31 ottobre 2008

Grand'Italia e dintorni (10)

“Madri e figlie unite nella lotta” dice Tito Boeri sulla Repubblica (31 ottorbe).
Madri e figlie? Dei rettori? Unite nella lotta? Per una cattedra?

“Racconterò questa Italia oscurata da un regime autoritario” dice Sabina Guzzanti alla Stampa (31 ottobre).

Splendide denunce magnificamente valorizzate dalla stampa nazionale e dalla tv pubblica, esattamente come succedeva ai dissidenti in Unione sovietica o agli antifascisti sotto Mussolini.

“Noi non possiamo stare dalla parte della conservazione” dice Giuseppe Fioroni al Corriere della Sera (31 ottobre).

E’ dura la vita del “democratico”, non solo gli tocca di difendere tutte le battaglie conservatrici, ma non può neanche condividerle.

Lodovico Festa, su L'Occidentale

Inglese fantasma

A prosposito di "bontà della scuola italiana" (quella che i giovani comunisti in piazza in questi giorni non ritengono di dover riformare). Ieri sera il TG5 ha mandato in onda un servizio relativo all'ultima truffa sulle assicurazioni in Campania (ultima in ordine di tempo, mica ultima nel senso di definitiva). I carabinieri di Santa Maria Capua Vetere hanno denominato l'operazione crash ghost; la giornalista di turno ha spiegato che quel nome significa "incidente fantasma". Peccato che incidente fantasma si direbbe ghost crash. Ma c'è davvero bisogno di usare l'Inglese per dare un nome a quasi tutte le operazioni di polizia? Se proprio volete farlo, prima di tutto studiatevi la lingua di Shakespeare.

dal blog Ali e Radici


Al blog gemellato di Nautilus voglio fare notare che il vizio non è solo delle questure. L'inglese alla pizzaiola è una invasione che ci perseguita, come l'italiano sintetico: "assolutamente sì" vale "la misura in cui" dei sessantottini, ora rettori e docenti dei nostri disgraziati nipoti.
I fantocci televisivi, di loro, ci mettono una pronuncia da sagra paesana di chi la scuola l'ha frequentata di striscio e da turista ha fatto ridere tutta l'Europa.
Altro esempio emblematico. In Francese la "u" si pronuncia alla padana (come "posteriore" in lombardo). Gli spocchiosi cugini hanno avuto in dono dalla Storia decenni da occupanti per ficcarla in zucca, e non solo ai ricchi borghesi.
In Rai, Mediaset, etc. la "u" francese diventa "iu". Per intenderci, come se noi lombardi dicessimo "mi fa male il chiù" nel senso di centro di produzione del pensiero e non di discarica.
Tanto tutto è global per i peninsulari!

30 ottobre 2008

Facce da ONU

Simpathy for Devil

In diplomazia si devono stringere le mani. Le mani di tutti, anche dei più orrendi personaggi. Ma è fondamentale saperlo fare. Puoi anche dovere stringere la mano di Pol Pot, o di Pinochet, ma non puoi dare a lui e al mondo l’idea di trovarlo simpatico, di essergli amico, di divertirti. Romano Prodi, invece, ha stretto la mano a Mohammed Ahmadinejad, che di lì a poco gli ripeterà –sia pure con parole contorte- che vuole la fine di Israele, come ad un vecchio, caro amico.
Un sorriso sornione e cordiale sul faccione, i gesti disinvolti e amicali di chi ritrova un vecchio sodale, uno di cui hai fiducia, che rispetti. Questo è intollerabile. Prodi non è un cittadino qualsiasi e non solo perché è un ex presidente del Consiglio italiano e quindi ancora rappresenta in qualche modo nel mondo la nostra comunità nazionale. Prodi oggi ricopre un alto incarico dell’Onu. Quella stretta di mano all’antisemita Ahmadinejad, è dunque, semplicemente oscena e fa pensare, proietta una brutta ombra sul passato recente del governo presieduto da Prodi. Più volte, all’assemblea dell’Onu a New York nel 2007, e poi in molti strani incontri bilaterali con esponenti di primo piano dell’Iran, il governo Prodi ha condotto una strana “diplomazia parallela”, che ha inquietato non poco i paesi membri del “5più 1”. Incontri che hanno fatto sospettare molti che il governo dell’Unione facesse di tutto per mostrare a Teheran che era pronto a fornirgli una sponda per evitare di essere messo nell’angolo dalle sanzioni del Consiglio di Sicurezza per il suo programma nucleare e militare. Oggi, quella foto, quel volto pacioccone e sornione di Prodi, quel sorriso amico e troppo aperto di Ahamadinejad sono più che una conferma di quei sospetti.


Carlo Panella, su L'Occidentale del 30 ottobre 2008

29 ottobre 2008

Sono le carte di credito la prossima bolla che travolgerà gli Usa

La scorsa settimana Innovest Avisors ha pubblicato un rapporto circa il possibile impatto delle carte di credito sulla finanza e sull’economia Americana.
A partire dagli anni ’90, la domanda USA è stata alimentata da un utilizzo massiccio delle carte di credito. Visa, American Express e JP Morgan hanno costruito un grandissimo business e hanno alimentato la spese di tutte le famiglie americane. Il ricorso al debito negli Stati Uniti è molto più diffuso che nel Vecchio Continente. Così pure i meccanismi delle carte di credito sono più complessi e sofisticati.
Le carte che vengono saldate ogni mese per le spese sostenute nel mese precedente sono poco diffuse. Infatti sono di gran lunga più popolari le carte cosiddette revolving. Quest’ultime in buona sostanza corrispondono all’erogazione di una linea di credito che prevede un meccanismo di rientro molto diluito nel tempo. In cambio le società che emettono le carte, fissano tassi di interesse altissimi che sfiorano il 19%.
Le stesse società emittenti inoltre, non effettuano una meticolosa selezione della clientela. Anzi concedono le carte revolving pure a soggetti non in grado di offrire adeguate garanzie o che hanno un rating pessimo. Avviene persino che alcuni famiglie rifinanzino una carta di credito ricorrendo all’emissione di una nuova e ulteriore carta per coprire il debito contratto in precedenza. Oppure operino una rivalutazione dell’immobile su cui grava un mutuo ed effettuino una compensazione con parte dell’ammontare dovuto per le carte revolving.
In analogia a quanto è avvenuto per i mutui subprime, le società emittenti lucrano sulla propria esposizione verso i clienti: il tasso di interesse applicato è tanto più alto quanto lo è il rischio.
Paradossalmente alle emittenti conviene che i soggetti non estinguano il proprio debito. E’ più redditizio un cliente che dilaziona nel tempo il proprio debito o richiede nuove linee di credito perché gli si potrà applicare un tasso di interesse sempre maggiore. Di conseguenza le stesse emittenti hanno creato un circuito in cui milioni di famiglie sono dipendenti in modo crescente dal debito da cui non possono prescindere per soddisfare le proprie necessità.
Robert Magging docente e ricercatore presso “Il Centro per gli Utenti di Servizi Finanziari” del Rochester Institute of Technology, si è interessato trai primi al fenomeno. Afferma che nel 1990 il debito delle famiglie americane era di 4 mila miliardi di dollari. Oggi raggiunge la soglia dei 13 mila miliardi. In particolare Magging sottolinea che il debito delle famigli per carte di credito revolving oggi ammonta a 950 miliardi di dollari a fronte dei 239 miliardi dei primi anni ’90.
Magging osserva che tali stime sono approssimative. Poichè i dati non includono i debiti rifinanziati mediante la rivalutazione degli immobili che potrebbero aggirarsi intorno ai 350 miliardi di dollari.
Milioni di famiglie dipendono quindi dalla rivalutazione dell’immobile per sostenere le proprie spese domestiche.
Pertanto la crisi dei subprime morgage che ha fatto crollare il valore degli immobili, impedisce a molte famiglie di accedere a quella liquidità con cui prima del credit crunch rifinanziavano i debiti delle carte di credito. Milioni di americani rischiano di divenire insolventi. E di non sostenere più la domanda dei consumi, determinando un netto rallentamento dell’economia e conseguenti perdite di posti di lavoro.
Ma non basta. Le società emittenti hanno ricavato liquidità per alimentare i crediti revolving cartolarizzando enormi masse di debito dei propri clienti. Hanno immesso sul mercato dei capitali titoli cartolari per 365 miliardi di dollari di cui hedge fund e fondi pensione sono stati imbottiti.
Se le stime sono corrette, si sta per abbattere sui mercati una nuova bolla. Con la differenza che i subprime hanno come collateral beni solidi e tangibili come le case su cui ci si può rivalere. Mentre le cartolarizzazioni derivanti dal meccanismo delle carte di credito non forniscono nulla di solido su cui rivalersi.
Purtroppo, il Piano Paulson non contempla alcun intervento a sostegno delle carte dei credito e delle relative cartolarizzazioni. I 700 miliardi devono essere già impiegati per fare ripartire il mercato dei commercial papers derivanti dai subpirme morgage.
Eppure il default delle carte di credito non può essere sottovaluto. Il fenomeno impatta ulteriormente sulla finanza globale. E rischia di mettere in ginocchio l’economia americana. Con il coinvolgimento delle altre economie collegate agli USA, inclusa quella Italiana

Zambon, su L'Occidentale del 29 ottobre 2008

28 ottobre 2008

Prepariamoci ad un quadriennio di monocolore democratico (negli Usa per fortuna!)

Obama torna messianico, i democratici si preparano a fare il pieno con i candidati pro aborto

New York. A una settimana esatta dalle elezioni presidenziali, il candidato democratico Barack Obama è sempre più in testa ai sondaggi elettorali nazionali e statali e ieri ha cominciato a portare in giro per l’America “l’argomento finale” della sua campagna elettorale, tornando ai toni lirici degli inizi della sua avventura: “Il cambiamento di cui abbiamo bisogno – ha detto Obama in Ohio – non riguarda soltanto nuovi programmi e nuove proposte, ma una nuova politica, una politica che si appella ai nostri migliori angeli, invece che incoraggiare i nostri peggiori istinti, che ci ricordi degli obblighi che abbiamo con noi stessi e uno con l’altro”. Il 4 novembre, però, non si vota soltanto per la presidenza degli Stati Uniti, ma come ogni due anni anche per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. La situazione per il Partito democratico non può essere migliore, al punto che per i democratici e il loro candidato presidenziale si prevede il miglior risultato degli ultimi quarantaquattro anni: non solo il controllo della presidenza e dei due rami del Congresso, come già durante i primi due anni di Bill Clinton, ma anche un mandato ampio per il presidente come nel 1964 e una maggioranza a prova di ostruzionismo al Congresso.I democratici controllano già di misura al Senato e abbastanza agevolmente alla Camera. Con il voto di martedì prossimo potrebbero strappare ai repubblicani altri cinque/nove seggi al Senato e venti/trenta alla Camera, sfruttando l’ondata pro Obama, ma anche l’oculata scelta di presentare in zone repubblicane candidati più conservatori che liberal. La strategia aveva funzionato già due anni fa, alle elezioni di metà mandato, quando sono stati eletti 47 deputati “blue dogs”, moderati e conservatori. In totale sono il 20 per cento del gruppo parlamentare democratico, ma in questi due anni non sono riusciti a emergere e a influenzare la leadership democratica. Ora ce n’è in arrivo almeno un’altra dozzina, hanno scritto il New York Times e Time. Candidati in zone conservatrici, questi probabili nuovi deputati democratici quasi non menzionano Obama nei loro comizi e fanno apertamente campagna elettorale contro l’aborto. Mai nella storia recente del Partito democratico s’era visto una legione di candidati anti aborto come quest’anno, malgrado la piattaforma del partito sia più pro choice del solito. Secondo Pete Wehner, ex capo del centro studi interno alla Casa Bianca di Bush, le probabili vittorie democratiche del 4 novembre non segnalano un cambiamento ideologico nel paese, ma in un certo senso provano che gli Stati Uniti siano un paese conservatore. L’approccio di Obama è moderato, l’oratoria a tratti conservatrice e ieri un gruppo di cristiani per Obama ha diffuso spot radiofonici in cui si sente Obama parlare della sua fede, della sua sottomissione a Cristo, del suo inginocchiarsi davanti alla croce.Le ultime risorse dei repubblicaniIl probabile successo dei democratici al Congresso sarà decisivo perché una solida maggioranza al Senato consentirà a Obama, in caso di elezione alla Casa Bianca, di poter far approvare la sua agenda politica senza grandi compromessi. Se i democratici raggiungeranno quota sessanta seggi al Senato (oggi ne hanno 51 con l’indipendente Joe Lieberman) toglieranno infatti ai repubblicani l’unica arma a loro disposizione per ostacolare le politiche democratiche – ovvero il filibustering, l’ostruzionismo fondamentale per influire sulla nomina di giudici federali e costituzionali. I repubblicani danno già per persa la partita in alcuni stati, mentre rischiano di perdere il posto il leader del Senato Mitch McConnell del Kentucky ed Elizabeth Dole della Nord Carolina, oltre a Norm Coleman del Colorado a vantaggio del comico Al Franken. La situazione è così drammatica che David Frum, ex speechwriter di George W. Bush e columnist del Foglio, in un articolo sul Washington Post ha suggerito ai repubblicani di utilizzare le ultime risorse finanziarie nelle elezioni senatoriali, piuttosto che nella campagna presidenziale di McCain. I repubblicani, ha scritto Frum, dovrebbero accettare l’ormai certa sconfitta di McCain e spiegare agli americani che non si possono permettere anche una maggioranza democratica e a prova di ostruzionismo al Congresso. McCain prova a fare il ragionamento opposto: ci sarà certamente un Congresso democratico, guidato da Nancy Pelosi e Harry Reid, quindi non ci possiamo permettere di consegnare a Obama anche la Casa Bianca. “E’ un ‘dangerous threesome’, un triangolo pericoloso – ha detto McCain – Se questi tre guideranno Washington saremo nei guai, amici miei. Ci sarà da mettere mano al portafoglio”.

Camillo, su Il Foglio del 28 ottobre 2008

23 ottobre 2008

Circo Barnum Football Club

Avevo preso impegno di non parlare più di Milan. Dimessomi da abbonato, tifoso distratto, passionaccia sepellita sotto i ricordi.
In attesa dell'inevitabile ripulisti dirigenziale.
Indifferente a qualche discreto risultato in campionato, ma anche offeso da sconfitte amichevoli negli Emirati Musulmani d'Europa.
Ora Beckham.
A tutto c'è una misura.
Inoltre il circo non mi ha mai attratto, anche da bambino quando l'unico divertimento era guardare di sottecchi mio padre scompisciarsi dalle risate.
Pelato di Monza, se lui fosse ancora vivo, avresti conquistato quel tifoso in più che è la tua mission.
Ma i conti dei veri milanisti persi chi li tiene?

06 ottobre 2008

Unicredit matura per l'associazione Amici

Ora è più forte l'asse Geronzi-Tremonti (Berlusconi)-Ligresti
Giù Alessandro Profumo, sale Cesare Geronzi. Il banchiere più indipendente e mitteleuropeo a cui tocca il destino cinico e baro di essere salvato proprio da quella Mediobanca da cui voleva prendere le distanze, ritenendola il crocevia degli intrecci incestuosi del salotto buono.
Sempre più forte l'asse Geronzi-Tremonti (Berlusconi)-Ligresti, che aggiunge un altro trofeo di caccia dopo quello di Corrado Passera conquistato con la vicenda Alitalia. Sempre più debole l'asse Bazoli-Profumo-Prodi-Pd con annessi manager e direttori di giornali. Lo ha capito anche Ferruccio de Bortoli che ieri ha passato il pomeriggio alla festa di An e Forza Italia a Milano, moderando il solito dibattito sonnacchioso ma soprattutto tubando con Ignazio La Russa, gran cerimoniere e anfitrione, da cui si aspetta un appoggio per il ritorno al Corriere della Sera. Ma il salto della quaglia è difficile. E Paolo Mieli dentro l'asse Geronzi-Ligresti c'è da 4 anni. Ce lo hanno messo loro, lì.

da Affari italiani.it



Tutto interessante ma periferico.
Il nocciolo è cosa ne pensano Modica e Botti , sentito Zaffra.
Sembra che ieri al Lido con De Bortoli sia stato notato Tettamanzi.
Diabolici gli Amici.

03 ottobre 2008

I grandi la fanno fuori del vaso e la reproba BPM deve aggiustare i cocci

Unicredit ieri ha vissuto un altra seduta all'insegna della volatilità, complice l'intonazione positiva dei mercati dopo l'ok del Senato americano al piano di salvataggio dei mercati finanziari prima e la loro flessione conseguente ai deludenti macroecconomici americani.
Nonostante l'agenzia Fitch abbia abbassato le prospettive sul rating di lungo termine della banca (rimasto invariato ad A+) da positivo a negativo definendo «molto stretta» la capitalizzazione della società, il sentiment borsistico sul titolo della banca guidata da Alessandro Profumo sembra essere mutato rispetto ai giorni scorsi. Dal pessimismo cupo si è passati a un ottimismo molto cauto. Il primo che ha cercato di rasserenare gli animi è stato il Governatore di Bankitalia Mario Draghi che ha rassicurato sulla solidità delle banche italiane, rassicurazione che verosimilmente non avrebbe potuto dare se Unicredit fosse stata in serie difficoltà.
A gettare acqua sul fuoco della speculazione ha provveduto la Consob che l'altroieri, invero un po' tardivamente, ha ulteriormente stretto la possibilità di vendere allo scoperto sui titoli finanziari, disinnescando di fatto la speculazione su Unicredit. Una volta sedata la follia dello short selling sul titolo, il mercato ha potuto tornare a concentrarsi nuovamente sui fondamentali ella società. E i numeri, secondo la maggior parte degli analisti, dicono che le quotazioni di Unicredit incorporano uno scenario da «Armageddon». In pratica le attuali quotazioni del titolo sarebbero giustificate se lo scenario economico mondiale fosse molto più compromesso di quello attuale. Dopo l'intervista di Profumo al Tg1, in cui l'a.d. ha confermato che la propria banca è sana e ha ribadito la smentita delle indiscrezioni sulla sua possibili dimissioni, ieri Unicredit ha segnato un segnale di fiducia molto importante al mercato annunciando il lancio di un'emissione obbligazionaria a due anni e tre mesi, composta da una tranche a tasso fisso e da una a tasso variabile, destinata al pubblico indistinto.
Rivolgersi al mercato retail in questo momento per chiedere liquidità non è da tutti. Segno che gli uomini di Profumo sono convinti di riuscire a vendere i titoli. E le prime indiscrezioni sull'andamento del collocamento, che avrebbe registrato prenotazioni per circa il 30% del totale dell'emissione nelle prime ore dal lancio sembrerebbero dare loro ragione. Insieme alla speculazioni sono scemate le indiscrezioni su possibili offerte da parte di banche estere e italiane per rilevare Unicredit. La più suggestiva di quelle circolate nei giorni scorsi voleva un interessamento congiunto di Santander e Intesa Sanpaolo per la banca guidata da Alessandro Profumo. Al di là delle possibili suggestioni, appare abbastanza difficile allo stato che Unicredit possa divenire una preda. In primo luogo perché forte dei suoi 37 miliardi circa di capitalizzazione è un boccone troppo grosso, anche per banche ben capitalizzate, in questa fase di mercato. Al di là delle rassicurazioni del presidemte del Consiglio, inoltre, appare abbastanza improbabile che Bankitalia possa dare il via libera a un take over ostile di Unicredit, che incontrerebbe anche la contrarietà della Bundesbank tedesca, visto che la Germania è il secondo mercato domestico di Unicredit dopo l'acquisizione di Hvb. Quindi qualora mai dovesse essere necessario un salvataggio di Unicredit, e oggi certo non ve ne sono i presupposti, questo arriverebbe dall'Italia o dalla Germania. Più di un osservatore fa notare che se Draghi volesse potrebbe mettere in sicurezza Unicredit favorendo o rilanciando il progetto di integrazione con la Popolare di Milano.
L'eventualità di un merger fra le due realtà era stato studiato prima che Unicredit decidesse la fusione con Capitalia e la Bpm tentasse l'integrazione, poi fallita, con la Popolare Emilia Romagna. Da allora il dossier non è stato più ripreso in mano né risulta che nessuna delle due banche lo stia studiando. Nonostante da allora sia variato il perimetro di Unicredit l'operazione sarebbe ancora razionale da un punto di vista industriale. Le sovrapposizioni territoriali sarebbero minime e l'Opa lanciata recentemente da Bpm su Anima consentirebbe alla banca guidata da Roberto Mazzotta di portare in dote una massa critica interessante nell'asset management che andrebbe a risolvere i problemi dimensionali di Pioneer. Inoltre Bpm è molto liquida e quindi il matrimonio archivierebbe anche ogni timore residuo sui coefficienti patrimoniali di Unicredit.
Il matrimonio con Unicredit risolverebbe poi, una volta per sempre, i problemi di governance della popolare milanese caratterizzata da uno strapotere dei dipendenti soci che Draghi ha dimostrato di non gradire affatto.

da Il Tempo, del 3 ottobre 2008