Tornando da un viaggio, specie in terre prima sconosciute, viene da chiedermi, in una galleria di paesaggi, monumenti, volti, ambienti, quali sia il flash che resterà impresso nella memoria, che sarà la sintesi di quell'esperienza, la chiave per riaprire le emozioni vissute.
Mi capitò in terra di Israele, dove dopo giorni passati a ricercare la spiritualità che là avrei voluto trovare e che mi si nascondeva ancora, in un tardo pomeriggio, in un Santo sepolcro finalmente vuoto di torme di fedeli, incontrai l'emozione assoluta, solo, inginocchiato sulla pietra sepolcrale. Lì era il senso del pellegrinaggio e la chiave di lettura della visita in Terra Santa. Quanto meno per me, in quei giorni della mia vita.
Oggi, di ritorno dallo Sri Lanka, mi pongo la stessa domanda.
In una decina di giorni ho visto paesaggi inusuali, una vegetazione lussureggiante, tutte le tonalità del verde, animali selvaggi, rettili, una moltitudine di cani a guardia della minaccia dei serpenti.
Poi le statue del Buddha nella roccia, disegnato nelle grotte, riprodotto in povere edicole infiorate lungo le strade.
Le piantagioni montane del the e la silenziosa fatica delle contadine che colgono le foglioline più giovani per la bevanda.
Le poche grandi città, eguali alle nostre nel degrado urbano, nei quartieri di lamiera delle periferie, nella sorda ottusità delle folle che le attraversano, nell'insistenza disperata delle torme di mendicanti che vedono nei turisti il mezzo per sopravvivere un'altra giornata.
Il lusso spropositato dei grand hotel, isole aliene in un panorama di miseria tangibile e disperante nella sua normalità.
La fede nei templi, dinnanzi agli alberi sacri, serena e silenziosa con i poveri ornamenti dei lumini e dei fiori di loto.
Eppure il ricordo dell'isola meravigliosa è il saluto della gente. Radioso, i profondi occhi neri sgranati, il sorriso aperto, l'ingenua disponibilità verso i diversi. Sorrisi e saluti ovunque. Dai bambini delle scuole, dai contadini al lavoro nei campi, dalle ragazze al passeggio, da un mondo che sa vivere una difficile e povera esistenza con la serena consapevolezza che la loro missione è stare in pace con la natura e con il prossimo, anche con il diverso quale noi siamo per loro.
Questo è l'inprinting dello Sri Lanka nella mia mente.
28 febbraio 2010
Berlusconi e Fini
La fedeltà è una dote canina. Può essere chiesta ai quadrupedi o, in politica, a chi non abbia altro da offrire. La lealtà, invece, è roba importante, ma complicata: si dovrebbe essere leali nei confronti dei propri compagni di lotta o di partito, così come si dovrebbe esserlo verso gli elettori. La coerenza, insomma, è una dote morale. Gli incoerenti e gli sleali possono ben vincere qualche partita, o galleggiare per una vita, ma non possono costruire nulla di buono, perché è guasto il materiale che li compone. Infine: è vero che Machiavelli sostenne il fine giustificare i mezzi, ma la cosa è largamente banalizzata e fraintesa, perché necessita di un fine nobile, non certo bastando il proprio tornaconto. Scusatemi se l’ho presa tanto alla lontana, ma parlare di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini ha un senso se si pensa all’insieme dei nostri problemi, altrimenti è noiosamente ripetitivo.
Trovo giusto che Fini faccia osservare quanto sia inconcludente un centro destra con la bava alla bocca. Ma lui e gli altri, che un tempo si definivano camerati, sarebbero rimasti a bocca abbondantemente asciutta se Berlusconi non avesse adottato quel modulo comunicativo. Trovo opportuno che Fini abbia sottolineato quanto il federalismo fiscale rischia d’essere un costo, e che andare a rimorchio della Lega significa parlare solo ad una parte d’Italia. Ma quella riforma si trova nel programma elettorale da lui condiviso, e la vittoria che lo ha portato ad essere la terza carica dello Stato si deve all’alleanza con la Lega. Ricordi, inoltre, a proposito di sconquassi nelle casse pubbliche, che fu lui a fermare il già flebile piglio riformatore, nel secondo governo Berlusconi, impedendo interventi significativi a danno del pubblico impiego e della spesa improduttiva, dove, forse, vedeva sacche di proprio elettorato. E’ sensato che Fini chieda di affrontare razionalmente il tema dell’immigrazione, e su questo, da noi, sfonda una porta aperta, ma farà bene a non dimenticare due cose: la Lega che si rivolge ai reali dolori delle periferie eredita parole d’ordine che dovrebbero ricordargli qualche cosa, e la legge che regola l’immigrazione si chiama Bossi-Fini.
Potrei continuare, ma mi fermo, per non essere frainteso. Cambiare idea può essere cosa buona e giusta, e, nel caso di Fini, ha effettivamente cambiato idee che erano profondamente e inaccettabilmente sbagliate (ricordate il Mussolini più grande statista del secolo? Poi divenuto l’autore delle leggi razziali: il male assoluto). Solo che si deve aver cura di avvertire che si sta cambiando, specificando perché prima si sbagliava, un po’ come quando si gira, con la macchina, e si deve mettere la freccia, e, inoltre, di non farlo sempre all’indomani dell’avere incassato qualche cosa. Non sta bene.
Ma le questioni aperte fra Berlusconi e Fini non sono di carattere personale, modello Bibì & Bibò, o, per quel che lo sono, non m’interessano affatto. Sono questioni politiche, riassumibili così: a. si trovano nello stesso partito, che, però, non è un partito, non ci sono congressi, direzioni o segreterie in cui una linea perde e l’altra vince, sicché convivono senza fondersi; b. chi porta la gran pare dei voti è Berlusconi, capacissimo di costruire vittorie elettorali, ma meno di costruire il consenso attorno a linee politiche. A sinistra succede la stessa cosa, ma con leaders meno forti, al punto che ieri si sono dovuti umiliare ad aderire alla seconda edizione di una manifestazione che avevano inizialmente snobbato.
Berlusconi, per chi gli vuol bene e per chi gli vuol male, domina la scena da quindici anni. Ma non domina la politica. E’ un motore che romba e intimorisce, ma fatica a ingranare la marcia. Il resto del mondo politico vive nella sua ombra, che gli sia alleato o avversario. Non so quanto ancora durerà, so che chi non ha il coraggio di affrontarlo direttamente, sfidandolo sul terreno del consenso, non gli succederà. Né che gli sia alleato, né che gli sia avversario. Lo ignorano quelli che non pensano, ma lo sanno quelli che occupano le prime file. Per questo il tira e molla dura decenni, con il ringhiare minaccioso che segue e precede lo scodinzolare festoso.
da www.davidegiacalone.it
Trovo giusto che Fini faccia osservare quanto sia inconcludente un centro destra con la bava alla bocca. Ma lui e gli altri, che un tempo si definivano camerati, sarebbero rimasti a bocca abbondantemente asciutta se Berlusconi non avesse adottato quel modulo comunicativo. Trovo opportuno che Fini abbia sottolineato quanto il federalismo fiscale rischia d’essere un costo, e che andare a rimorchio della Lega significa parlare solo ad una parte d’Italia. Ma quella riforma si trova nel programma elettorale da lui condiviso, e la vittoria che lo ha portato ad essere la terza carica dello Stato si deve all’alleanza con la Lega. Ricordi, inoltre, a proposito di sconquassi nelle casse pubbliche, che fu lui a fermare il già flebile piglio riformatore, nel secondo governo Berlusconi, impedendo interventi significativi a danno del pubblico impiego e della spesa improduttiva, dove, forse, vedeva sacche di proprio elettorato. E’ sensato che Fini chieda di affrontare razionalmente il tema dell’immigrazione, e su questo, da noi, sfonda una porta aperta, ma farà bene a non dimenticare due cose: la Lega che si rivolge ai reali dolori delle periferie eredita parole d’ordine che dovrebbero ricordargli qualche cosa, e la legge che regola l’immigrazione si chiama Bossi-Fini.
Potrei continuare, ma mi fermo, per non essere frainteso. Cambiare idea può essere cosa buona e giusta, e, nel caso di Fini, ha effettivamente cambiato idee che erano profondamente e inaccettabilmente sbagliate (ricordate il Mussolini più grande statista del secolo? Poi divenuto l’autore delle leggi razziali: il male assoluto). Solo che si deve aver cura di avvertire che si sta cambiando, specificando perché prima si sbagliava, un po’ come quando si gira, con la macchina, e si deve mettere la freccia, e, inoltre, di non farlo sempre all’indomani dell’avere incassato qualche cosa. Non sta bene.
Ma le questioni aperte fra Berlusconi e Fini non sono di carattere personale, modello Bibì & Bibò, o, per quel che lo sono, non m’interessano affatto. Sono questioni politiche, riassumibili così: a. si trovano nello stesso partito, che, però, non è un partito, non ci sono congressi, direzioni o segreterie in cui una linea perde e l’altra vince, sicché convivono senza fondersi; b. chi porta la gran pare dei voti è Berlusconi, capacissimo di costruire vittorie elettorali, ma meno di costruire il consenso attorno a linee politiche. A sinistra succede la stessa cosa, ma con leaders meno forti, al punto che ieri si sono dovuti umiliare ad aderire alla seconda edizione di una manifestazione che avevano inizialmente snobbato.
Berlusconi, per chi gli vuol bene e per chi gli vuol male, domina la scena da quindici anni. Ma non domina la politica. E’ un motore che romba e intimorisce, ma fatica a ingranare la marcia. Il resto del mondo politico vive nella sua ombra, che gli sia alleato o avversario. Non so quanto ancora durerà, so che chi non ha il coraggio di affrontarlo direttamente, sfidandolo sul terreno del consenso, non gli succederà. Né che gli sia alleato, né che gli sia avversario. Lo ignorano quelli che non pensano, ma lo sanno quelli che occupano le prime file. Per questo il tira e molla dura decenni, con il ringhiare minaccioso che segue e precede lo scodinzolare festoso.
da www.davidegiacalone.it
26 febbraio 2010
Caso Mills, un pessimo esempio di esercizio della giustizia
La partita conclusa ieri, in Cassazione, porta il nome apparente di David Mills, ma diversa era la posta reale: Silvio Berlusconi. La sentenza delude quelli che speravano di condannare il secondo, per il tramite del primo, lascia aperto un procedimento penale destinato ad autodistruggersi e impone una nuova agenda politica, in tema di giustizia. L’avvocato Mills la sfanga, salvo dover risarcire la parte civile, che, per ironia della storia, è quella presidenza del Consiglio oggi abitata dal suo cliente di un tempo. Ma chiusa una partita se ne apre un’altra, tocca al governo dare le carte, e c’è da sperare che giochi con la testa, senza il solito appellarsi alla fortuna o all’isteria.
Oggi in molti scriveranno che la Cassazione ha considerato Mills copevole, ma prescritto il reato, sicché deve ritenersi colpevole anche Berlusconi, che, però, non era parte in causa. La situazione è ancora più grottesca di quel che sembra: per effetto (perverso) del lodo Alfano, ovvero della sospensione del procedimento contro Berlusconi, e quale conseguenza della successiva sentenza d’incostituzionalità, il presunto corrotto e il presunto corruttore hanno avuto due processi diversi, di cui uno, quello a Mills, appena concluso, e l’altro, quello a Berlusconi, appena iniziato. Non occorre essere giuristi per rendersi conto che è una situazione da manicomio, che si sarebbe potuta evitare se la legge fosse stata fatta in modo meno superficiale, talché, oltre a renderla costituzionale, si fosse provveduto a sospendere anche i procedimenti a carico dei coimputati. E non occorre essere studiosi, bastando il buon senso, per aver chiaro che non è ragionevole vedersi condannare in un processo nel quale neanche si è imputati, quindi non ci si è difesi. Questo, però, è quel che stava succedendo.
La Cassazione fischia la scadenza del tempo: datando il reato al novembre del 1999 si constata l’intervenuta prescrizione. Se è vero per il corrotto, lo è anche per il corruttore. Anziché condannato, Berlusconi è prescritto per interposto Mills. E’ vero, non c’è, per Mills, l’assoluzione nel merito. Ma così come non si può essere un po’ incinte, neanche si può essere un po’ colpevoli. O lo si è, o non lo si è: senza sentenza di condanna, vale l’innocenza. (Si tenga a mente questo principio, lo tenga a mente il governo, cui oggi fa comodo, perché torneremo a parlare di mafia, e vedremo che le cose non sono poi così chiare.
da www.davidegiacalone.it
Oggi in molti scriveranno che la Cassazione ha considerato Mills copevole, ma prescritto il reato, sicché deve ritenersi colpevole anche Berlusconi, che, però, non era parte in causa. La situazione è ancora più grottesca di quel che sembra: per effetto (perverso) del lodo Alfano, ovvero della sospensione del procedimento contro Berlusconi, e quale conseguenza della successiva sentenza d’incostituzionalità, il presunto corrotto e il presunto corruttore hanno avuto due processi diversi, di cui uno, quello a Mills, appena concluso, e l’altro, quello a Berlusconi, appena iniziato. Non occorre essere giuristi per rendersi conto che è una situazione da manicomio, che si sarebbe potuta evitare se la legge fosse stata fatta in modo meno superficiale, talché, oltre a renderla costituzionale, si fosse provveduto a sospendere anche i procedimenti a carico dei coimputati. E non occorre essere studiosi, bastando il buon senso, per aver chiaro che non è ragionevole vedersi condannare in un processo nel quale neanche si è imputati, quindi non ci si è difesi. Questo, però, è quel che stava succedendo.
La Cassazione fischia la scadenza del tempo: datando il reato al novembre del 1999 si constata l’intervenuta prescrizione. Se è vero per il corrotto, lo è anche per il corruttore. Anziché condannato, Berlusconi è prescritto per interposto Mills. E’ vero, non c’è, per Mills, l’assoluzione nel merito. Ma così come non si può essere un po’ incinte, neanche si può essere un po’ colpevoli. O lo si è, o non lo si è: senza sentenza di condanna, vale l’innocenza. (Si tenga a mente questo principio, lo tenga a mente il governo, cui oggi fa comodo, perché torneremo a parlare di mafia, e vedremo che le cose non sono poi così chiare.
da www.davidegiacalone.it
24 febbraio 2010
Corruzione ed intercettazioni, un parere che fa riflettere
La popolarità di Guido Bertolaso, il fatto che le accuse non ne abbiano provocato l’immediata cancellazione dal consesso civile, ha introdotto una novità, nella barbarie della malagiustizia italiana: nel processo mediatico, con la giuria riunita al bar, la parola spetta anche alla difesa. Un passo in avanti, rispetto a tempi in cui poteva parlare solo l’accusa. Non resta, ora, che avviare l’uso del televoto, che tante soddisfazioni ha dato, in altri ambiti.
Nel mentre l’inciviltà giuridica continua la propria marcia trionfale, le molte allodole del giornalismo italico svolazzano puntando sugli appositi specchietti, compitando pensose articolesse che sono, nella sostanza, veline di procura.
Ribadisco la sensazione già esposta: se gli inquirenti non stanno producendosi in uno striptease giudiziario, sicché il colpo di scena arriva alla fine, in sala la tensione si smoscerà presto, perché dietro le piume dell’allusione non c’è nulla di memorabile. E sarà un disastro, non perché a me piaccia la corrida giustizialista, che aborro, ma perché passeranno in cavalleria i guasti del sistema, dopo settimane passate in onanistiche discussioni sulla moralità collettiva e la più pertinente curiosità circa i massaggi. Lascio le supposizioni ai mestatori per vocazione, professione e profitto. Metto in fila qualche fatto.
1. Lo scontro fra procure è già cominciato, com’è tradizione. Firenze indaga, Roma vuol essere informata, Perugia è competente per i magistrati della capitale. Ciascuno tenta di attirare a sé la gestione della ciccia, consistente nel mettere le mani sulla politica e sui colleghi. La prima testa rotolata via è quella di Achille Toro. Mica uno da poco: delegato ai reati della pubblica amministrazione e candidato a guidare la procura capitolina. Dice l’attuale capo: certo che gli parlavo delle indagini, perché non avrei dovuto fidarmene? Perché all’epoca della scalata Bnl lo stesso Toro fu sospettato di passare informazioni riservate. Fu prosciolto, ma rimetterlo all’incrocio fra soldi e politica non è stata un’idea saggia. Ora s’è dimesso dalla magistratura, in modo da evitare il procedimento disciplinare. Spero che sia, anche questa volta, innocente. Resta da stabilire se, in quel caso, lo sia averlo riaccusato.
2. Il procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, lamenta che i colleghi di Firenze non avrebbero rispettato le regole relative alla competenza territoriale. Già la cosa è grave, perché l’idea che le leggi non siano rispettate in procura è imbarazzante (ma niente affatto nuova, perché attorno alla “competenza” si sono agitati scontri eclatanti, in passato). Ma la cosa cui a Roma non possono sfuggire è la seguente: se i fiorentini avessero passato carte, relative ad indagini su reati ai danni della pubblica amministrazione, queste sarebbero finite a Toro, che loro, però, stavano indagando. C’è del marcio in procura, insomma, restando da stabilire in quale.
3. Le indagini fiorentine vanno avanti, a quel che sembra, dall’aprile 2008. In un lasso di tempo così vasto le intercettazioni telefoniche “a strascico” possono non solo coinvolgere chiunque, ma riguardare ogni cosa, comprese le divagazioni sessuali. Qui si nasconde una colossale ipocrisia: con la digitalizzazione delle comunicazioni tutto è archiviabile, senza che ci sia bisogno di mettere al lavoro gli uomini con le cuffie. La legge che regola le intercettazioni non può, naturalmente, amputare un così efficace strumento d’indagine, ma neanche può far credere che tutto ruoti attorno al timbro formale del giudice dell’indagine preliminare, perché c’è un limite al prendersi in giro. Siccome la mafia può permettersi di funzionare con i pizzini, ma il mondo normale parla al telefono, dovrebbe semplicemente essere proibito utilizzare, quindi depositare e pubblicare, conversazioni senza senso compiuto, colme di puntini di sospensione, ove il soggetto che più allude è proprio chi indaga. E dovrebbe essere proibito utilizzare e depositare conversazioni che hanno a che vedere con condotte private, ivi comprese le risate notturne. A meno che non ci siano altri elementi di prova che dimostrano l’evidente significato di quelle frasi smozzicate. La supposizione e il sospetto non bastano.
4. Le misure cautelari servono a preservare la genuinità della prova. Ma la tempestività di quelle misure è servita a stoppare la corsa di Bertolaso e un provvedimento del governo (che a me non piaceva, quindi non scrivo per difenderlo). La sconnessione temporale fra le misure cautelari ed il processo, fra il mostrarsi dell’indizio e il formarsi della prova, genera mostri. Che potete comodamente osservare nel mentre scorazzano sulla pubblica scena.
5. Il tema di fondo, ineludibile, è quello degli appalti pubblici. Non funzionano, mentre la protezione civile ha funzionato perché poteva aggirare quelle regole. Se la morale finale di questa storia fosse la cancellazione della deroga non solo sarebbe un danno, ma consegnerebbe il governo reale delle cose d’Italia nelle mani di chi popola il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Soggetti di cui ha già parlato il presidente della seconda Corte, da me ripreso nei giorni scorsi. Questa non è una china pericolosa, è una china suicida.
6. Per evitare che la deroga conduca al peggio occorre riscrivere le regole degli appalti, e far funzionare la giustizia. Non è solo una questione di leggi, ma anche di pratiche amministrative e giudiziarie, che oggi si svolgono in una così pesta opacità da tenere lontani dal mercato italiano i grandi operatori internazionali delle infrastrutture. Se questa storia porterà ad una maggiore presenza del mercato, quindi della trasparenza e della concorrenza, nelle opere pubbliche, sarà una fortunata dimostrazione dell’eterogenesi dei fini. Se, invece, porterà alla pretesa di più controlli, generando più controllori, sarà un caso di masochismo nazionale, destinato a rafforzare il genetico intrallazzonismo del suo generone, imprenditoriale e politico.
da www.davidegiacalone.it
Nel mentre l’inciviltà giuridica continua la propria marcia trionfale, le molte allodole del giornalismo italico svolazzano puntando sugli appositi specchietti, compitando pensose articolesse che sono, nella sostanza, veline di procura.
Ribadisco la sensazione già esposta: se gli inquirenti non stanno producendosi in uno striptease giudiziario, sicché il colpo di scena arriva alla fine, in sala la tensione si smoscerà presto, perché dietro le piume dell’allusione non c’è nulla di memorabile. E sarà un disastro, non perché a me piaccia la corrida giustizialista, che aborro, ma perché passeranno in cavalleria i guasti del sistema, dopo settimane passate in onanistiche discussioni sulla moralità collettiva e la più pertinente curiosità circa i massaggi. Lascio le supposizioni ai mestatori per vocazione, professione e profitto. Metto in fila qualche fatto.
1. Lo scontro fra procure è già cominciato, com’è tradizione. Firenze indaga, Roma vuol essere informata, Perugia è competente per i magistrati della capitale. Ciascuno tenta di attirare a sé la gestione della ciccia, consistente nel mettere le mani sulla politica e sui colleghi. La prima testa rotolata via è quella di Achille Toro. Mica uno da poco: delegato ai reati della pubblica amministrazione e candidato a guidare la procura capitolina. Dice l’attuale capo: certo che gli parlavo delle indagini, perché non avrei dovuto fidarmene? Perché all’epoca della scalata Bnl lo stesso Toro fu sospettato di passare informazioni riservate. Fu prosciolto, ma rimetterlo all’incrocio fra soldi e politica non è stata un’idea saggia. Ora s’è dimesso dalla magistratura, in modo da evitare il procedimento disciplinare. Spero che sia, anche questa volta, innocente. Resta da stabilire se, in quel caso, lo sia averlo riaccusato.
2. Il procuratore capo di Roma, Giovanni Ferrara, lamenta che i colleghi di Firenze non avrebbero rispettato le regole relative alla competenza territoriale. Già la cosa è grave, perché l’idea che le leggi non siano rispettate in procura è imbarazzante (ma niente affatto nuova, perché attorno alla “competenza” si sono agitati scontri eclatanti, in passato). Ma la cosa cui a Roma non possono sfuggire è la seguente: se i fiorentini avessero passato carte, relative ad indagini su reati ai danni della pubblica amministrazione, queste sarebbero finite a Toro, che loro, però, stavano indagando. C’è del marcio in procura, insomma, restando da stabilire in quale.
3. Le indagini fiorentine vanno avanti, a quel che sembra, dall’aprile 2008. In un lasso di tempo così vasto le intercettazioni telefoniche “a strascico” possono non solo coinvolgere chiunque, ma riguardare ogni cosa, comprese le divagazioni sessuali. Qui si nasconde una colossale ipocrisia: con la digitalizzazione delle comunicazioni tutto è archiviabile, senza che ci sia bisogno di mettere al lavoro gli uomini con le cuffie. La legge che regola le intercettazioni non può, naturalmente, amputare un così efficace strumento d’indagine, ma neanche può far credere che tutto ruoti attorno al timbro formale del giudice dell’indagine preliminare, perché c’è un limite al prendersi in giro. Siccome la mafia può permettersi di funzionare con i pizzini, ma il mondo normale parla al telefono, dovrebbe semplicemente essere proibito utilizzare, quindi depositare e pubblicare, conversazioni senza senso compiuto, colme di puntini di sospensione, ove il soggetto che più allude è proprio chi indaga. E dovrebbe essere proibito utilizzare e depositare conversazioni che hanno a che vedere con condotte private, ivi comprese le risate notturne. A meno che non ci siano altri elementi di prova che dimostrano l’evidente significato di quelle frasi smozzicate. La supposizione e il sospetto non bastano.
4. Le misure cautelari servono a preservare la genuinità della prova. Ma la tempestività di quelle misure è servita a stoppare la corsa di Bertolaso e un provvedimento del governo (che a me non piaceva, quindi non scrivo per difenderlo). La sconnessione temporale fra le misure cautelari ed il processo, fra il mostrarsi dell’indizio e il formarsi della prova, genera mostri. Che potete comodamente osservare nel mentre scorazzano sulla pubblica scena.
5. Il tema di fondo, ineludibile, è quello degli appalti pubblici. Non funzionano, mentre la protezione civile ha funzionato perché poteva aggirare quelle regole. Se la morale finale di questa storia fosse la cancellazione della deroga non solo sarebbe un danno, ma consegnerebbe il governo reale delle cose d’Italia nelle mani di chi popola il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. Soggetti di cui ha già parlato il presidente della seconda Corte, da me ripreso nei giorni scorsi. Questa non è una china pericolosa, è una china suicida.
6. Per evitare che la deroga conduca al peggio occorre riscrivere le regole degli appalti, e far funzionare la giustizia. Non è solo una questione di leggi, ma anche di pratiche amministrative e giudiziarie, che oggi si svolgono in una così pesta opacità da tenere lontani dal mercato italiano i grandi operatori internazionali delle infrastrutture. Se questa storia porterà ad una maggiore presenza del mercato, quindi della trasparenza e della concorrenza, nelle opere pubbliche, sarà una fortunata dimostrazione dell’eterogenesi dei fini. Se, invece, porterà alla pretesa di più controlli, generando più controllori, sarà un caso di masochismo nazionale, destinato a rafforzare il genetico intrallazzonismo del suo generone, imprenditoriale e politico.
da www.davidegiacalone.it
Favola del 23 Febbraio
Dicono che in un quartiere fatiscente vivesse una piccola comunità di ladri in pensione.
Dicono che il parroco della chiesa volesse redimere le pecorelle smarrite e che perciò organizzò una serata con giochi, musica e predica finale a cui invitò anche i ladri pensionati.
Dicono che i ladri erano in pensione non per un ripensamento sulla loro mala vita ma solo perché i ladri giovani gli avrebbero sparato nella gambe se avessero osato rubargli la piazza.
Dicono che alla festa i parrocchiani andarono in pochi perché la diffidenza verso i ladri, seppure in pensione, era ancora tanta.
Dicono che i ladri in pensione si divertirono tanto alla festa e che alla fine andarono tutti a brindare all'osteria.
Dicono che nella sala ormai vuota girovagava il parrocco cercando preoccupato dove potesse avere riposto la cassettina delle elemosine.
Dicono che alla sera, spogliandosi per andare a letto, si accorse che gli avevano rubato il portafoglio.
Dicono che il parroco della chiesa volesse redimere le pecorelle smarrite e che perciò organizzò una serata con giochi, musica e predica finale a cui invitò anche i ladri pensionati.
Dicono che i ladri erano in pensione non per un ripensamento sulla loro mala vita ma solo perché i ladri giovani gli avrebbero sparato nella gambe se avessero osato rubargli la piazza.
Dicono che alla festa i parrocchiani andarono in pochi perché la diffidenza verso i ladri, seppure in pensione, era ancora tanta.
Dicono che i ladri in pensione si divertirono tanto alla festa e che alla fine andarono tutti a brindare all'osteria.
Dicono che nella sala ormai vuota girovagava il parrocco cercando preoccupato dove potesse avere riposto la cassettina delle elemosine.
Dicono che alla sera, spogliandosi per andare a letto, si accorse che gli avevano rubato il portafoglio.
Crepuscolo del berlusconismo
La vita pubblica e giudiziaria italiana sta vivendo uno dei momenti più delicati e critici dalla fine di tangentopoli. In perfetta simbiosi con una tornata elettorale che si preannuncia fondamentale per misurare il livello di decadenza del sistema di potere berlusconiano, sono emerse inchieste giudiziarie di così vasto e diffuso raggio sulla corruzione nel sistema pubblico e statuale da ingenerare la netta convinzione che gli argini contro il malaffare siano stati rotti in modo diffuso e sistemico.
La curva del consenso berlusconiano è in evidente affanno anche per motivi fisiologici. Spesso si dimentica che fanno ormai 17 anni di leaderschip nel paese. Un lasso di tempo epocale che, accompagnato all'anzianità di Berlusconi, ben spiega i segni di un crepuscolo che il suo alleato di partito e primo erede Fini cerca di rendere i più accelerati possibili.
Questi diffusi episodi di decadimento della moralità pubblica, che seguono gli stili di vita sessuale discutibili e poco confacenti del premier, sono però sintomatici di uno sfaldamento del modello che è stato proposto negli ultimi tre lustri e che faceva da pilastro portante del consenso popolare.
Cosa succederà ora?
La certezza della fine del berlusconismo è un dato inoppugnabile. Potremmo chiederci, adattando Costanzo, quale disgrazia troveremo dietro l'angolo.
Del tutto improbabile che l'eredità del Cavaliere sia raccolta dal Pdl, che per la dissonanza delle sue componenti sembra destinato ad una inesorabile frantumazione.
L'unica incertezza è legata ai tempi. La debolezza del Pd e le incredibili risorse del Berlusca potrebbero produrre un arco temporale sufficiente alla nascita di una nuova alchimia maggioritaria disegnata su una diversa versione di centro-destra, che resta la connotazione più certa e stabile dell'elettorato italiano.
La curva del consenso berlusconiano è in evidente affanno anche per motivi fisiologici. Spesso si dimentica che fanno ormai 17 anni di leaderschip nel paese. Un lasso di tempo epocale che, accompagnato all'anzianità di Berlusconi, ben spiega i segni di un crepuscolo che il suo alleato di partito e primo erede Fini cerca di rendere i più accelerati possibili.
Questi diffusi episodi di decadimento della moralità pubblica, che seguono gli stili di vita sessuale discutibili e poco confacenti del premier, sono però sintomatici di uno sfaldamento del modello che è stato proposto negli ultimi tre lustri e che faceva da pilastro portante del consenso popolare.
Cosa succederà ora?
La certezza della fine del berlusconismo è un dato inoppugnabile. Potremmo chiederci, adattando Costanzo, quale disgrazia troveremo dietro l'angolo.
Del tutto improbabile che l'eredità del Cavaliere sia raccolta dal Pdl, che per la dissonanza delle sue componenti sembra destinato ad una inesorabile frantumazione.
L'unica incertezza è legata ai tempi. La debolezza del Pd e le incredibili risorse del Berlusca potrebbero produrre un arco temporale sufficiente alla nascita di una nuova alchimia maggioritaria disegnata su una diversa versione di centro-destra, che resta la connotazione più certa e stabile dell'elettorato italiano.
Mou, prenditi una pastiglia
La sceneggiata dell'allenatore Mourinho durante la partita Inter-Samp ha dell'incredibile. Un uomo di sport, se tale, è tenuto a conoscere il regolamento ed a sapere cogliere il limite di demarcazione fra discrezionalità arbitrale e norme regolamentari. Aspetti solari negli episodi critici di questa partita e che l'omino sulla panchina nerazzurra ha volutamente strumentalizzato, ormai prigioniero di un guittismo ad uso e consumo della parte più decerebrata dell'opinione pubblica e dei giornalisti di fede nerazzurra.
Questo signore, ormai si può attestare dopo un biennio, ha portato in Italia una modestissima innovazione tecnica, stante la preponderante forza dell'organico messogli a disposizione dal petroliere Moratti - un uomo a cui il sistema Italia consente di vivere e spendere come uno sceicco - ma ha riversato sul paese che lo ospita, e lo strapaga, un disprezzo di sapore coloniale che poco si spiega con le sue origini nazionali.
Colpito in modo lieve con squalifica e multa ridicola da una Federazione serva della proprietà dell'Inter sin dall'incredibile conclusione dell'affaire Calciopoli, ha vestito i panni dell'umiliato ed offeso e ieri, in conferenza stampa pre Chelsea, ha chiaramente dato del mafioso ad Ancelotti, reo di sedere con profitto su una panchina che fu sua e da cui fu cacciato a metà di un campionato fallimentare.
Il caso sta diventando di giorno in giorno esemplarmente clinico. Se ne sono resi conto in moltissimi, persino l'ambiente calcisitico in genere pervaso da un'odiosa ipocrisia.
Quando si presenterà in conferenza stampa con il cappelluccio di Napoleone, anche sulla fronte di Moratti comparirà una ruga di perplessità.
Questo signore, ormai si può attestare dopo un biennio, ha portato in Italia una modestissima innovazione tecnica, stante la preponderante forza dell'organico messogli a disposizione dal petroliere Moratti - un uomo a cui il sistema Italia consente di vivere e spendere come uno sceicco - ma ha riversato sul paese che lo ospita, e lo strapaga, un disprezzo di sapore coloniale che poco si spiega con le sue origini nazionali.
Colpito in modo lieve con squalifica e multa ridicola da una Federazione serva della proprietà dell'Inter sin dall'incredibile conclusione dell'affaire Calciopoli, ha vestito i panni dell'umiliato ed offeso e ieri, in conferenza stampa pre Chelsea, ha chiaramente dato del mafioso ad Ancelotti, reo di sedere con profitto su una panchina che fu sua e da cui fu cacciato a metà di un campionato fallimentare.
Il caso sta diventando di giorno in giorno esemplarmente clinico. Se ne sono resi conto in moltissimi, persino l'ambiente calcisitico in genere pervaso da un'odiosa ipocrisia.
Quando si presenterà in conferenza stampa con il cappelluccio di Napoleone, anche sulla fronte di Moratti comparirà una ruga di perplessità.
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