L'estate è fatta per una indolente inerzia. Il caldo opprime di giorno, asfissia di notte. La mente rallenta le sue funzioni, l'afflosciamento generale rende tollerabile tutto, anche una ordinaria edizione serale del Tg5. A tale proposito, sembra opportuno sottolineare che il cambio di direttore ha reso il prodotto ancora più schifoso. Il minutaggio delle disgrazie, morti ammazzati, terronamenti vari dalle regioni del sud, è passato da 15 a 25 minuti. L'unico momento di requie sono i grafici delle previsioni del tempo.
Poi finalmente, che sollievo, arriva la pubblicità.
Questa è una stagione di silenzio anche per la politica. Almeno, lo era ai tempi della mitica Balena Bianca, quando erano consentite solo esilaranti interviste sotto l'ombrellone a politici rintronati dal sole.
Nell'era Prodi, lo scannamento tra alleati continua truce e violento anche in agosto.
Più si insultano, più si è certi che non romperanno mai.
Lo stato sociale, le pensioni, Alitalia (a quando il fallimento?), la finanziaria. Tutti polveroni per il loro pubblico pagante mentre l'opposizione sbadiglia su spiagge italiche o esotiche, salvo qualche arrapato dell'Udc che esagera con l'amore a pagamento.
Ma la più divertente è la competizione per il duce massimo del Partito Democratico.
Dopo ameba-Veltroni, sono comparse alcune ballerine di terza fila di matrice Pipi ed una sgallettata disperata come la Bindi.
Ma non basta.
Al gioco volevano partecipare anche Pannella e Di Pietro.
Candidature rifiutate.
Motivazione?
Quella del compagno Ricucci.
Sono capaci tutti di fare i froci con il culo degli altri.
31 luglio 2007
09 luglio 2007
El nost Milan: Porta Vittoria
Più o meno cinquantanni indietro, le porte disegnavano i confini di Milano-città.
Oltre erano sobborghi come la Bovisa o Città Studi, o addirittura paesi autonomi come Lambrate, Niguarda, Musocco.
Uno, prima di essere milanese, era di una porta.
Io sono nato e vissuto sino all'età del matrimonio a Porta Vittoria. I miei confini naturali erano il centro, Porta Romana, Monforte. L'Idroscalo era un'entità astratta oltre i tre ponti di Viale Corsica.
Altrove si andava solo per trovare i parenti nelle feste comandate. Mi ricordo che quando una zia materna si trasferì da Via Moriggi ad un nuovo quartiere sul Fulvio Testi, vicino alla fabbrica del marito alla Bicocca, ne pianse per mesi. Cosa ho fatto di male per abbandonare Milano, diceva a mia madre durante le frequenti telefonate.
Avevo un altro pro-zio che abitava alla Baia del Re, in Via Neera. Allora un quartiere dell'estrema periferia, circondato da orti e campetti di calcio.
Avevano edificato case popolari per gli operai della Stipel, dove costui lavorava.
Andarci costava un'intera domenica, e comportava due tram ed un buon tratto a piedi. Era come un paesone e si parlava un meneghino diverso. Un po' arioso, diceva mia madre.
Se ci ripassate oggi è tutto come allora, ad eccezione del dialetto: il terron-maghrebino dei commerci in droga che si svolgono alla luce del sole, delle scritte sulle mura delle case, brutte come allora ma senza quella pulita dignità dei quartieri poveri della Milano Anni Cinquanta.
Io vivevo, come detto, a Porta Vittoria in Via Piceno, nell'area del vecchio ortomercato.
Una specie di Halles di provincia, invasa da carrettini a trazione elettrica per il trasporto delle merci, vociante e rumorosa sin dalle sei del mattino, l'ora del risveglio inesorabile e delle prime saracche di mio padre, prima che una napoletana di caffè non lo riconciliasse con l'ineluttabile realtà di una nuova giornata lavorativa.
L'orto era talmente condizionante che, a mia memoria, non ho mai visto mio padre uscire di casa per l'ufficio dopo le 7. Nei non rari momenti di litigio, mia madre gli rinfacciava di andare in banca, in Via Mazzini, a "sollevare le saracinesche". Sta di fatto che alle 7, io e mio fratello eravamo pronti per andare a scuola e mia madre era già alle prese con i lavori di casa.
Dove abitavo era brutto e caotico. Inoltre, a differenza di altre porte, era infestato - come dicevano i miei - da commercianti di frutta e verdura che venivano dal sud e qui si mettevano in pensione o, i più fortunati, si compravano casa. Spesso si facevano una seconda famiglia, come d'abitudine per tutti gli emigranti.
Almeno tre volte, per quanto ricordo, questi nodi familiari vennero risolti a pistolettate.
Ho ancora vivido nella memoria un pomeriggio estivo torrido, io sul balcone a giocare e cinque colpi secchi, in sequenza, in fondo alla strada. In casa non si amava commentare davanti ai bambini questi fattacci, ma il mazzo di fiori deposto contro un fusto del terrapieno di Viale Piceno mi chiarì di non avere udito un gioco di petardi ma vissuto le sequenze di un omicidio.
Questa era la mia Porta Vittoria che, cento metri più in là , verso il centro, diventava in Corso XXII Marzo un quartiere persino bello, alberato ai lati, con una profonda prospettiva sull'obelisco delle Cinque Giornate. Lì finiva la porta e cominciava il Corso di Porta Vittoria che ormai era centro, con i moderni e lussuosi palazzi che stavano sostituendo i disastri dei bombardamenti.
Da casa mia al Duomo si poteva arrivare a piedi in venti minuti; leggendo il giornale, in trenta minuti con una consumata tecnica dell'alternativo scrutamento del marciapiedi e lettura di un pezzo di articolo. Il quotidiano, il Corriere, me lo compravo con i soldi del tram risparmiati andando a piedi.
Non ho particolarmente amato il mio quartiere. L'eterogeneità della popolazione non favoriva le amicizie, né, per la verità, la mia famiglia era portata a un'intensa vita sociale. Ma ai miei genitori - come lo capisco ora - le sue vie, i negozi, la vicinanza con il centro dovevano essere entrati nel sangue perché lì vissero l'intera loro vita senza mai sentire lo stimolo di andarsene verso i quartieri di periferia. Cambiarono, tutti insieme, tre appartamenti, ma con l'arco di un compasso la diagonale che li congiungeva non avrebbe superato i cento metri.
Oltre erano sobborghi come la Bovisa o Città Studi, o addirittura paesi autonomi come Lambrate, Niguarda, Musocco.
Uno, prima di essere milanese, era di una porta.
Io sono nato e vissuto sino all'età del matrimonio a Porta Vittoria. I miei confini naturali erano il centro, Porta Romana, Monforte. L'Idroscalo era un'entità astratta oltre i tre ponti di Viale Corsica.
Altrove si andava solo per trovare i parenti nelle feste comandate. Mi ricordo che quando una zia materna si trasferì da Via Moriggi ad un nuovo quartiere sul Fulvio Testi, vicino alla fabbrica del marito alla Bicocca, ne pianse per mesi. Cosa ho fatto di male per abbandonare Milano, diceva a mia madre durante le frequenti telefonate.
Avevo un altro pro-zio che abitava alla Baia del Re, in Via Neera. Allora un quartiere dell'estrema periferia, circondato da orti e campetti di calcio.
Avevano edificato case popolari per gli operai della Stipel, dove costui lavorava.
Andarci costava un'intera domenica, e comportava due tram ed un buon tratto a piedi. Era come un paesone e si parlava un meneghino diverso. Un po' arioso, diceva mia madre.
Se ci ripassate oggi è tutto come allora, ad eccezione del dialetto: il terron-maghrebino dei commerci in droga che si svolgono alla luce del sole, delle scritte sulle mura delle case, brutte come allora ma senza quella pulita dignità dei quartieri poveri della Milano Anni Cinquanta.
Io vivevo, come detto, a Porta Vittoria in Via Piceno, nell'area del vecchio ortomercato.
Una specie di Halles di provincia, invasa da carrettini a trazione elettrica per il trasporto delle merci, vociante e rumorosa sin dalle sei del mattino, l'ora del risveglio inesorabile e delle prime saracche di mio padre, prima che una napoletana di caffè non lo riconciliasse con l'ineluttabile realtà di una nuova giornata lavorativa.
L'orto era talmente condizionante che, a mia memoria, non ho mai visto mio padre uscire di casa per l'ufficio dopo le 7. Nei non rari momenti di litigio, mia madre gli rinfacciava di andare in banca, in Via Mazzini, a "sollevare le saracinesche". Sta di fatto che alle 7, io e mio fratello eravamo pronti per andare a scuola e mia madre era già alle prese con i lavori di casa.
Dove abitavo era brutto e caotico. Inoltre, a differenza di altre porte, era infestato - come dicevano i miei - da commercianti di frutta e verdura che venivano dal sud e qui si mettevano in pensione o, i più fortunati, si compravano casa. Spesso si facevano una seconda famiglia, come d'abitudine per tutti gli emigranti.
Almeno tre volte, per quanto ricordo, questi nodi familiari vennero risolti a pistolettate.
Ho ancora vivido nella memoria un pomeriggio estivo torrido, io sul balcone a giocare e cinque colpi secchi, in sequenza, in fondo alla strada. In casa non si amava commentare davanti ai bambini questi fattacci, ma il mazzo di fiori deposto contro un fusto del terrapieno di Viale Piceno mi chiarì di non avere udito un gioco di petardi ma vissuto le sequenze di un omicidio.
Questa era la mia Porta Vittoria che, cento metri più in là , verso il centro, diventava in Corso XXII Marzo un quartiere persino bello, alberato ai lati, con una profonda prospettiva sull'obelisco delle Cinque Giornate. Lì finiva la porta e cominciava il Corso di Porta Vittoria che ormai era centro, con i moderni e lussuosi palazzi che stavano sostituendo i disastri dei bombardamenti.
Da casa mia al Duomo si poteva arrivare a piedi in venti minuti; leggendo il giornale, in trenta minuti con una consumata tecnica dell'alternativo scrutamento del marciapiedi e lettura di un pezzo di articolo. Il quotidiano, il Corriere, me lo compravo con i soldi del tram risparmiati andando a piedi.
Non ho particolarmente amato il mio quartiere. L'eterogeneità della popolazione non favoriva le amicizie, né, per la verità, la mia famiglia era portata a un'intensa vita sociale. Ma ai miei genitori - come lo capisco ora - le sue vie, i negozi, la vicinanza con il centro dovevano essere entrati nel sangue perché lì vissero l'intera loro vita senza mai sentire lo stimolo di andarsene verso i quartieri di periferia. Cambiarono, tutti insieme, tre appartamenti, ma con l'arco di un compasso la diagonale che li congiungeva non avrebbe superato i cento metri.
Giovani depressi ma anche sfaticati
Vorrei fare una domanda semplice-semplice ai giovani: ma siete nati stanchi? Vi osservo tutti i giorni in metropolitana, e sono sempre tentato di offrirvi una delle compresse di Ginseng che porto con me, poiché io - come voi - sono stanco, ma questo si spiega, avendo superato di quattro anni il mezzo secolo d'età, sostenuto quattro concorsi statali, servito la Patria come militare, scritto undici libri e centinaia di articoli, girato l'Europa per lavoro eccetera. Ah, dimenticavo il meglio: dovendo convivere con l'artrosi cervicale, l'artrosi lombo-sacrale e la sciatica, che si fanno sentire soprattutto in metropolitana, quando - all'inpiedi - devo sostenermi agli «appositi appigli» posti in alto, costretto ad osservarvi. Voi ve ne state seduti (anzi accasciati), stanchi di una pesantissima vacuità quotidiana, per dirla con Veneziani, sfiancati dal peso di giornate totalmente inutili, di esistenze non legate a nessuna causa, a nessuna buona battaglia, a nessuna speranza. Davanti a voi è il vecchierel canuto e bianco, reso curvo dai suoi anni; la massaia carica di buste della spesa; la donna incinta; persino il cieco, sorretto dal badante. E voi fingete di non vederli. Fingete, nel migliore dei casi. Nel peggiore (che poi è il più frequente) li guardate in faccia e non battete ciglio. Avete le cuffie nelle orecchie per ascoltare la vostra musicaccia, sostenete in grembo la fidanzata con la quale vi baciate e mordicchiate ad ogni momento, o vi spidocchiate a turno, come le scimmie che si osservano allo zoo. Perché mai dovreste cedere il posto a qualcuno? Siete giovani, studenti e innamorati: caso mai è l'anziano che deve cedere il posto a voi, specie se siete disoccupati. Uno o due anni fa, presentai un mio libro in alcune scuole superiori di Rovigo; chi sa che non incontrai uno di quei campioni che hanno percosso il crocifisso, al grido di: «Finiscilo, finiscilo!». L'insegnante di una di quelle scuole mi disse: «Maestro, qui ci sono problemi opposti a quelli che vivono i suoi studenti. Non c'è lavoro nero, non c'è la casa sgarrupata, ma sono tutti annoiati. Per vincere questa noia violentano ragazze, torturano disabili, allagano le scuole, buttano sassi dai cavalcavia. La buona parte di questi ragazzi è viziata, la buona parte fa uso di droga. Non conoscono il sacrificio, vogliono tutto e subito». Poveri giovani, in pensione ancor prima di lavorare. Chissà che un paio di ceffoni bene assestati non li svegli dal loro torpore esistenziale.
Marcello D’Orta, su Il Giornale di oggi
Marcello D’Orta, su Il Giornale di oggi
06 luglio 2007
El nost Milan
Il solito rompicoglioni, direte.
Sbagliando, perché Jannacci è sì un rompicoglioni, ma insolito. Così insolito da sembrare unico nel panorama della canzone italiana. Viste ai suoi concerti persone non anziane commuoversi per canzoni che hanno quarantanni sul groppone, ho deciso che aveva ragione lui, prima cosa, e poi che canta meglio adesso di quarantanni fa, seconda. Ha più voce, quando si decide a tirarla fuori e non indulge al recitato, talvolta necessario (sentite le due parti di quel gioiello che è "La costruzione"). Ha più consapevolezza del ruolo, il soldato Jannacci. Non è un pirla, sa fare di conto. A difendere la sua trincea (la sua gente) sono sempre di meno. Qualcuno è morto, amen, ma tanti sono passati dall'altra parte. Le scarpe da tennis le portano anche i ricchi, non è più solo roba da barboni. Oggi per andare all'Idroscalo il barbone salirebbe su un Suv, ma per molti ci vogliono sempre due tram per arrivare in piazza del Duomo, e l'avvenire resta un buco nero in fondo al tram per i ragazzi obbligati alla precarietà, con un presente magro e un futuro vago. Il meglio di Jannacci è quasi sempre il peggio di Milano, della fatica di vivere, dell'umiliazione di sopravvivere, del non avere voce, ed è qui che arriva lui ("Ohé sun chì") con l'allegria del naufragato che è poi la totale serietà del clown, del saltimbanco, del medicastro e del poetastro. La sua voce (questa è una sensazione mia) ha più forza in quanto consapevole di esprimersi per conto di altre voci, quelle che non ci arrivano perché siamo distratti o di fretta, o perché partono da troppo distante (a Milano il troppo distante è anche mezzo metro, tenerne conto) e poi si sa che la vita lè bela, che la ruota gira (sì, ma sempre dalla stessa parte) o perché si è deciso (da qualche altra parte, in alto) che non contano. Se non contano, tanto meno raccontano o cantano. Più o meno è da mezzo secolo che l'inveterato ma pur sempre insolito Jannacci rompe i coglioni raccontando e cantando. E vogliamo tenercelo caro, come tutti i mammiferi in via d'estinzione, perché senza metterla giù tanto dura sta facendo canzoni politiche da una vita. Più musicista di tanti, stimabili, degli ex Dischi del Sole. Più padrone della scena (da quando ha i capelli bianchi). Ma sempre controtendenza, contro vento. Contro. Non sto parlando di un guerrigliero al pianoforte, ma semplicemente di un uomo che si guarda intorno senza paraocchi e paraorecchi. Perché ci vuole orecchio, ma non solo.
Questo doppio cd [Enzo Jannacci - The Best], tutte le canzoni riarrangiate da quel mostro di Paolino J, comprende alcuni inediti, un "Bartali" messo in piedi dall'Avvocato e dal Dottore (una versione sbilenca, per divertirsi, a mezza via tra il salmodiare dei frati e l'asincronia degli ubriachi) e, cosa che vale un grazie sentito da parte mia, "Dona che te durmivet", amara canzone protofemminista, con la sorpresa della traduzione in italiano. Che non sciupa l'atmosfera della latteria (quante ce n'erano, quante ne sono sparite), ma continuo a pensare che manasc suoni meglio di grosse mani e, come studioso dei testi jannacciani, mi tocca rilevare che per motivi metrici i cinque anni d'amore (tant el ghè pu) sono diventati tre. Non importa, inscì vèghen si dice a Milano.
A questo punto, può risultare superfluo chiedersi perché Jannacci rompa i coglioni da mezzo secolo. Non so lui, che comincerebbe a parlare di arterie e valvole, ma io una risposta ce l'ho. Perché ha intuito allora (adesso ne è certo) che questa è la strada più breve per arrivare al cuore.
(Gianni Mura)
Sono mesi che mi intriga l'idea di parlare di Milano a più voci, da più angoli generazionali. Lo spunto decisivo me lo dà questo bell'articolo di Mura su Jannacci: un'icona della mia gioventù, uno della scuola del Derby, uno di quella sinistra che capiva ed interpretava il popolo delle periferie e delle fabbriche e che non giocava con le bombe. La Milano del socialismo democratico, dei Tognoli, degli Aniasi, del Milan con le grandi righe verticali e del calcio non ancora violentato dai soldi di Moratti padre. La Milano dove passavi da Corso di Porta Vittoria senza provare cupe angosce, quattro volte al giorno perché l'intervallo di lavoro era di due ore. La Milano delle grandi nebbie, del nerofumo sulla 500 parcheggiata in strada, dei terroni ghettizzati nelle nuove periferie dei quartieri Iacp. Di questi ricordi vorrei parlare e sentire le testimonianze dei meno giovani, ognuno con il proprio frammento di memoria e dei giovani che condividono queste vie, queste mura, ma non i medesimi riti ambrosiani.
Un caldo invito a scrivere.
Danielone
Sbagliando, perché Jannacci è sì un rompicoglioni, ma insolito. Così insolito da sembrare unico nel panorama della canzone italiana. Viste ai suoi concerti persone non anziane commuoversi per canzoni che hanno quarantanni sul groppone, ho deciso che aveva ragione lui, prima cosa, e poi che canta meglio adesso di quarantanni fa, seconda. Ha più voce, quando si decide a tirarla fuori e non indulge al recitato, talvolta necessario (sentite le due parti di quel gioiello che è "La costruzione"). Ha più consapevolezza del ruolo, il soldato Jannacci. Non è un pirla, sa fare di conto. A difendere la sua trincea (la sua gente) sono sempre di meno. Qualcuno è morto, amen, ma tanti sono passati dall'altra parte. Le scarpe da tennis le portano anche i ricchi, non è più solo roba da barboni. Oggi per andare all'Idroscalo il barbone salirebbe su un Suv, ma per molti ci vogliono sempre due tram per arrivare in piazza del Duomo, e l'avvenire resta un buco nero in fondo al tram per i ragazzi obbligati alla precarietà, con un presente magro e un futuro vago. Il meglio di Jannacci è quasi sempre il peggio di Milano, della fatica di vivere, dell'umiliazione di sopravvivere, del non avere voce, ed è qui che arriva lui ("Ohé sun chì") con l'allegria del naufragato che è poi la totale serietà del clown, del saltimbanco, del medicastro e del poetastro. La sua voce (questa è una sensazione mia) ha più forza in quanto consapevole di esprimersi per conto di altre voci, quelle che non ci arrivano perché siamo distratti o di fretta, o perché partono da troppo distante (a Milano il troppo distante è anche mezzo metro, tenerne conto) e poi si sa che la vita lè bela, che la ruota gira (sì, ma sempre dalla stessa parte) o perché si è deciso (da qualche altra parte, in alto) che non contano. Se non contano, tanto meno raccontano o cantano. Più o meno è da mezzo secolo che l'inveterato ma pur sempre insolito Jannacci rompe i coglioni raccontando e cantando. E vogliamo tenercelo caro, come tutti i mammiferi in via d'estinzione, perché senza metterla giù tanto dura sta facendo canzoni politiche da una vita. Più musicista di tanti, stimabili, degli ex Dischi del Sole. Più padrone della scena (da quando ha i capelli bianchi). Ma sempre controtendenza, contro vento. Contro. Non sto parlando di un guerrigliero al pianoforte, ma semplicemente di un uomo che si guarda intorno senza paraocchi e paraorecchi. Perché ci vuole orecchio, ma non solo.
Questo doppio cd [Enzo Jannacci - The Best], tutte le canzoni riarrangiate da quel mostro di Paolino J, comprende alcuni inediti, un "Bartali" messo in piedi dall'Avvocato e dal Dottore (una versione sbilenca, per divertirsi, a mezza via tra il salmodiare dei frati e l'asincronia degli ubriachi) e, cosa che vale un grazie sentito da parte mia, "Dona che te durmivet", amara canzone protofemminista, con la sorpresa della traduzione in italiano. Che non sciupa l'atmosfera della latteria (quante ce n'erano, quante ne sono sparite), ma continuo a pensare che manasc suoni meglio di grosse mani e, come studioso dei testi jannacciani, mi tocca rilevare che per motivi metrici i cinque anni d'amore (tant el ghè pu) sono diventati tre. Non importa, inscì vèghen si dice a Milano.
A questo punto, può risultare superfluo chiedersi perché Jannacci rompa i coglioni da mezzo secolo. Non so lui, che comincerebbe a parlare di arterie e valvole, ma io una risposta ce l'ho. Perché ha intuito allora (adesso ne è certo) che questa è la strada più breve per arrivare al cuore.
(Gianni Mura)
Sono mesi che mi intriga l'idea di parlare di Milano a più voci, da più angoli generazionali. Lo spunto decisivo me lo dà questo bell'articolo di Mura su Jannacci: un'icona della mia gioventù, uno della scuola del Derby, uno di quella sinistra che capiva ed interpretava il popolo delle periferie e delle fabbriche e che non giocava con le bombe. La Milano del socialismo democratico, dei Tognoli, degli Aniasi, del Milan con le grandi righe verticali e del calcio non ancora violentato dai soldi di Moratti padre. La Milano dove passavi da Corso di Porta Vittoria senza provare cupe angosce, quattro volte al giorno perché l'intervallo di lavoro era di due ore. La Milano delle grandi nebbie, del nerofumo sulla 500 parcheggiata in strada, dei terroni ghettizzati nelle nuove periferie dei quartieri Iacp. Di questi ricordi vorrei parlare e sentire le testimonianze dei meno giovani, ognuno con il proprio frammento di memoria e dei giovani che condividono queste vie, queste mura, ma non i medesimi riti ambrosiani.
Un caldo invito a scrivere.
Danielone
Bpm il giorno dopo
Finita la relazione sadomaso con Bper, si è aperta la stagione dei rendiconti. Mazzotta, Vitale si sono affrettati a dichiarare che loro rispondono solo all'assemblea che li ha eletti. Gli avversari-maggioranza cercano il chiavistello giuridico che li costringa ad andarsene. La banca si appresta a trascorrere una fresca estate di marasma strategico.
Il bipartitismo cialtrone
Berlusconi, capo dell'opposizione, ha dichiarato che quando il capo del governo Prodi parla dice stronzate. Prodi ha replicato che Berlusconi è agitato perché ha poco da vivere.
Giganti della politica, maestri dell'umanesimo del terzo millennio.
Giganti della politica, maestri dell'umanesimo del terzo millennio.
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