05 settembre 2008

I proprietari di una volta

Non c'è più il calcio di una volta, per non parlare dei proprietari di una volta. L'ennesimo colpo di un miliardario slegato da logiche di appartenenza, per nascita o per tifo, è importante perché questa volta non ha creato scandalo né reazioni negative. La triste verità è che chi non crede in niente si abitua a tutto: in Italia a città governate dalla criminalità organizzata e disorganizzata, ad oratori cattolici affittati per il Ramadan, all'evasione fiscale come grande risposta liberale nei confronti dello Stato oppressore, in Inghilterra non sappiamo. Torniamo a noi, anzi a loro: lo sceicco Sulamain Al-Fahim, uno degli uomini più ricchi di Abu Dhabi e quindi del mondo, ha come tutti sanno acquistato il Manchester City per circa 250 milioni di euro e si è presentato portando al popolo bue la stellina Robinho per circa 45 milioni superando anche l'offerta di Abramovich. Tutto preso dalla maggioranza con filosofia, stando a giornali e blog di tifosi che invece al suo predecessore non avevano risparmiato critiche e linciaggi mediatici. Il Berlusconi thailandese (per politica, da primo ministro, e televisioni possedute) Thaksin Shinawatra, e anche il Berlusconi vero però sono poca cosa rispetto agli interessi non solo personali rappresentati dallo sceicco, leader di un gruppo che vale più di mille miliardi euro (non abbiamo scritto male: centesimo più centesimo meno significa un decimo del PIL degli Stati Uniti ed il quintuplo di quello italiano). Dimensioni che si faticano anche solo ad immaginare, senza alcun merito dei primatisti in classifica a parte quello di nascere sopra un giacimento di petrolio (Abramovich e Berlusconi, con tutto il male che si può dire di loro, qualche capacità hanno almeno dovuto dimostrarla) , e che spiegano meglio dei nostri articoletti moraleggianti perché il calcio europeo, per non parlare dell'Europa, sia in pericolo. Ovviamente non lo capivamo quando l'uomo simbolo della nazionale brasiliana era orgoglioso di giocare in una nostra provinciale, anzi all'epoca tutto ci sembrava dovuto. Qualcuno non lo capisce nemmeno quando si vede costretto ad esaltare questa specie di NASL presuntuosa che è diventata la serie A, che fabbrica statue equestri agli scarti di Barcellona e Chelsea o a chi ha stracciato un contratto arabo solo per rischio insolvenza, venendo premiato con un ruolo da dirigente in pectore. Magari il concetto sarà più chiaro quando un fondo sovrano di uno stato canaglia comprerà, mettiamo, la Juventus. Senza arrivare agli estremi del 'vero Manchester United' che riparte dai dilettanti o a quelli del Wimbledon anti Milton Keynes, non è razzismo osservare che il calcio e chi lo dirige (per noi anche chi lo gioca) non possano essere slegati da chi lo guarda. Ognuno fa i suoi interessi, ma il rapporto dei Moratti e dei Sensi con Inter e Roma è strutturalmente diverso da quello dei Glazer con il Manchester United, di Hicks e Gillette con il Liverpool o di Gaydamak con il Portsmouth. Per non parlare dello sceicco, che da bambino di sicuro non è cresciuto con il mito di Bert Trautmann o di Mike Summerbee. Perché il calcio non è un grande sport, come contenuti tecnici ed etici, ed è spesso osceno come spettacolo. E' la vita di molte persone, però. Vita che fa schifo, ma per la quale ci hanno offerto Robinho. Vendiamo?

di Stefano Olivari, su Indiscreto



Con ricchezza di riferimenti e di argomenti, Olivari conferma una mia crepuscolare convinzione sul futuro del Milan.
Finito il boom televisivo e l'immenso indotto che si trascina, ridimensionati gli introiti ai soli spettatori, che nel frattempo sono scappati disgustati da stadi angusti e dominati da bande di teppisti, l'alternativa al fallimento saranno i fondi sovrani arabi che finanzieranno un campionato europeo stile Nba.
Si può prolungare l'agonia ma lì finirà, superprofessionalizzato, un calcio che ha smesso di essere sport da almeno vent'anni.

2 commenti:

cassinolazio ha detto...

senza considerare la ingerenza di mafie più o meno orientali che hanno finito di rompere - se mai ce ne fosse stato bisogno - il giocattolo. ci salva solo malthus

TheSteve ha detto...

Un concetto chiave, che torna di frequente negli articoli perfetti di Olivari, oltre che nelle nostre riflessioni crepuscolari: il calcio e chi lo dirige (per noi anche chi lo gioca) non possono essere slegati da chi lo guarda. La logica dell'appartenenza è quel fenomeno inspiegabile che si scatena quando, da bambini, ognuno di noi sceglie i colori di una maglia che diventa la "squadra del cuore", quella che non cambierà più (anche dopo aver cambiato moglie, religione e in casi-limite sesso). Il senso di appartenenza di certe generazioni di popolo rossonero, a nostro avviso, è venuto meno lentamente ma inesorabilmente durante il penoso percorso di decadenza del club degli ultimi cinque anni. La dignità e l'orgoglio del blasone, anche nella sconfitta e nelle retrocessioni, erano i valori portanti dell'appartenenza di quelle generazioni: tutto ciò che è venuto meno, definitivamente, nella squallida mostra che ogni giorno danno di sè davanti alle televisioni la dirigenza brianzola e la corte dei miracoli della comunicazione del fu glorioso football club di Via Turati.