità di commissari annunciati, coccolati o rimpianti dagli urlatori della solita consorteria sindacalizzata.
da Il Foglio di oggi
Roma. In fondo erano e sono rimasti dei gruppettari di lusso. Una famiglia politica endogamica, una setta finanziaria. Ieri potevano chiamarsi Giulio Einaudi o Giangiacomo Feltrinelli. Oppure essere loro amici, progenie di borghesi e industriali che espiavano la propria origine piegando la lotta di classe al settarismo cinese e cambogiano. Oggi hanno perso il nome principesco, ma sono gli stessi e fanno i guardiani del mercato perfetto. All’occorrenza
sono mozzorecchi e scrivono sul Manifesto per il quale, con l’uscita di Guido Rossi dal cda Telecom, scompare “l’uomo che fino ad ora è stato garante presso le banche e forse anche presso la magistratura” (dal Manifesto). A un grado diverso sono sempre loro a manifestarsi, sull’Unità, con lo stupore indignato di Livia Ravera che dice di Telecom: “Io proprio non capisco”. “Perché dare in mano un’ulteriore carta di potere a Silvio Berlusconi?”. Nostalgici di un’economia equa e solidale, perciò immaginaria, tremendamente urbanizzati fin dal secondo dopoguerra, i settari della sinistra finanziaria soffrono il capitalismo delle praterie, temono il denaro negli spazi aperti. Perché tutto, ai loro occhi, deve rimanere nella famiglia nata dall’osmosi tra il capitalismo di relazione e la falce e martello. Certi legami germogliavano già nei salotti più ristretti prima della caduta del fascismo, quando il padrone della Comit, Raffaele Mattioli, era impegnato a trasformare le grandi banche italiane nell’università della nuova classe dirigente. E’ in questo paesaggio che Mattioli e Palmiro Togliatti, grazie al comune amico Piero Sraffa, salvano i “Quaderni” di Antonio Gramsci. Attraverso gli stessi canali, dopo il 25 luglio del 1943, Togliatti intreccerà un duraturo rapporto di fiducia con l’establishment britannico che in lui vedeva un argine agli impeti antimonarchici della resistenza incontrollabile. E se un giorno Togliatti ha potuto scrivere di Mattioli: “Mi rincresce di non essere autorizzato a chiamarlo compagno”; se un giorno Giovanni
Amendola a Mattioli ha offerto una candidatura nel Fronte popolare, non bisogna stupirsi che l’osmosi sia durata nel tempo. All’ombra delle banche di stato e arricchita dall’egemonia dei figli d’arte come Rodolfo Banfi di Mediocredito. Che è l’istituto nel quale si è formato Guido Carli, governatore della Banca d’Italia fino alla metà degli anni Settanta, quando diventa presidente di Confindustria e avvia la collaborazione con l’Espresso sotto lo pseudonimo di Bankor. Grandi firme per grandi famiglie editoriali. Come erano gli Agnelli, nel loro azionismo repubblicano accudito da Enrico Cuccia. E come cercarono di essere i Romiti, sempre attenti alla salute del Manifesto. Come una “muraglia” (ancora Mattioli) issata sulla linea di frontiera tra il cattolicesimo dossettiano e il Partito comunista, questo capitalismo di garanzia ha svolto una funzione balsamica fino a Tangentopoli, ha addomesticato il conflitto sociale e ne ha ricavato una pace remunerativa. Dal 1992 in poi, con il Pci in crisi e i socialisti sbandati, i settari della sinistra in grisaglia sono usciti allo scoperto ritornando alle origini: da Giustizia e Libertà a Libertà e Giustizia, l’associazione moralista che si pregia d’avere Guido Rossi nel comitanto dei garanti. E il loro compito è, appunto, di garanzia
economica e giudiziaria. Se le cose non vanno per il verso giusto, se il sistema si contorce e i barbari avanzano, loro insorgono in qualità di commissari annunciati, coccolati o rimpianti dagli urlatori della solita consorteria sindacalizzata.
da Il Foglio di oggi
04 aprile 2007
I nuovi barbari
I motivi esistenziali che m'inducono ad utilizzare una selezione significativa di articoli apparsi recentemente sui quotidiani per alimentare il blog, non impediscono di trarre una piccola morale da quanto leggiamo.
Lo squallore delle giovani generazioni inebriate dall'effimero dei videocellulari e stimolate a rappresentarsi con le peggiori pulsioni di psichi malate ed intorpidite dall'uso di droghe e allucinogeni, ben si compendia con i pruriti senili di un furbacchione del video come Santoro.
Gli episodi di teppismo lessicale e cerebrale non stupiscono più. Gli stupri adolescenziali, filmati e ritrasmessi nel circuito dei mentecatti, hanno già toccato il fondo dell'aberrazione.
Furbi recensori dilatano lo scandalo giornalmente per autoalimentare il circuito dell'emulazione.
Ma il quesito di fondo è quali radici abbia quest'umanità debosciata già agli albori della vita.
Galli della Loggia dà uno spunto, appena sussurrato, per non turbare le coscienze dei bravi borghesi che leggono il Corriere radical-rosso.
È invece forse meglio gridare che questa generazione è figlia, per rami discendenti, di una scuola che negli ultimi decenni ha, con la ferocia ideologica sessantottina, corrotto gli italiani.
Sono caduti i valori antichi, forse ammuffiti, forse corrosi dalla storia, sostituiti da un egualitarismo straccione (il sei politico di capannina memoria), da un multiculturalismo snaturante le radici delle nostre genti, sino alla pianificazione dell'irreligiosità diffusa.
L'obiettivo di questo raffinato progetto era conquistare il fortino dell'educazione scolastica, mettendo in conto anche di generare piccoli mostri perversi e amorali purché ideologicamente asserviti.
Finirà questo livello di degrado?
Non illudiamoci. Il peggio genera peggio. Le prossime future generazioni non potranno che avere come modelli le bande assassine delle favelas o portoricane o, per stare in casa, le gerarchie criminali della camorra.
Perché questa loro vita da disperati esasperati è costosa.
Costano le droghe, costa l'armamentario tecnologico, costano le moto truccate, costa il branco. Non so cosa potrà fermare questo fiume di detriti. Forse una ritrovata religiosità rigorosa o forse, e lo temo, un nuovo ordine imposto non certo dai generali ma dai barbari venuti dal sud del mondo.
Lo squallore delle giovani generazioni inebriate dall'effimero dei videocellulari e stimolate a rappresentarsi con le peggiori pulsioni di psichi malate ed intorpidite dall'uso di droghe e allucinogeni, ben si compendia con i pruriti senili di un furbacchione del video come Santoro.
Gli episodi di teppismo lessicale e cerebrale non stupiscono più. Gli stupri adolescenziali, filmati e ritrasmessi nel circuito dei mentecatti, hanno già toccato il fondo dell'aberrazione.
Furbi recensori dilatano lo scandalo giornalmente per autoalimentare il circuito dell'emulazione.
Ma il quesito di fondo è quali radici abbia quest'umanità debosciata già agli albori della vita.
Galli della Loggia dà uno spunto, appena sussurrato, per non turbare le coscienze dei bravi borghesi che leggono il Corriere radical-rosso.
È invece forse meglio gridare che questa generazione è figlia, per rami discendenti, di una scuola che negli ultimi decenni ha, con la ferocia ideologica sessantottina, corrotto gli italiani.
Sono caduti i valori antichi, forse ammuffiti, forse corrosi dalla storia, sostituiti da un egualitarismo straccione (il sei politico di capannina memoria), da un multiculturalismo snaturante le radici delle nostre genti, sino alla pianificazione dell'irreligiosità diffusa.
L'obiettivo di questo raffinato progetto era conquistare il fortino dell'educazione scolastica, mettendo in conto anche di generare piccoli mostri perversi e amorali purché ideologicamente asserviti.
Finirà questo livello di degrado?
Non illudiamoci. Il peggio genera peggio. Le prossime future generazioni non potranno che avere come modelli le bande assassine delle favelas o portoricane o, per stare in casa, le gerarchie criminali della camorra.
Perché questa loro vita da disperati esasperati è costosa.
Costano le droghe, costa l'armamentario tecnologico, costano le moto truccate, costa il branco. Non so cosa potrà fermare questo fiume di detriti. Forse una ritrovata religiosità rigorosa o forse, e lo temo, un nuovo ordine imposto non certo dai generali ma dai barbari venuti dal sud del mondo.
02 aprile 2007
Un paese che sta morendo
Addio ai padri
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno:Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo? Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via... Alunno: Ma lei quanto guadagna? Professoressa (come sopra): Non molto di certo... Alunno: Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana? Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute?
E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa? A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo ». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro. Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni.
Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?).
Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità—distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola—che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile.
Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
di Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno:Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo? Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via... Alunno: Ma lei quanto guadagna? Professoressa (come sopra): Non molto di certo... Alunno: Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana? Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute?
E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa? A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo ». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro. Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni.
Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?).
Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità—distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola—che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile.
Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
di Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera
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