Si allunga paurosamente la fila di quelli che mi guardano dall'altra parte, coetanei o quasi.
Ieri se ne è andato Fausto Gardini, uno dei miti della mia gioventù, eroe del tennis in bianco e nero, non ancora professionistico. Quelli che ne capiscono, io no, scrivevano che aveva uno stile sgangherato, l'esatto contrario del principe Pietrangeli, tutto perfezione di geometrie e genialità.
Lui era un combattente iroso, capace di annullare al suo storico rivale italiano 8 punti decisivi e poi andare a vincersi al quinto set un campionato d'Italia.
Lo vidi dal vivo a Firenze in una Davis Italia-Russia, sentii le sue grida belluine mentre recuperava palle che solo l'atletismo dei Nadal di oggi possono consentire.
Era brutto, sgraziato, ma un guerriero come non se ne sono visti più nel tennis italiano. Dopo pochi minuti portava al parossismo il pubblico di casa, all'isteria quello avversario, meglio se era quello del centrale di Roma.
Ha lasciato il tennis una vita fa, senza chiedere medagliette federali come hanno fatto tutti gli altri, fuoriclasse e mediocri, da Pietrangeli in poi.
Di atleti come lui si è perso lo stampo, dicevano i miei vecchi.
Lievi ti siano le zolle, Fausto!
19 settembre 2008
17 settembre 2008
Questa estate ho letto (2008)
I mesi caldi, la spiaggia, il sopore del fare niente, sono notoriamente propizi alla lettura. Quest'anno ci ho dato dentro con gusto e con la fortuna di alcune ottime scelte.
Muriel Barbery: L'eleganza del riccio
In classifica da un anno, quindi mi accosto con diffidenza temendo boiate alla Moccia o alla Tamaro. Libro delizioso, commovente, scritto con simpatica raffinatezza. Un'opera veramente educativa, da tenere fra i volumi che si devono rileggere nei momenti di piattezza esistenziale.
Piero Chiara: Il verde della tua veste ed altri racconti
Per noi che amiamo il maestro di Luino è uno stupefacente reincontro questa operina inedita di racconti. Si ritrovano le atmosfere, il mondo lacustre, il dotto e brioso narratore che affascinò la mia maturità.
Cornac McCarty: Sunset Limited
Dell'autore della Strada. Un'opera breve e possente come una sinfonia. Stile narrativo ineguagliabile. La titanica lotta dialettica fra un demone ed un angelo e la sua amara conclusione.
Georges Simenon: Il Treno
C'è tutta l'abilità narrativa di S., la capacità di fare vivere trame e di impadronirsi del lettore, la triste inesorabilità del compimento del nostro destino di morte.
Sebastiano Vassalli: Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni
Lontani gli anni della Chimera e dell'invenzione narrativa, ma è sempre piacevole leggerlo anche ora che si atteggia ad ecopessimista.
Luciano de Crescenzo: Il caffè sospeso
Che dire? Anche se hai l'impressione di rileggere le stesse pagine dei primi libri è un amico che ti tiene allegro e ti fa amare questa napoletanità di pura fantasia.
Laura Fitzgerald: Colazione da Starbucks
L'iniziazione di una donna iraniana in permesso provvisorio negli Usa al mondo capitalista e la sua ricerca affannosa di un marito che la salvi dal ritorno all'inferno. La grazia dell'autrice riesce a colorare, con pungenti note sociologiche e venature di sensibiltà femminile, una storia forse un po' inverosimile e certamente un po' troppo filoamericana. Esemplare la rappresentazione della comunità persiana trapiantata negli Usa.
Geronimo: La politica del cuore
Pomicino non aggiunge molto al suo precedente libro. Immaginifica esaltazione della taumaturgica capacità di governo politico della DC, nefandezze dei magistrati di Mani Pulite, simpatia per gli alleati di allora. Ma non è mai banale e si legge con una vena di nostalgia per un'epoca della politica in cui i nanetti non erano leader ma portaborse.
Muriel Barbery: L'eleganza del riccio
In classifica da un anno, quindi mi accosto con diffidenza temendo boiate alla Moccia o alla Tamaro. Libro delizioso, commovente, scritto con simpatica raffinatezza. Un'opera veramente educativa, da tenere fra i volumi che si devono rileggere nei momenti di piattezza esistenziale.
Piero Chiara: Il verde della tua veste ed altri racconti
Per noi che amiamo il maestro di Luino è uno stupefacente reincontro questa operina inedita di racconti. Si ritrovano le atmosfere, il mondo lacustre, il dotto e brioso narratore che affascinò la mia maturità.
Cornac McCarty: Sunset Limited
Dell'autore della Strada. Un'opera breve e possente come una sinfonia. Stile narrativo ineguagliabile. La titanica lotta dialettica fra un demone ed un angelo e la sua amara conclusione.
Georges Simenon: Il Treno
C'è tutta l'abilità narrativa di S., la capacità di fare vivere trame e di impadronirsi del lettore, la triste inesorabilità del compimento del nostro destino di morte.
Sebastiano Vassalli: Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni
Lontani gli anni della Chimera e dell'invenzione narrativa, ma è sempre piacevole leggerlo anche ora che si atteggia ad ecopessimista.
Luciano de Crescenzo: Il caffè sospeso
Che dire? Anche se hai l'impressione di rileggere le stesse pagine dei primi libri è un amico che ti tiene allegro e ti fa amare questa napoletanità di pura fantasia.
Laura Fitzgerald: Colazione da Starbucks
L'iniziazione di una donna iraniana in permesso provvisorio negli Usa al mondo capitalista e la sua ricerca affannosa di un marito che la salvi dal ritorno all'inferno. La grazia dell'autrice riesce a colorare, con pungenti note sociologiche e venature di sensibiltà femminile, una storia forse un po' inverosimile e certamente un po' troppo filoamericana. Esemplare la rappresentazione della comunità persiana trapiantata negli Usa.
Geronimo: La politica del cuore
Pomicino non aggiunge molto al suo precedente libro. Immaginifica esaltazione della taumaturgica capacità di governo politico della DC, nefandezze dei magistrati di Mani Pulite, simpatia per gli alleati di allora. Ma non è mai banale e si legge con una vena di nostalgia per un'epoca della politica in cui i nanetti non erano leader ma portaborse.
Alitalia, vergogna d'Italia
Due anni fa inauguravo questo blog nel mezzo di una delle infinite crisi epocali dell'Alitalia. Allora facevo considerazioni sul livello di litigiosità, sindacale e di servizio, di questa compagnia e concludevo che gli italiani che ancora desideravano farsi del male volando Alitalia erano ostaggi di una proterva banda di facinorosi sindacalizzati. Il titolo, se non ricordo male, era meglio il fallimento che cancellasse per sempre un nome ed il ricordo di uno scempio comportamentale.
Io ovviamente non volo Alitalia da anni. L'ultima volta fu un Budapest-Milano in cui mi sentii apostrofare da una cameriera di bordo: «Aò, che vo'».
In questi giorni si sta dipanando, sotto la regia di Berlusconi e lo sguardo attonito di una decina di capitalisti sado-masochisti che sono stati indotti ad investire in questo pattume di compagnia, un teatrino di ineguagliabile comicità. Gente che porta la responsabilità materiale e morale del fallimento di fatto di Alitalia, che strepita su piani strategici che non gli aggradano, mobilità dorate, confederali che giocano gli ultimi atti di una protagonismo velenoso, cameriere di bordo che rivendicano il mantenimento di privilegi salariali inauditi sfilando per le vie di Roma, pazzarielli napoletani che fingono di bruciarsi in piazza, un ministro del lavoro che ogni ora cala le braghe sino a mostrare le impudicizie.
Il liquidatore Fantozzi, nomen omen, osserva esterrefatto e pensa che forse settimana prossima non potrà pagare la benzina avio.
Domani il circo dovrebbe finire per esaurimento delle forze.
Mi auguro che venerdì Fantozzi salga le scale del Tribunale fallimentare di Roma.
Io ovviamente non volo Alitalia da anni. L'ultima volta fu un Budapest-Milano in cui mi sentii apostrofare da una cameriera di bordo: «Aò, che vo'».
In questi giorni si sta dipanando, sotto la regia di Berlusconi e lo sguardo attonito di una decina di capitalisti sado-masochisti che sono stati indotti ad investire in questo pattume di compagnia, un teatrino di ineguagliabile comicità. Gente che porta la responsabilità materiale e morale del fallimento di fatto di Alitalia, che strepita su piani strategici che non gli aggradano, mobilità dorate, confederali che giocano gli ultimi atti di una protagonismo velenoso, cameriere di bordo che rivendicano il mantenimento di privilegi salariali inauditi sfilando per le vie di Roma, pazzarielli napoletani che fingono di bruciarsi in piazza, un ministro del lavoro che ogni ora cala le braghe sino a mostrare le impudicizie.
Il liquidatore Fantozzi, nomen omen, osserva esterrefatto e pensa che forse settimana prossima non potrà pagare la benzina avio.
Domani il circo dovrebbe finire per esaurimento delle forze.
Mi auguro che venerdì Fantozzi salga le scale del Tribunale fallimentare di Roma.
05 settembre 2008
I proprietari di una volta
Non c'è più il calcio di una volta, per non parlare dei proprietari di una volta. L'ennesimo colpo di un miliardario slegato da logiche di appartenenza, per nascita o per tifo, è importante perché questa volta non ha creato scandalo né reazioni negative. La triste verità è che chi non crede in niente si abitua a tutto: in Italia a città governate dalla criminalità organizzata e disorganizzata, ad oratori cattolici affittati per il Ramadan, all'evasione fiscale come grande risposta liberale nei confronti dello Stato oppressore, in Inghilterra non sappiamo. Torniamo a noi, anzi a loro: lo sceicco Sulamain Al-Fahim, uno degli uomini più ricchi di Abu Dhabi e quindi del mondo, ha come tutti sanno acquistato il Manchester City per circa 250 milioni di euro e si è presentato portando al popolo bue la stellina Robinho per circa 45 milioni superando anche l'offerta di Abramovich. Tutto preso dalla maggioranza con filosofia, stando a giornali e blog di tifosi che invece al suo predecessore non avevano risparmiato critiche e linciaggi mediatici. Il Berlusconi thailandese (per politica, da primo ministro, e televisioni possedute) Thaksin Shinawatra, e anche il Berlusconi vero però sono poca cosa rispetto agli interessi non solo personali rappresentati dallo sceicco, leader di un gruppo che vale più di mille miliardi euro (non abbiamo scritto male: centesimo più centesimo meno significa un decimo del PIL degli Stati Uniti ed il quintuplo di quello italiano). Dimensioni che si faticano anche solo ad immaginare, senza alcun merito dei primatisti in classifica a parte quello di nascere sopra un giacimento di petrolio (Abramovich e Berlusconi, con tutto il male che si può dire di loro, qualche capacità hanno almeno dovuto dimostrarla) , e che spiegano meglio dei nostri articoletti moraleggianti perché il calcio europeo, per non parlare dell'Europa, sia in pericolo. Ovviamente non lo capivamo quando l'uomo simbolo della nazionale brasiliana era orgoglioso di giocare in una nostra provinciale, anzi all'epoca tutto ci sembrava dovuto. Qualcuno non lo capisce nemmeno quando si vede costretto ad esaltare questa specie di NASL presuntuosa che è diventata la serie A, che fabbrica statue equestri agli scarti di Barcellona e Chelsea o a chi ha stracciato un contratto arabo solo per rischio insolvenza, venendo premiato con un ruolo da dirigente in pectore. Magari il concetto sarà più chiaro quando un fondo sovrano di uno stato canaglia comprerà, mettiamo, la Juventus. Senza arrivare agli estremi del 'vero Manchester United' che riparte dai dilettanti o a quelli del Wimbledon anti Milton Keynes, non è razzismo osservare che il calcio e chi lo dirige (per noi anche chi lo gioca) non possano essere slegati da chi lo guarda. Ognuno fa i suoi interessi, ma il rapporto dei Moratti e dei Sensi con Inter e Roma è strutturalmente diverso da quello dei Glazer con il Manchester United, di Hicks e Gillette con il Liverpool o di Gaydamak con il Portsmouth. Per non parlare dello sceicco, che da bambino di sicuro non è cresciuto con il mito di Bert Trautmann o di Mike Summerbee. Perché il calcio non è un grande sport, come contenuti tecnici ed etici, ed è spesso osceno come spettacolo. E' la vita di molte persone, però. Vita che fa schifo, ma per la quale ci hanno offerto Robinho. Vendiamo?
di Stefano Olivari, su Indiscreto
Con ricchezza di riferimenti e di argomenti, Olivari conferma una mia crepuscolare convinzione sul futuro del Milan.
Finito il boom televisivo e l'immenso indotto che si trascina, ridimensionati gli introiti ai soli spettatori, che nel frattempo sono scappati disgustati da stadi angusti e dominati da bande di teppisti, l'alternativa al fallimento saranno i fondi sovrani arabi che finanzieranno un campionato europeo stile Nba.
Si può prolungare l'agonia ma lì finirà, superprofessionalizzato, un calcio che ha smesso di essere sport da almeno vent'anni.
di Stefano Olivari, su Indiscreto
Con ricchezza di riferimenti e di argomenti, Olivari conferma una mia crepuscolare convinzione sul futuro del Milan.
Finito il boom televisivo e l'immenso indotto che si trascina, ridimensionati gli introiti ai soli spettatori, che nel frattempo sono scappati disgustati da stadi angusti e dominati da bande di teppisti, l'alternativa al fallimento saranno i fondi sovrani arabi che finanzieranno un campionato europeo stile Nba.
Si può prolungare l'agonia ma lì finirà, superprofessionalizzato, un calcio che ha smesso di essere sport da almeno vent'anni.
Italia coatta
I figli di Grillo
Al Festival di Venezia, trasformato in Multisala delle Emozioni, ieri è stata la giornata delle esternazioni forti: due, e pressoché in contemporanea. Una di Adriano Celentano, precursore e maestro del genere «esternescion», che ha attaccato nell’ordine (si fa per dire) i «politici degenerati» Berlusconi e Veltroni, la cordata per Alitalia, Formigoni e Moratti «genitori di Frankenstein» (questa però fa ridere...). E il parcheggio del Pincio, Chicco Testa «senza testa», Alemanno, l’Expo di Milano e parecchio altro. L’altra del regista Mimmo Calopresti, autore commosso del commovente film La fabbrica dei tedeschi sulla strage alla ThyssenKrupp, che dopo avere passato qualche mese a girare e montare scene di lacrime e sangue ne è uscito, e se ne è uscito, lui di sinistra, con una raffica di critiche anche contro il sindacato che «pensa solo al pil» mentre la gente muore. Parole diverse di due artisti diversi. Che vanno a riversarsi nell’immane calderone delle dichiarazioni pronunciate o urlate ormai tutti i santi giorni, da tutti i pulpiti, in tutti i telegiornali e su molti giornali, e da esternatori di ineguale competenza ed efficacia. Ne siamo inondati, ne siamo frastornati. Al punto che si rischia di pensare che sia tutta la stessa materia indistinta e gridata: un mix di furbizia, protagonismo, scorciatoie demagogiche. Ma le parole sono creature delicate. Come distinguere quelle autentiche da quelle «paracule», quelle che davvero dicono dalle altre soltanto autopromozionali? Un outsider pensoso come Calopresti non rischia forse di gettare il suo sasso nello stesso stagno dove navigano - da anni - esternatori per hobby o per professione? Come per altri comparti della cultura di massa, e massificata, manca un vaglio che lasci filtrare solo le pepite, e scarichi altrove i detriti, la massa inerte delle parole insignificanti, dette tanto per dire, tanto per avere due minuti di popolarità sui teleschermi della sera o cinque righe nelle edicole dell'indomani. E in questa omissione di giudizio non si può certo dire che i media (quasi tutti) brillino per vigilanza, e soprattutto per sobrietà. Ci sono dichiaratori quotidiani (per esempio Gasparri, che esterna a mitraglia) che finiscono per avere lo stesso spazio, e dunque ahimè lo stesso peso, di filosofi originali e parchi, o di pensatori spiazzanti.Bisognerebbe inventare una critica delle esternazioni e delle dichiarazioni da giornale. Qualcuno che valuti e metta in guardia contro gli effettacci, i titoli facili, la parola rumorosa e vuota. Che ristabilisca una gerarchia delle parole, non tutte eguali come la ghiaia sonora che crepita ovunque. Magari che commini squalifiche (come il giudice sportivo) per chi prevarica o imbroglia o esagera, costringendolo a saltare almeno un turno: hai già dichiarato ieri, fatti da parte. Che misuri le competenze e denunci le incompetenze, perché l’universo mediatico pullula di pareri (a volte perfino richiesti: ed è quasi istigazione a delinquere...) che non hanno alcuna titolarità, non discendono da esperienze, da saperi, da pensieri, da emozioni vere (come quella di Calopresti), ma solo da un microfono aperto, e aperto quasi per chiunque passi nelle vicinanze.Perfino Celentano, che pure di esternazioni è un campione indiscusso (i giornali lo chiamano guru, speriamo che lui se la rida), rischia di ritrovarsi a imitare se stesso. Cominciò a sparare sul pianista quando la comunicazione aveva toni e volumi decisamente più soft. Un pioniere. Un inventore. Ora il frastuono del saloon è tale, che neanche ci si domanda più il significato, giusto o sbagliato, di quello che si dice. Il dopo Grillo & C. è un territorio dove la voce umana è diventata così esondante, e invadente, e strumentale, che cercare la misura delle parole potrebbe essere l'unico modo per farsi ascoltare davvero.
di G. Zucconi, sulla Stampa
Perfetto quadro della nostra contemporaneità burina, di cui Celentano è un analfabeta precursore.
Aggiungiamoci i vezzi da middle-class (assolutamente sì, assolutamente no), facciamo un bell'applauso ai funerali, il festival delle banalità nelle interviste al volo per strada, gli idoli televisivi dei grandi fratelli nell'isola, il dramma dell'ultima settimana del mese evocato sulle spiagge della Sardegna, lo stato deve fare lo stato con gli sfasciacarrozze degli stadi e, ultimo tic, speriamo che vinca Obama per salvare la democrazia.
Siamo o non siamo la culla della civiltà?
Al Festival di Venezia, trasformato in Multisala delle Emozioni, ieri è stata la giornata delle esternazioni forti: due, e pressoché in contemporanea. Una di Adriano Celentano, precursore e maestro del genere «esternescion», che ha attaccato nell’ordine (si fa per dire) i «politici degenerati» Berlusconi e Veltroni, la cordata per Alitalia, Formigoni e Moratti «genitori di Frankenstein» (questa però fa ridere...). E il parcheggio del Pincio, Chicco Testa «senza testa», Alemanno, l’Expo di Milano e parecchio altro. L’altra del regista Mimmo Calopresti, autore commosso del commovente film La fabbrica dei tedeschi sulla strage alla ThyssenKrupp, che dopo avere passato qualche mese a girare e montare scene di lacrime e sangue ne è uscito, e se ne è uscito, lui di sinistra, con una raffica di critiche anche contro il sindacato che «pensa solo al pil» mentre la gente muore. Parole diverse di due artisti diversi. Che vanno a riversarsi nell’immane calderone delle dichiarazioni pronunciate o urlate ormai tutti i santi giorni, da tutti i pulpiti, in tutti i telegiornali e su molti giornali, e da esternatori di ineguale competenza ed efficacia. Ne siamo inondati, ne siamo frastornati. Al punto che si rischia di pensare che sia tutta la stessa materia indistinta e gridata: un mix di furbizia, protagonismo, scorciatoie demagogiche. Ma le parole sono creature delicate. Come distinguere quelle autentiche da quelle «paracule», quelle che davvero dicono dalle altre soltanto autopromozionali? Un outsider pensoso come Calopresti non rischia forse di gettare il suo sasso nello stesso stagno dove navigano - da anni - esternatori per hobby o per professione? Come per altri comparti della cultura di massa, e massificata, manca un vaglio che lasci filtrare solo le pepite, e scarichi altrove i detriti, la massa inerte delle parole insignificanti, dette tanto per dire, tanto per avere due minuti di popolarità sui teleschermi della sera o cinque righe nelle edicole dell'indomani. E in questa omissione di giudizio non si può certo dire che i media (quasi tutti) brillino per vigilanza, e soprattutto per sobrietà. Ci sono dichiaratori quotidiani (per esempio Gasparri, che esterna a mitraglia) che finiscono per avere lo stesso spazio, e dunque ahimè lo stesso peso, di filosofi originali e parchi, o di pensatori spiazzanti.Bisognerebbe inventare una critica delle esternazioni e delle dichiarazioni da giornale. Qualcuno che valuti e metta in guardia contro gli effettacci, i titoli facili, la parola rumorosa e vuota. Che ristabilisca una gerarchia delle parole, non tutte eguali come la ghiaia sonora che crepita ovunque. Magari che commini squalifiche (come il giudice sportivo) per chi prevarica o imbroglia o esagera, costringendolo a saltare almeno un turno: hai già dichiarato ieri, fatti da parte. Che misuri le competenze e denunci le incompetenze, perché l’universo mediatico pullula di pareri (a volte perfino richiesti: ed è quasi istigazione a delinquere...) che non hanno alcuna titolarità, non discendono da esperienze, da saperi, da pensieri, da emozioni vere (come quella di Calopresti), ma solo da un microfono aperto, e aperto quasi per chiunque passi nelle vicinanze.Perfino Celentano, che pure di esternazioni è un campione indiscusso (i giornali lo chiamano guru, speriamo che lui se la rida), rischia di ritrovarsi a imitare se stesso. Cominciò a sparare sul pianista quando la comunicazione aveva toni e volumi decisamente più soft. Un pioniere. Un inventore. Ora il frastuono del saloon è tale, che neanche ci si domanda più il significato, giusto o sbagliato, di quello che si dice. Il dopo Grillo & C. è un territorio dove la voce umana è diventata così esondante, e invadente, e strumentale, che cercare la misura delle parole potrebbe essere l'unico modo per farsi ascoltare davvero.
di G. Zucconi, sulla Stampa
Perfetto quadro della nostra contemporaneità burina, di cui Celentano è un analfabeta precursore.
Aggiungiamoci i vezzi da middle-class (assolutamente sì, assolutamente no), facciamo un bell'applauso ai funerali, il festival delle banalità nelle interviste al volo per strada, gli idoli televisivi dei grandi fratelli nell'isola, il dramma dell'ultima settimana del mese evocato sulle spiagge della Sardegna, lo stato deve fare lo stato con gli sfasciacarrozze degli stadi e, ultimo tic, speriamo che vinca Obama per salvare la democrazia.
Siamo o non siamo la culla della civiltà?
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