Più o meno cinquantanni indietro, le porte disegnavano i confini di Milano-città.
Oltre erano sobborghi come la Bovisa o Città Studi, o addirittura paesi autonomi come Lambrate, Niguarda, Musocco.
Uno, prima di essere milanese, era di una porta.
Io sono nato e vissuto sino all'età del matrimonio a Porta Vittoria. I miei confini naturali erano il centro, Porta Romana, Monforte. L'Idroscalo era un'entità astratta oltre i tre ponti di Viale Corsica.
Altrove si andava solo per trovare i parenti nelle feste comandate. Mi ricordo che quando una zia materna si trasferì da Via Moriggi ad un nuovo quartiere sul Fulvio Testi, vicino alla fabbrica del marito alla Bicocca, ne pianse per mesi. Cosa ho fatto di male per abbandonare Milano, diceva a mia madre durante le frequenti telefonate.
Avevo un altro pro-zio che abitava alla Baia del Re, in Via Neera. Allora un quartiere dell'estrema periferia, circondato da orti e campetti di calcio.
Avevano edificato case popolari per gli operai della Stipel, dove costui lavorava.
Andarci costava un'intera domenica, e comportava due tram ed un buon tratto a piedi. Era come un paesone e si parlava un meneghino diverso. Un po' arioso, diceva mia madre.
Se ci ripassate oggi è tutto come allora, ad eccezione del dialetto: il terron-maghrebino dei commerci in droga che si svolgono alla luce del sole, delle scritte sulle mura delle case, brutte come allora ma senza quella pulita dignità dei quartieri poveri della Milano Anni Cinquanta.
Io vivevo, come detto, a Porta Vittoria in Via Piceno, nell'area del vecchio ortomercato.
Una specie di Halles di provincia, invasa da carrettini a trazione elettrica per il trasporto delle merci, vociante e rumorosa sin dalle sei del mattino, l'ora del risveglio inesorabile e delle prime saracche di mio padre, prima che una napoletana di caffè non lo riconciliasse con l'ineluttabile realtà di una nuova giornata lavorativa.
L'orto era talmente condizionante che, a mia memoria, non ho mai visto mio padre uscire di casa per l'ufficio dopo le 7. Nei non rari momenti di litigio, mia madre gli rinfacciava di andare in banca, in Via Mazzini, a "sollevare le saracinesche". Sta di fatto che alle 7, io e mio fratello eravamo pronti per andare a scuola e mia madre era già alle prese con i lavori di casa.
Dove abitavo era brutto e caotico. Inoltre, a differenza di altre porte, era infestato - come dicevano i miei - da commercianti di frutta e verdura che venivano dal sud e qui si mettevano in pensione o, i più fortunati, si compravano casa. Spesso si facevano una seconda famiglia, come d'abitudine per tutti gli emigranti.
Almeno tre volte, per quanto ricordo, questi nodi familiari vennero risolti a pistolettate.
Ho ancora vivido nella memoria un pomeriggio estivo torrido, io sul balcone a giocare e cinque colpi secchi, in sequenza, in fondo alla strada. In casa non si amava commentare davanti ai bambini questi fattacci, ma il mazzo di fiori deposto contro un fusto del terrapieno di Viale Piceno mi chiarì di non avere udito un gioco di petardi ma vissuto le sequenze di un omicidio.
Questa era la mia Porta Vittoria che, cento metri più in là , verso il centro, diventava in Corso XXII Marzo un quartiere persino bello, alberato ai lati, con una profonda prospettiva sull'obelisco delle Cinque Giornate. Lì finiva la porta e cominciava il Corso di Porta Vittoria che ormai era centro, con i moderni e lussuosi palazzi che stavano sostituendo i disastri dei bombardamenti.
Da casa mia al Duomo si poteva arrivare a piedi in venti minuti; leggendo il giornale, in trenta minuti con una consumata tecnica dell'alternativo scrutamento del marciapiedi e lettura di un pezzo di articolo. Il quotidiano, il Corriere, me lo compravo con i soldi del tram risparmiati andando a piedi.
Non ho particolarmente amato il mio quartiere. L'eterogeneità della popolazione non favoriva le amicizie, né, per la verità, la mia famiglia era portata a un'intensa vita sociale. Ma ai miei genitori - come lo capisco ora - le sue vie, i negozi, la vicinanza con il centro dovevano essere entrati nel sangue perché lì vissero l'intera loro vita senza mai sentire lo stimolo di andarsene verso i quartieri di periferia. Cambiarono, tutti insieme, tre appartamenti, ma con l'arco di un compasso la diagonale che li congiungeva non avrebbe superato i cento metri.
09 luglio 2007
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1 commento:
Caro Danielone,
eccomi tornato. Dopo qualche giorno in collina la bella sorpresa. Si parla della "nostra" Milano.
Milano, 1943, 1953, 1955 dalla nascita sino ad allora in pieno centro. Via Broletto 36, con il 34 ed il 32 un unico ingresso poi, lungo il corridoio, la triplice riparizione, come la Santissima Trinità.
La mia famiglia al terzo piano, per vicini una signora sola, vedova, già molto anziana, amante dei gatti. Sopra di noi una sarta, anche modista, di una certa notorietà. Vicino a Lei una famiglia toccata dal dramma(padre madre e due figli: Sergio, della mia età, e Luciana, più piccola). Il cognato della signora voleva la moto, ma non aveva i soldi. Una mattina va a chiedere i denari alla cognata. Niente soldi, la famiglia è povera e Lui, raccolta l'accetta per tagliare la legna per la stufa uccide la mamma dei suoi due nipoti e se ne va.
Quel giorno, fuori dalla scuola elementare di via Palermo, mia mamma come al solito m'aspetta, ma viso dolorante, riaccompagna a casa anche Sergio e Luciana che stanno con noi sino a sera inoltrata quando il loro padre, sbrigate in questura tristi formalità, viene a riprendersi i figli ancora all'oscuro di tutto.
L'arresto avviene il giorno dopo. Il marito, angosciato per la perdita della moglie e vergognandosi perché ad uccidere è stato Suo fratello, presenta le dimissioni al datore di lavoro (erano altri tempi)che le rifiuta (erano proprio altri tempi).
Poi la vita è ripresa e di quei compagni di gioco (avevo allora circa 7 anni)non so più nulla.
Questo il racconto di un dramma visto con occhi di bimbo e ricordi da ultrasessantenne. Vividi e colorati come allora.
Se Ti farà piacere e mi darai altro spazio, prossimamente ricorderò anche cose liete. Stasera non son più in vena.
Con affetto.
banzai43
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