Nei prossimi giorni, ne potete star certi, assisteremo a un penoso spettacolo di recriminazioni reciproche: la colpa è di Mastella, la colpa è di Veltroni, la colpa è di Prodi, la colpa è del Vaticano... Magari capiterà anche a me di ripetere una tesi che ho sostenuto per oltre un anno: il risultato più importante del governo Prodi è stato di rendere più probabile, molto più probabile, il ritorno di Berlusconi. Qualcuno lo considererà un merito, personalmente la considero una grave responsabilità che, con la sua perenne litigiosità, si è assunto l’intero gruppo dirigente della sinistra. C’è però anche un altro modo, più tranquillo e distaccato, di guardare agli eventi di questi giorni. Proviamo, per un attimo, a dimenticare le beghe del Palazzo e chiediamoci semplicemente: come racconteranno le vicende di questi anni gli storici di domani? Che cosa si dirà della seconda Repubblica? Azzardo una risposta. Gli storici di domani parleranno del periodo 1994-2014 come oggi noi parliamo del fascismo. In che senso? Non certo nel senso che l’Italia di oggi abbia tratti fascisti, ma nel senso che entrambi saranno visti come due periodi storici piuttosto lunghi, piuttosto omogenei, e dominati da una figura politica centrale, Mussolini nel ventennio fascista, Berlusconi in quello - appunto - berlusconiano. Parlo di ventennio berlusconiano perché, in qualsiasi modo evolva la crisi di questi giorni, è estremamente probabile che le prossime elezioni le vinca il centro-destra e che Berlusconi resti al centro della scena fino al 2014 (o al 2020, se nel 2013 riuscirà a coronare il sogno di diventare Presidente della Repubblica). Lo storico di domani sarà meno accecato dall’amore e dall’odio di quanto lo siamo noi oggi, e quindi riuscirà a vedere le cose freddamente. Naturalmente ci saranno gli storici di sinistra, che giudicheranno negativamente «il ventennio», e ci saranno gli storici di destra, che lo giudicheranno positivamente. Ma quel che entrambi si chiederanno è: perché? Perché la sinistra è uscita sconfitta da Tangentopoli e dalla crisi della prima Repubblica (1994)? Perché è stata sconfitta di nuovo nel 2001 e nel 2008? Perché per vent’anni è stata succube, come ipnotizzata, dalla figura del Cavaliere? Su questo, sulle cause del ventennio berlusconiano, credo che gli storici di domani saranno meno divisi che sul giudizio politico verso il ventennio. Gli storici di domani spiegheranno che l’Italia entrò a capofitto nel ventennio berlusconiano perché la classe dirigente della sinistra uscita dalla Resistenza, specie nella sua componente egemone (quella comunista) era afflitta da una grave malattia, poi rivelatasi incurabile: la pigrizia mentale. Nel 1956 i carri armati sovietici avevano invaso l’Ungheria, ma la stragrande maggioranza dei dirigenti del Pci (compreso l'attuale Presidente della Repubblica) non aveva battuto ciglio. Tre anni dopo, a Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca abbracciava definitivamente il riformismo, e pochi anni dopo andava al governo, nel primo esperimento di Grosse Koalition (1966-1969). Per tutta reazione, qui da noi l’aggettivo «socialdemocratico» acquistava sempre più il sapore di un insulto, condito di disprezzo e supponenza. Nel 1968 i carri armati sovietici invadevano Praga, nel 1981 la medesima minaccia dei carri armati veniva rivolta alla Polonia (provocando il «colpo di stato patriottico» del generale Jaruzelski), nel 1989 cadeva il muro di Berlino. Nonostante tutto questo, occorrerà attendere altri due anni perché, nel 1991, un dirigente comunista tenti finalmente una timida svolta (la «Bolognina» di Achille Occhetto), con il risultato di spaccare il partito e determinare una dolorosa scissione a sinistra, del resto pienamente comprensibile (come si poteva pretendere che i militanti accettassero la socialdemocratizzazione del partito, se fino al giorno prima l’aggettivo socialdemocratico veniva usato come un insulto?). Poi arriva la sconfitta del 1994, l’idea dell’Ulivo, la rivincita del 1996 (primo governo Prodi), il suicidio del 1998 (Bertinotti che, dopo appena due anni, fa cadere il primo governo di sinistra della storia repubblicana). Ce ne sarebbe abbastanza per far capire anche al più lento bradipo del mondo che è giunto il momento di accelerare il passo. E invece no, i dirigenti della sinistra impiegano altri dieci anni per costruire il Partito democratico, senza rendersi conto che nel 1998 (quando cade il primo governo Prodi) erano già indietro di quarant’anni. Naturalmente gli storici si chiederanno anche perché tanta lentezza, o pigrizia mentale come preferisco dire io. Non so quale sia la loro risposta, ma la mia è semplice (e so già che qualcuno dirà che è semplicistica). Per poter restare fedele al mito del socialismo sovietico, la cultura comunista ha dovuto sviluppare una straordinaria capacità di ignorare i fatti, distorcere le informazioni, manipolare le coscienze. E ci è riuscita così bene che quella capacità è sopravvissuta alle ragioni che l’avevano prodotta. Quando Berlusconi è apparso sulla scena, i dirigenti della sinistra non hanno pensato che era giunto il momento di aggiornare la loro analisi della società italiana e accelerare la costruzione di una forza genuinamente riformista, ma hanno trovato più naturale usare quella loro straordinaria capacità di manipolazione per combattere Berlusconi, senza rendersi conto che così allontanavano - anziché avvicinarlo - il momento di costruire una sinistra moderna, in grado di parlare chiaro e fare scelte coraggiose. È così che la meteora Berlusconi, da semplice passaggio della storia italiana, è divenuto il marchio di un’era. Visto con gli occhi di domani, il limite di Veltroni non è di aver «diviso la sinistra». Il limite di Veltroni, di D’Alema, di Fassino, di Rutelli è di aver aspettato troppo a lungo. Il Pd è nato nel 2007, mezzo secolo dopo Bad Godesberg, ma ancora adesso non ha trovato il coraggio di spiegare agli italiani che cosa vuole esattamente. E a fronte di un ritardo di mezzo secolo, vent’anni di Berlusconi sono una punizione fin troppo lieve.
di Luca Ricolfi, su La Stampa
È persino patetico il tentativo della sinistra radicale di considerare il berlusconismo un accidente della storia generato dalle cattive azioni della classe politica comunista. Prescindendo dalle analisi sui ritardi di autocoscienza democratica del vecchio PCI, poi PDS, poi Ulivo, poi PD, cui il paese non ha assistito come nel salotto della contessa Crespi o degli Agnelli, ma pagando tributi pesanti di sangue, di arretramento delle libertà, di disfacimento del tessuto connettivo della scuola, della magistratura, del sindacato, quello che questi critici non riescono a comprendere è che la storia repubblicana dell'Italia è fors'anche connessa a quella della sinistra comunista ma che al centro delle nostre vicende ci sono stati altri in termini propositivi e positivi. Ci sono stati i De Gasperi, gli Scelba, i Fanfani, i Moro e cioè complessivamente la Democrazia Cristiana sino agli anni '70 e poi i Nenni ed i Craxi quali esponenti del socialismo riformista, che assieme alla declinante DC assicurarono il governo del paese. Dopo vi è Tangentopoli, cioè il tentativo comunista di conquistare il potere per via giudiziaria, facendo assolvere i compagni e trasformando in macerie il sistema delle alleanze che aveva guidato il paese per decenni.
Se da quel sisma spunta un Berlusconi e non Ochetto è semplicemente perché una larga e maggioritaria parte del paese è moderata. Se Berlusconi sopravvive ai guai giudiziari enfatizzati dal pool del tribunale di Milano è perché dall'altra parte ci sono gli gnomi, gli Scalfaro, i D'alema, i Prodi, i Veltroni, i Fassino: tutti incapaci di costruire una piattaforma di sinistra riformista in cui la maggioranza del paese possa fiduciosamente riconoscersi. Queste sono le radici del nuovo ventennio, a mio parere, e queste le ragioni per cui, ne sono fermamente convinto, passato Berlusconi il paese continuerà ad essere maggioritariamente moderato, così come sostanzialmente succede in tutte le democrazie occidentali.
27 gennaio 2008
26 gennaio 2008
La parabola del prodismo
Nonostante nella giornata di ieri Romano Prodi si sia mostrato assai accondiscendente nei confronti di Walter Veltroni è illusorio credere che ora, dopo la caduta, il «prodismo» sia destinato a una immediata scomparsa, ad andarsene subito, in silenzio. È stato troppo importante per la sinistra italiana: verosimilmente, la sua uscita di scena sarà lenta, accompagnata da potenti colpi di coda.
Che cosa è stato il prodismo? E, prima ancora, è legittimo parlare di prodismo? È legittimo perché, come altri «ismi» importanti della nostra storia (dal degasperismo al berlinguerismo, dal craxismo al berlusconismo), quel termine designa non solo l'avventura personale di un leader e di un gruppo di uomini a lui fedeli ma anche una cultura politica: Prodi e i suoi, quando inventarono l'Ulivo, proposero al Paese un'idea di società e un progetto per il futuro le cui coordinate culturali affondavano in una certa tradizione del cattolicesimo politico.
Politicamente, il prodismo è stato il frutto di una anomalia altrettanto radicale di quella che ha caratterizzato la storia del centrodestra, l'una e l'altra figlie del caos e della destrutturazione partitica seguiti al crollo della Prima Repubblica. All'anomalia dell'imprenditore che fonda un partito, «inventa» il centrodestra e ne diventa capo inamovibile ha fatto da pendant, a sinistra, l'anomalia di un uomo privo di una propria base partitica di potere che, nonostante ciò, per ben due volte, nel 1996 e nel 2006, viene scelto dalla sinistra come candidato premier.
Quell'anomalia si spiega con il fatto che gli ex comunisti identificarono in Prodi, per le sue personali caratteristiche politico-culturali, la sua storia passata e le sue relazioni presenti, l'uomo che avrebbe potuto traghettarli verso la Terra Promessa, là dove il peccato originale sarebbe stato mondato, là dove gli «ex» sarebbero diventati, prima o poi, dei «post». Nel '96, Prodi era perfetto per il ruolo. Veniva dalla sinistra democristiana, da un mondo che aveva sempre dialogato col Pci e ne aveva condiviso i nemici (l'alleanza contro Craxi fu la progenitrice della successiva alleanza contro Berlusconi). In più, la sua fama di tecnocrate, la dote di relazioni con il business e con la finanza di cui disponeva e la sua concretezza padana promettevano di dare alla sinistra quel valore aggiunto di «modernità» di cui essa aveva allora disperatamente bisogno.
C'è una differenza fondamentale fra il Prodi che affronta le elezioni del 1996 e poi governa per due anni e il Prodi dal 2006 ad oggi. È quella che corre fra un fenomeno politico nella fase iniziale, ascendente, e lo stesso fenomeno colto nel momento discendente della sua parabola.
Nel 1996 Prodi suscitò grandi attese nel «popolo di sinistra». Suscitò, per esempio, l'entusiasmo di tanti intellettuali (molti dei quali, già fiancheggiatori del Pci, si trovarono a proprio agio con un uomo della sinistra cattolica, per giunta professore, ossia uno di loro). Inoltre, più e meglio degli ex comunisti, egli sembrava in grado, usando le corde del cattolicesimo sociale, di «far ragionare» anche la sinistra estrema. Promise l'Europa, il mercato, l'equità sociale, la normalità democratica.
Mise in piedi una coalizione che non era solo «contro» (Berlusconi) ma che aveva anche qualche idea sul che fare per l'Italia. I suoi due anni di governo furono dominati dall'esigenza del rigore (Ciampi, al Tesoro, fu il suo alter ego) e dalla ricerca, coronata da successo, dell'ingresso nell'euro. Poi l'uomo «senza partito» venne messo da parte, tradito dalla sinistra estrema ma anche dal fatto che gli «ex» pensarono (sbagliando) di poterne ormai fare a meno. Richiamato in servizio nel 2006 (per le stesse ragioni per cui era stato incoronato dieci anni prima) si è trovato ad operare in tutt'altre condizioni. Era ormai diverso lui ed erano diversi i tempi. Nel 2006 la coalizione messa in piedi è stata, a differenza del '96, solo un'accozzaglia eterogenea creata per battere Berlusconi. La nuova legge elettorale ha avuto le sue colpe ma è falso che tutte le colpe siano della legge elettorale. Arrivato fortunosamente al governo, Prodi si è trovato privo di una «missione» e, per giunta, a capo dell'esecutivo più spostato a sinistra dell'intera storia repubblicana. Era rimasta solo, del tempo che fu, l'aspirazione al rigore (con Padoa-Schioppa al posto di Ciampi), bilanciata, però, dalla forza del «partito della spesa» e dal fatto che ora Prodi, molto più che nel '96, si proponeva come il garante del rapporto fra moderati e sinistra estrema. Dietrologie a parte, è vero che l'incoronazione di Walter Veltroni a leader del Partito democratico ha dato al prodismo la botta definitiva. A differenza di D'Alema (l'ultimo dei togliattiani), Veltroni è davvero un «post», uno che si è lasciato alle spalle il passato. La sua affermazione come leader ha reso superflui Prodi e il prodismo. Per un paradosso storico i prodiani furono i primi a volere il Partito democratico ma la sua nascita ha segnato l'inizio della loro fine politica. È tutto qui il nodo della ormai famosa «vocazione maggioritaria». Nella visione che era stata dei prodiani il Partito democratico doveva essere il baricentro di una più larga Unione nella quale far convivere la sinistra estrema e quella moderata. Nella visione di un «post» senza complessi come Veltroni il Partito democratico deve diventare adulto camminando sulle proprie gambe. Non è che quella dei prodiani sia una visione «maggioritaria» e bipolare e quella di Veltroni no. Sono due modi diversi di declinare l'idea maggioritaria. Solo che in quella di Veltroni non c'è più posto per i mediatori fra sinistra moderata e sinistra estrema. Al di là delle apparenze odierne la partita non è finita e Prodi non è uno che si fa mettere da parte. Chi scommette sul fatto che le tensioni interne al Partito democratico diventeranno fortissime scommette sul sicuro.
di Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera
Mi sembra un'analisi felicissima di un fenomeno politico e di costume che ha condizionato l'Italia per 13 anni. Quando si esaurirà anche il berlusconismo (ma sono convinto che la sinistra se lo dovrà sopportare ancora qualche anno con l'abituale corredo di scioperi, azioni giudiziarie, santori e travagli, alleati malpancisti) per la politica italiana si aprirà finalmente una fase nuova.
Che cosa è stato il prodismo? E, prima ancora, è legittimo parlare di prodismo? È legittimo perché, come altri «ismi» importanti della nostra storia (dal degasperismo al berlinguerismo, dal craxismo al berlusconismo), quel termine designa non solo l'avventura personale di un leader e di un gruppo di uomini a lui fedeli ma anche una cultura politica: Prodi e i suoi, quando inventarono l'Ulivo, proposero al Paese un'idea di società e un progetto per il futuro le cui coordinate culturali affondavano in una certa tradizione del cattolicesimo politico.
Politicamente, il prodismo è stato il frutto di una anomalia altrettanto radicale di quella che ha caratterizzato la storia del centrodestra, l'una e l'altra figlie del caos e della destrutturazione partitica seguiti al crollo della Prima Repubblica. All'anomalia dell'imprenditore che fonda un partito, «inventa» il centrodestra e ne diventa capo inamovibile ha fatto da pendant, a sinistra, l'anomalia di un uomo privo di una propria base partitica di potere che, nonostante ciò, per ben due volte, nel 1996 e nel 2006, viene scelto dalla sinistra come candidato premier.
Quell'anomalia si spiega con il fatto che gli ex comunisti identificarono in Prodi, per le sue personali caratteristiche politico-culturali, la sua storia passata e le sue relazioni presenti, l'uomo che avrebbe potuto traghettarli verso la Terra Promessa, là dove il peccato originale sarebbe stato mondato, là dove gli «ex» sarebbero diventati, prima o poi, dei «post». Nel '96, Prodi era perfetto per il ruolo. Veniva dalla sinistra democristiana, da un mondo che aveva sempre dialogato col Pci e ne aveva condiviso i nemici (l'alleanza contro Craxi fu la progenitrice della successiva alleanza contro Berlusconi). In più, la sua fama di tecnocrate, la dote di relazioni con il business e con la finanza di cui disponeva e la sua concretezza padana promettevano di dare alla sinistra quel valore aggiunto di «modernità» di cui essa aveva allora disperatamente bisogno.
C'è una differenza fondamentale fra il Prodi che affronta le elezioni del 1996 e poi governa per due anni e il Prodi dal 2006 ad oggi. È quella che corre fra un fenomeno politico nella fase iniziale, ascendente, e lo stesso fenomeno colto nel momento discendente della sua parabola.
Nel 1996 Prodi suscitò grandi attese nel «popolo di sinistra». Suscitò, per esempio, l'entusiasmo di tanti intellettuali (molti dei quali, già fiancheggiatori del Pci, si trovarono a proprio agio con un uomo della sinistra cattolica, per giunta professore, ossia uno di loro). Inoltre, più e meglio degli ex comunisti, egli sembrava in grado, usando le corde del cattolicesimo sociale, di «far ragionare» anche la sinistra estrema. Promise l'Europa, il mercato, l'equità sociale, la normalità democratica.
Mise in piedi una coalizione che non era solo «contro» (Berlusconi) ma che aveva anche qualche idea sul che fare per l'Italia. I suoi due anni di governo furono dominati dall'esigenza del rigore (Ciampi, al Tesoro, fu il suo alter ego) e dalla ricerca, coronata da successo, dell'ingresso nell'euro. Poi l'uomo «senza partito» venne messo da parte, tradito dalla sinistra estrema ma anche dal fatto che gli «ex» pensarono (sbagliando) di poterne ormai fare a meno. Richiamato in servizio nel 2006 (per le stesse ragioni per cui era stato incoronato dieci anni prima) si è trovato ad operare in tutt'altre condizioni. Era ormai diverso lui ed erano diversi i tempi. Nel 2006 la coalizione messa in piedi è stata, a differenza del '96, solo un'accozzaglia eterogenea creata per battere Berlusconi. La nuova legge elettorale ha avuto le sue colpe ma è falso che tutte le colpe siano della legge elettorale. Arrivato fortunosamente al governo, Prodi si è trovato privo di una «missione» e, per giunta, a capo dell'esecutivo più spostato a sinistra dell'intera storia repubblicana. Era rimasta solo, del tempo che fu, l'aspirazione al rigore (con Padoa-Schioppa al posto di Ciampi), bilanciata, però, dalla forza del «partito della spesa» e dal fatto che ora Prodi, molto più che nel '96, si proponeva come il garante del rapporto fra moderati e sinistra estrema. Dietrologie a parte, è vero che l'incoronazione di Walter Veltroni a leader del Partito democratico ha dato al prodismo la botta definitiva. A differenza di D'Alema (l'ultimo dei togliattiani), Veltroni è davvero un «post», uno che si è lasciato alle spalle il passato. La sua affermazione come leader ha reso superflui Prodi e il prodismo. Per un paradosso storico i prodiani furono i primi a volere il Partito democratico ma la sua nascita ha segnato l'inizio della loro fine politica. È tutto qui il nodo della ormai famosa «vocazione maggioritaria». Nella visione che era stata dei prodiani il Partito democratico doveva essere il baricentro di una più larga Unione nella quale far convivere la sinistra estrema e quella moderata. Nella visione di un «post» senza complessi come Veltroni il Partito democratico deve diventare adulto camminando sulle proprie gambe. Non è che quella dei prodiani sia una visione «maggioritaria» e bipolare e quella di Veltroni no. Sono due modi diversi di declinare l'idea maggioritaria. Solo che in quella di Veltroni non c'è più posto per i mediatori fra sinistra moderata e sinistra estrema. Al di là delle apparenze odierne la partita non è finita e Prodi non è uno che si fa mettere da parte. Chi scommette sul fatto che le tensioni interne al Partito democratico diventeranno fortissime scommette sul sicuro.
di Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera
Mi sembra un'analisi felicissima di un fenomeno politico e di costume che ha condizionato l'Italia per 13 anni. Quando si esaurirà anche il berlusconismo (ma sono convinto che la sinistra se lo dovrà sopportare ancora qualche anno con l'abituale corredo di scioperi, azioni giudiziarie, santori e travagli, alleati malpancisti) per la politica italiana si aprirà finalmente una fase nuova.
25 gennaio 2008
C'era il governo Prodi
Questo è un fatto oggettivo. Il governo è caduto al Senato per mano della propria maggioranza, per l'appagamento di un italiano all'estero, per le astuzie luciferine di uno dei Padri della Patria. Uno dei politici peggiori e più spocchiosi della storia repubblicana si ferma. Spero non sia solo per un giro.
L'immediato domani è incerto per le lacerazioni della maggioranza unicamerale e per le divaricazioni tattiche dei maggiori partiti. L'ultimo rumor in ordine di tempo parla di un governo tecnico proposta dal PD, a guida Gianni Letta, per fare la riforma elettorale. Se vero, è la conferma che l'asse Veltroni-Berlusconi resiste e che andremo a votare nella primavera del 2009 al compimento della mezza legislatura (scatto della pensione per i neonominati).
Questa è la nostra classe politica, ispirata da profonde pulsioni morali. Ne abbiamo avuto conferma assistendo sul Canale 824 a tutto il dibattito senatoriale. Tra dotte citazioni latine, richiami a Gramsci, alla Costituzione sacra ed inviolabile, al Popolo sovrano, con sovrappiù di una appassionata lettura di una poesia di Pablo Neruda e di un ardito confronto del discorso di Romano con quello crepuscolare al Lirico di Benito nel 1944, il tutto condito da insulti, sputi, schiamazzi e bottiglioni di spumante pronti per il botto, si è giocata la battaglia senza esclusione di colpi per l'acquisto dei voti che stavano sul crinale del quorum. Tutte le armi sono state usate, dalla stantia assunzione del segretario particolare del senatore dell'Udeur alle promesse di radiosi domani nei nuovi governi. Uno spettacolo inverecondo, stupendamente sintetizzato dal Maestro Mario Cervi: «Alcuni esponenti della politica somigliano a quel principe di casa Savoia che non finiva mai una guerra dalla stessa parte in cui l'aveva cominciata, e se finiva dalla stessa parte voleva dire che aveva cambiato casacca due volte».
Per costoro saremo chiamati all'ennesima elezione.
L'orizzonte è color pece.
L'immediato domani è incerto per le lacerazioni della maggioranza unicamerale e per le divaricazioni tattiche dei maggiori partiti. L'ultimo rumor in ordine di tempo parla di un governo tecnico proposta dal PD, a guida Gianni Letta, per fare la riforma elettorale. Se vero, è la conferma che l'asse Veltroni-Berlusconi resiste e che andremo a votare nella primavera del 2009 al compimento della mezza legislatura (scatto della pensione per i neonominati).
Questa è la nostra classe politica, ispirata da profonde pulsioni morali. Ne abbiamo avuto conferma assistendo sul Canale 824 a tutto il dibattito senatoriale. Tra dotte citazioni latine, richiami a Gramsci, alla Costituzione sacra ed inviolabile, al Popolo sovrano, con sovrappiù di una appassionata lettura di una poesia di Pablo Neruda e di un ardito confronto del discorso di Romano con quello crepuscolare al Lirico di Benito nel 1944, il tutto condito da insulti, sputi, schiamazzi e bottiglioni di spumante pronti per il botto, si è giocata la battaglia senza esclusione di colpi per l'acquisto dei voti che stavano sul crinale del quorum. Tutte le armi sono state usate, dalla stantia assunzione del segretario particolare del senatore dell'Udeur alle promesse di radiosi domani nei nuovi governi. Uno spettacolo inverecondo, stupendamente sintetizzato dal Maestro Mario Cervi: «Alcuni esponenti della politica somigliano a quel principe di casa Savoia che non finiva mai una guerra dalla stessa parte in cui l'aveva cominciata, e se finiva dalla stessa parte voleva dire che aveva cambiato casacca due volte».
Per costoro saremo chiamati all'ennesima elezione.
L'orizzonte è color pece.
23 gennaio 2008
21 gennaio 2008
La repubblica dei pirla
Oggi guardavo le fiancate della "Celeste", che è la nostra auto di servizio (quella che pernotta in strada) e il reticolo di sfregi da punteruolo, chiave, e altri oggetti contundenti sulle fiancate. Mi sono convinto che la massima americana di marketing "member get member" è profondamente vera. Trova un pirla che ti sfregia la macchina, ed il richiamo per la comunità dei pirla ad imitarlo è assicurato. In queste intraprese, l'Italiano è l'essere più consociativo del mondo. Basta guardare i muri, i vetri dei tram, i treni, le manifestazioni ed i cortei. In estrema sintesi, un paese di pirla!
17 gennaio 2008
Campania chiama Italia
Malaticcio e nullafacente, ho assistito a tutta la conferenza stampa del Sen. Clemente Mastella, Ministro Guardasigilli dimissionario e dimissionato da un provvedimento giudiziario.
Quaranta minuti di un fluviale monologo, durante il quale si è dipanata una sorta di sceneggiata napoletana autocelebrativa, ora suadente ora minacciosa, con accenni di finta commozione per la sorte della moglie che è agli arresti domiciliari non perché ha fatto impazzire la maionese ma perché, come presidente della regione Campania, ha serenamente comunicato ad un traditore del partito che poteva considerarsi «un uomo morto». Non sono mancati gli excursus sulla sua benemerita carriera politica, i geniali provvedimenti adottati come ministro, le minacce al magistrato che ha firmato le ordinanze di carcerazione alla consorte ed a mezzo partito dell'Udeur in Campania, e la promessa che appena finito di confortare la moglie tornerà a fare politica più forte che pria.
Un piccolo gioiello, una rappresentazione assolutamente geniale del politicante italiano, ché dire meridionale sarebbe ingeneroso verso l'eguale creatività dei colleghi del Nord.
Se uno straniero desideroso di capire le storture della politica italiana volesse un esempio pratico, gli si potrebbe fornire la cassetta dell'evento. Se un sociologo volesse spiegare perché gli italiani diffidano della politica potrebbe, invece di intervistare i professionisti dei sondaggi, fare l'analisi logica e grammaticale dell'eloquio mastelliano.
Se qualcuno volesse arditamente capire perché la giustizia funziona come la politica nel bel paese, potrebbe analizzarsi l'altra emblematica cassetta della conferenza stampa del Procuratore capo di Santa Maria Capua a Vetere, di colui cioè che ha spiccato i mandati contro i Mastella e gli amici.
Eloquio dialettale, sincretismi, autoritarismo minaccioso, piglio di chi, a quindici giorni dalla pensione, sa di potere tenere in balìa anche il ministro suo superiore gerarchico.
Perché la legge è eguale per tutti, conclude il magistrato all'indirizzo del Mastella e dei giornalisti vocianti.
Sono orgoglioso di essere nato in Italia.
Quaranta minuti di un fluviale monologo, durante il quale si è dipanata una sorta di sceneggiata napoletana autocelebrativa, ora suadente ora minacciosa, con accenni di finta commozione per la sorte della moglie che è agli arresti domiciliari non perché ha fatto impazzire la maionese ma perché, come presidente della regione Campania, ha serenamente comunicato ad un traditore del partito che poteva considerarsi «un uomo morto». Non sono mancati gli excursus sulla sua benemerita carriera politica, i geniali provvedimenti adottati come ministro, le minacce al magistrato che ha firmato le ordinanze di carcerazione alla consorte ed a mezzo partito dell'Udeur in Campania, e la promessa che appena finito di confortare la moglie tornerà a fare politica più forte che pria.
Un piccolo gioiello, una rappresentazione assolutamente geniale del politicante italiano, ché dire meridionale sarebbe ingeneroso verso l'eguale creatività dei colleghi del Nord.
Se uno straniero desideroso di capire le storture della politica italiana volesse un esempio pratico, gli si potrebbe fornire la cassetta dell'evento. Se un sociologo volesse spiegare perché gli italiani diffidano della politica potrebbe, invece di intervistare i professionisti dei sondaggi, fare l'analisi logica e grammaticale dell'eloquio mastelliano.
Se qualcuno volesse arditamente capire perché la giustizia funziona come la politica nel bel paese, potrebbe analizzarsi l'altra emblematica cassetta della conferenza stampa del Procuratore capo di Santa Maria Capua a Vetere, di colui cioè che ha spiccato i mandati contro i Mastella e gli amici.
Eloquio dialettale, sincretismi, autoritarismo minaccioso, piglio di chi, a quindici giorni dalla pensione, sa di potere tenere in balìa anche il ministro suo superiore gerarchico.
Perché la legge è eguale per tutti, conclude il magistrato all'indirizzo del Mastella e dei giornalisti vocianti.
Sono orgoglioso di essere nato in Italia.
Deserto
Ho soggiornato a Natale sino a fine anno sul Mar Rosso, a Sharm. Non nascondo tutta la mia diffidenza per una scelta che era di ripiego rispetto al progetto iniziale di una crociera sul Nilo.
Sono tornato con il rammarico di chi lascia un mondo diverso ed incantato e non tanto per la località marina, che ha subito le violenze dell'edilizia turistica di massa, e meno ancora per l'invadente e sgradevole presenza assolutamente maggioritaria di compatrioti casinari, vocianti, attaccabrighe, con prole numerosa come solo si vedeva ai tempi del Testone. Non per questo, ma per la magica esperienza nel deserto del Sinai fra i beduini, o verso il monastero di Santa Caterina. Un mondo pietrificato, in cui il senso dell'immenso si disegna sugli sfondi montagnosi, nell'infinito del cielo color cobalto non ingombrato da alcun filamento di nubi, nello scenario della volta notturna affollata di stelle e costellazioni ignote, e con la mezza luna rovesciata rispetto alle nostre latitudini. Poi, allontanandosi di soli pochi metri dai compagni di escursione, il silenzio inquietante che ti accompagnerebbe inesorabile se tu fossi pellegrino come qualche ramingo perduto.
Questo mondo ti entra nella mente e risveglia arcaiche memorie o future angosce, quei colori netti senza sfumature sembrano appartenere ad un dopo che dovremo percorrere in solitudine, nella speranza di trovare, oltre il profilo lontano delle pietraie, l'oasi dell'eterno.
Sono tornato con il rammarico di chi lascia un mondo diverso ed incantato e non tanto per la località marina, che ha subito le violenze dell'edilizia turistica di massa, e meno ancora per l'invadente e sgradevole presenza assolutamente maggioritaria di compatrioti casinari, vocianti, attaccabrighe, con prole numerosa come solo si vedeva ai tempi del Testone. Non per questo, ma per la magica esperienza nel deserto del Sinai fra i beduini, o verso il monastero di Santa Caterina. Un mondo pietrificato, in cui il senso dell'immenso si disegna sugli sfondi montagnosi, nell'infinito del cielo color cobalto non ingombrato da alcun filamento di nubi, nello scenario della volta notturna affollata di stelle e costellazioni ignote, e con la mezza luna rovesciata rispetto alle nostre latitudini. Poi, allontanandosi di soli pochi metri dai compagni di escursione, il silenzio inquietante che ti accompagnerebbe inesorabile se tu fossi pellegrino come qualche ramingo perduto.
Questo mondo ti entra nella mente e risveglia arcaiche memorie o future angosce, quei colori netti senza sfumature sembrano appartenere ad un dopo che dovremo percorrere in solitudine, nella speranza di trovare, oltre il profilo lontano delle pietraie, l'oasi dell'eterno.
16 gennaio 2008
Patologia
All'improvviso uno sconosciuto
Le esagerazioni giornalistiche fanno parte del normale marketing cialtrone, essendo il tifoso di quelle solite cinque squadre l'architrave del sistema, ma questo non toglie che l'esordio milanista di Pato abbia portato una ventata di freschezza in una serie A già scritta: i nuovi aggettivi per l'Inter, i complimenti alla Roma, il carattere della Juve ed il Milan che risucchia Fiorentina e Udinese per il quarto posto non sembrano argomenti emozionanti come quello che si vede in campo. Pato ha impressionato per le giocate in campo (ma per Del Piero o, per non andare lontano, Gilardino, la pagella sarebbe stata "Si muove bene facendosi trovare spesso smarcato in posizione di tiro: impreciso sottoporta, il gol del cinque a due è da incorniciare: voto 6,5") e divertito per la sopresa che ha creato nella maggioranza di presunti addetti ai lavori. Ridottisi a pomparlo utilizzando golletti in allenamento (li segna anche Emerson, premio Bronzetti 2007) piuttosto che il suo straordinario valore già dimostrato nel calcio vero: dal debutto super con l'Internacional di Porto Alegre al Mondiale per club vinto da coprotagonista un anno prima... del Milan, segnando un gol (sia pure all'Al Ahly: segnatura comunque importante, che lo ha fatto diventare il più giovane marcatore nella fase finale di una competizione Fifa, oscurando il Pelé 1958 contro il Galles di John Charles) e giocando la finale, non certo clandestina, con il Barcellona. Per tacere del Sudamericano Under 20 stradominato con il suo Brasile (il capocannoniere fu però l'uruguagio-palermitano Cavani) e di giocate televiste in tutto il mondo, supportate da un fisico che alla sua età pochi campioni hanno avuto già così strutturato: insomma, ragazzino solo per l'anagrafe e perfettamente inserito nella tendenza dei grandi club europei. In sintesi: il fenomeno di fama universale viene messo sul mercato, più o meno a caro prezzo (non è quasi mai questo il problema, a un certo livello di immagine l'ingaggio si paga da solo), solo quando è in parabola discendente o umanamente diventa ingestibile, quindi diventa logico strapagare e difendere anche mediaticamente i Pato piuttosto che i Gourcuff. Come sembrano lontani i discorsi di Berlusconi sul Milan dei giovani lombardi: il più giovane, fra quelli cresciuti nel vivaio, ha 39 anni...
di Stefano Olivari, su La Settimana Sportiva
Le esagerazioni giornalistiche fanno parte del normale marketing cialtrone, essendo il tifoso di quelle solite cinque squadre l'architrave del sistema, ma questo non toglie che l'esordio milanista di Pato abbia portato una ventata di freschezza in una serie A già scritta: i nuovi aggettivi per l'Inter, i complimenti alla Roma, il carattere della Juve ed il Milan che risucchia Fiorentina e Udinese per il quarto posto non sembrano argomenti emozionanti come quello che si vede in campo. Pato ha impressionato per le giocate in campo (ma per Del Piero o, per non andare lontano, Gilardino, la pagella sarebbe stata "Si muove bene facendosi trovare spesso smarcato in posizione di tiro: impreciso sottoporta, il gol del cinque a due è da incorniciare: voto 6,5") e divertito per la sopresa che ha creato nella maggioranza di presunti addetti ai lavori. Ridottisi a pomparlo utilizzando golletti in allenamento (li segna anche Emerson, premio Bronzetti 2007) piuttosto che il suo straordinario valore già dimostrato nel calcio vero: dal debutto super con l'Internacional di Porto Alegre al Mondiale per club vinto da coprotagonista un anno prima... del Milan, segnando un gol (sia pure all'Al Ahly: segnatura comunque importante, che lo ha fatto diventare il più giovane marcatore nella fase finale di una competizione Fifa, oscurando il Pelé 1958 contro il Galles di John Charles) e giocando la finale, non certo clandestina, con il Barcellona. Per tacere del Sudamericano Under 20 stradominato con il suo Brasile (il capocannoniere fu però l'uruguagio-palermitano Cavani) e di giocate televiste in tutto il mondo, supportate da un fisico che alla sua età pochi campioni hanno avuto già così strutturato: insomma, ragazzino solo per l'anagrafe e perfettamente inserito nella tendenza dei grandi club europei. In sintesi: il fenomeno di fama universale viene messo sul mercato, più o meno a caro prezzo (non è quasi mai questo il problema, a un certo livello di immagine l'ingaggio si paga da solo), solo quando è in parabola discendente o umanamente diventa ingestibile, quindi diventa logico strapagare e difendere anche mediaticamente i Pato piuttosto che i Gourcuff. Come sembrano lontani i discorsi di Berlusconi sul Milan dei giovani lombardi: il più giovane, fra quelli cresciuti nel vivaio, ha 39 anni...
di Stefano Olivari, su La Settimana Sportiva
14 gennaio 2008
Pubblicità mendace
Non credete agli spot di Fastweb. Sono inefficienti come tutti gli altri ed anche menefreghisti con il cliente. Un guasto tecnico del 5 Novembre al modem é stato rimediato il 10 Gennaio.
Mi è mancato l'appuntamento con il mio diario elettronico e le quattro stronzate che scrivevo.
Rimedieremo da oggi per il divertimento o il tedio di pochi amici.
Buon anno a tutti!
Mi è mancato l'appuntamento con il mio diario elettronico e le quattro stronzate che scrivevo.
Rimedieremo da oggi per il divertimento o il tedio di pochi amici.
Buon anno a tutti!
Iscriviti a:
Post (Atom)