Col pretesto dei diritti degli utenti si creano solo burocrazie e censure.
Stefano Rodotà, in un torrenziale intervento su Repubblica, sostiene che debbono essere meglio garantiti i diritti degli utenti di Internet, sottoposti alle vessazioni della pubblicità molesta. E’ vero che l’uso spregiudicato dei dati personali da parte di varie agenzie che vendono elenchi di indirizzi e-mail è la fonte di fastidiose intromissioni nella posta elettronica personale. Ma, in realtà, quando si parla di diritti nella comunicazione informatica è evidente che il vero problema è rappresentato da quei governi che agiscono per censurare la libera espressione del pensiero, a cominciare da quello di Pechino, che ha persino indotto o costretto a collaborare grandi compagnie di comunicazione informatica come Google. Rodotà sostiene che i codici di autoregolamentazione affiderebbero ai privati la tutela di un diritto “pubblico”. Per la verità gli interventi statali o sovranazionali in tutela della privacy, finora, si sono solo tradotti in un carico burocratico supplettivo, mentre non hanno per nulla protetto la privacy, evitando ad esempio che le intercettazioni delle conversazioni private venissero pubblicate integralmente sui giornali. Infine l’idea che ad amministrare la protezione dei diritti in Internet sia una specie di Spektre giudiziaria mondiale che Rodotà chiama “global community of courts” fa venire i brividi. Chissà che non ne facciano parte anche gli zelanti sostenitori della sharia al potere in Iran. Qualcuno è disposto ad affidare loro la tutela dei suoi diritti? D’altra parte l’irritazione degli utenti Internet per lo spam ha già spinto le principali compagnie a stilare regole per contrastare il fenomeno, la tecnologia sta elaborando nuovi sistemi di difesa. La felice anarchia degli internauti, nata senza intromissioni statali, è cresciuta a dismisura fino a oggi. Vuol dire che la libertà si espande, e non ha bisogno di tutori burocratici o istituzionali, che come dimostrano i precedenti, sanno solo creare nuove pastoie.
da Il Foglio di oggi
21 novembre 2007
20 novembre 2007
Il maoismo di Berlusconi
La svolta movimentista sistema molte pendenze salvo una: l’alternanza.
Berlusconi aveva preso per tempo la decisione di bombardare il quartier generale del centro destra, compresa la sua Forza Italia, e alla fine ha varcato la linea rossa. Faccio un nuovo partito, ha spiegato dettando la svolta a un megafono, lo legittimo nel rapporto personale con il popolo elettore che chiamo a raccolta per mandare a casa Prodi, mi emancipo dalle costrizioni della mia vecchia alleanza rimettendo a posto rivali insidiosi, e discuto una legge proporzionale con il Partito democratico anche per correre da solo. Nell’annuncio di domenica al gazebo c’era lo sbocco di un progetto che avevamo raccontato ai lettori nella primavera scorsa, quando emerse alla luce in modo credibile il fenomeno-spia di una Michela Vittoria Brambilla, la giovane leader dei Circoli della libertà che aveva ricevuto dal Cav. un mandato analogo a quello delle guardie rosse sotto Mao, violenza esclusa, e imponenti risorse per assolverlo. Con una mobilitazione di successo, paragonabile nei numeri della partecipazione alle primarie del Pd, e una correzione di rotta di 180 gradi, realizzata nelle forme tipiche dello showman che conosciamo, Berlusconi non ha solo dato soddisfazione alla sua impazienza verso alleati malmostosi e infidi, ha anche determinato una situazione politica integralmente nuova. In simmetria perfetta con la nascita del Pd leggero e leaderista, che aveva mutuato dal berlusconismo l’essenza della propria forma e la vocazione maggioritaria autosufficiente, il Cav. ha sancito la fine degli unionismi, dei coalizionismi forzati, sia a destra sia a sinistra. Nella lettura delle novità e dei sondaggi, quell’imprenditore della politica, all’origine di una delle più straordinarie avventure del potere europeo e occidentale da molti decenni a questa parte, è secondo a nessuno. Nel nuovo schema berlusconiano c’è spazio per negoziare il sistema tedesco, fondato su un solido sbarramento contro le formazioni minori; qualche diffidenza verso la correzione blandamente maggioritaria della riforma Veltroni-Vassallo, che offre un diritto di tribuna consistente ai partiti radicati in un territorio circoscritto; qualche possibile apertura verso il referendum, che come tutti sanno porterebbe sulla carta a un maggioritario bipartitico in cui il premio è secco e spetta a chi arriva primo, al partito di maggioranza relativa non apparentato ad alcun altro. Ma al di là dei tecnicismi, il senso della svolta è semplice, dal punto di vista di Berlusconi: Prodi ha fallito, l’Unione è in smantellamento, Veltroni ha bisogno di una prova elettorale a breve, penso di poterla sostenere vittoriosamente, e comunque in casa mia comando io in stretta relazione con un’opinione popolare che padroneggio senza fatica e non i leader di centrodestra che ho salvato dalla marginalità e coltivano smodate ambizioni alle mie spalle, infliggendomi colpi traversi sia quando sono al governo sia quando sono all’opposizione. Oltretutto, nel nuovo sistema, soprattutto se riportato a rapporti di forza proporzionali tra i partiti, vincere e perdere diventa un concetto relativo, e la posizione centrale di un partito del popolo e delle libertà garantisce comunque lunga vita e larga influenza a chi ha i voti, cioè a Berlusconi in persona. L’ironia della storia è buffa e anche spietata: si sta ricostruendo nella sostanza la Prima Repubblica, e si sta smantellando il bipolarismo composito e fazioso della lunga transizione, mentre le querce e le margherite e le forze italie si trasformano ribattezzandosi come partiti, ma il tutto avviene nel segno dell’appello al popolo e alla democrazia dei cittadini, tra primarie e gazebo che tagliano la testa alle vecchie nomenclature delle tessere e degli apparati. Quanto all’alternanza alla guida dello stato e al famoso diritto elettorale di scegliere il governo nelle urne, li salvi chi può.
da Il Foglio di oggi
Berlusconi aveva preso per tempo la decisione di bombardare il quartier generale del centro destra, compresa la sua Forza Italia, e alla fine ha varcato la linea rossa. Faccio un nuovo partito, ha spiegato dettando la svolta a un megafono, lo legittimo nel rapporto personale con il popolo elettore che chiamo a raccolta per mandare a casa Prodi, mi emancipo dalle costrizioni della mia vecchia alleanza rimettendo a posto rivali insidiosi, e discuto una legge proporzionale con il Partito democratico anche per correre da solo. Nell’annuncio di domenica al gazebo c’era lo sbocco di un progetto che avevamo raccontato ai lettori nella primavera scorsa, quando emerse alla luce in modo credibile il fenomeno-spia di una Michela Vittoria Brambilla, la giovane leader dei Circoli della libertà che aveva ricevuto dal Cav. un mandato analogo a quello delle guardie rosse sotto Mao, violenza esclusa, e imponenti risorse per assolverlo. Con una mobilitazione di successo, paragonabile nei numeri della partecipazione alle primarie del Pd, e una correzione di rotta di 180 gradi, realizzata nelle forme tipiche dello showman che conosciamo, Berlusconi non ha solo dato soddisfazione alla sua impazienza verso alleati malmostosi e infidi, ha anche determinato una situazione politica integralmente nuova. In simmetria perfetta con la nascita del Pd leggero e leaderista, che aveva mutuato dal berlusconismo l’essenza della propria forma e la vocazione maggioritaria autosufficiente, il Cav. ha sancito la fine degli unionismi, dei coalizionismi forzati, sia a destra sia a sinistra. Nella lettura delle novità e dei sondaggi, quell’imprenditore della politica, all’origine di una delle più straordinarie avventure del potere europeo e occidentale da molti decenni a questa parte, è secondo a nessuno. Nel nuovo schema berlusconiano c’è spazio per negoziare il sistema tedesco, fondato su un solido sbarramento contro le formazioni minori; qualche diffidenza verso la correzione blandamente maggioritaria della riforma Veltroni-Vassallo, che offre un diritto di tribuna consistente ai partiti radicati in un territorio circoscritto; qualche possibile apertura verso il referendum, che come tutti sanno porterebbe sulla carta a un maggioritario bipartitico in cui il premio è secco e spetta a chi arriva primo, al partito di maggioranza relativa non apparentato ad alcun altro. Ma al di là dei tecnicismi, il senso della svolta è semplice, dal punto di vista di Berlusconi: Prodi ha fallito, l’Unione è in smantellamento, Veltroni ha bisogno di una prova elettorale a breve, penso di poterla sostenere vittoriosamente, e comunque in casa mia comando io in stretta relazione con un’opinione popolare che padroneggio senza fatica e non i leader di centrodestra che ho salvato dalla marginalità e coltivano smodate ambizioni alle mie spalle, infliggendomi colpi traversi sia quando sono al governo sia quando sono all’opposizione. Oltretutto, nel nuovo sistema, soprattutto se riportato a rapporti di forza proporzionali tra i partiti, vincere e perdere diventa un concetto relativo, e la posizione centrale di un partito del popolo e delle libertà garantisce comunque lunga vita e larga influenza a chi ha i voti, cioè a Berlusconi in persona. L’ironia della storia è buffa e anche spietata: si sta ricostruendo nella sostanza la Prima Repubblica, e si sta smantellando il bipolarismo composito e fazioso della lunga transizione, mentre le querce e le margherite e le forze italie si trasformano ribattezzandosi come partiti, ma il tutto avviene nel segno dell’appello al popolo e alla democrazia dei cittadini, tra primarie e gazebo che tagliano la testa alle vecchie nomenclature delle tessere e degli apparati. Quanto all’alternanza alla guida dello stato e al famoso diritto elettorale di scegliere il governo nelle urne, li salvi chi può.
da Il Foglio di oggi
08 novembre 2007
Roma chiama Italia, modello Veltroni
Oggi, alle 15.50 su Rai Uno, nel corso di una trasmissione dedicata alla sicurezza sulle due ruote, lo speaker ha comunicato che la Honda esperimenta le proprie innovazioni sulle moto a Roma, considerata la città con il peggiore manto stradale al mondo a causa dello stato dell'asfalto, buche, sanpietrini e morfologia collinare. Fatta eccezione per l'ultima connotazione, tutto il resto è ascrivibile a merito della giunta Veltroni. Siamo in fremente attesa di potere godere degli stessi privilegi in tutto il resto della penisola.
06 novembre 2007
Li come Liedholm
Sapeva allenare con lo sguardo, con l’accento e con lo stile. Campione che inventava campioni.
Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Francesco Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 –. Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.
“Non lo vedevi ma lo sentivi”.
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabbiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma. Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevamo come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Ancelotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
di Claudio Cerasa, su Il Foglio di oggi
Avremmo voluto che non morisse mai, magari acciaccato nella sua bella casa di Cuccaro, ma vivo a dispensare barlumi di saggezza ed ironia. Il vecchio caro Lidas è stato uno dei maestri del calcio Italiano, giocatore tatticamente fondamentale sia da mezzala del Grenoli che mediano di spinta all'arrivo del Pepe Schiaffino. Ho ancora negli occhi giovincelli, in un settembre del '54 , all'avvio di campionato, un Milan-Triestina 4 a 0 con l'esordio dell'ufo uruguagio ed il Barone per la prima volta mediano, un giovanotto arrivato da Trieste, Cesarino Maldini, un argentino cedutoci dalla Juve, Ricagni, genialoide goleador. Calcio paradisiaco, geometrie disegnate con il compasso, naturalmente campioni d'Italia a fine anno. Presidente Andrea Rizzoli, allenatore Testina Puricelli. Anni di godimento degli occhi e della mente, con il Barone a predicare calcio razionale, puntuale, elegante, sempre a testa alta a ricevere palla dai compagni come una cassaforte e redistribuirla per le volate vincenti. Smise oltre i 40, sempre in maglia rossonera. Poi fece di mestiere quello che la natura gli aveva dato in dote naturale: il maestro-allenatore. Inventò la zona all'italiana. Gran possesso di palla, tecnica sopraffina, difesa impenetrabile, estro in attacco. Spezzò il pane della scienza nella sua Milano, a Verona, Firenze e soprattutto a Roma con il suo Aladino Falcao e con quel genio sulla fascia che di nome faceva Bruno Conti. Tornò a Milano per vincere la stella e poi, ormai vecchio, nel primo Milan berlusconiano, ove si trovò ad operare con le scelte di mercato italiane del Cavaliere, invero mediocri. Finì con un grave gesto di intimidazione, una bomba carta contro la sua panchina lanciata dal parterre, dopo una sconfitta interna con l'Avellino. Esonerato dal Berlusca e sostituito da un giovanotto con i denti aguzzi: Capello. Una brutta pagina finale per una gloria milanista che non cancella lustri di ammirazione, rispetto, godimento per gli occhi e per la mente, innovazione tattica, capacità di insegnamento a decine di giovani che hanno calcato con profitto i campi della Serie A.
Grazie Lidas, incomparabile maestro di vita.
E che le zolle ti siano lievi.
Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Francesco Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 –. Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.
“Non lo vedevi ma lo sentivi”.
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabbiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma. Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevamo come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Ancelotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
di Claudio Cerasa, su Il Foglio di oggi
Avremmo voluto che non morisse mai, magari acciaccato nella sua bella casa di Cuccaro, ma vivo a dispensare barlumi di saggezza ed ironia. Il vecchio caro Lidas è stato uno dei maestri del calcio Italiano, giocatore tatticamente fondamentale sia da mezzala del Grenoli che mediano di spinta all'arrivo del Pepe Schiaffino. Ho ancora negli occhi giovincelli, in un settembre del '54 , all'avvio di campionato, un Milan-Triestina 4 a 0 con l'esordio dell'ufo uruguagio ed il Barone per la prima volta mediano, un giovanotto arrivato da Trieste, Cesarino Maldini, un argentino cedutoci dalla Juve, Ricagni, genialoide goleador. Calcio paradisiaco, geometrie disegnate con il compasso, naturalmente campioni d'Italia a fine anno. Presidente Andrea Rizzoli, allenatore Testina Puricelli. Anni di godimento degli occhi e della mente, con il Barone a predicare calcio razionale, puntuale, elegante, sempre a testa alta a ricevere palla dai compagni come una cassaforte e redistribuirla per le volate vincenti. Smise oltre i 40, sempre in maglia rossonera. Poi fece di mestiere quello che la natura gli aveva dato in dote naturale: il maestro-allenatore. Inventò la zona all'italiana. Gran possesso di palla, tecnica sopraffina, difesa impenetrabile, estro in attacco. Spezzò il pane della scienza nella sua Milano, a Verona, Firenze e soprattutto a Roma con il suo Aladino Falcao e con quel genio sulla fascia che di nome faceva Bruno Conti. Tornò a Milano per vincere la stella e poi, ormai vecchio, nel primo Milan berlusconiano, ove si trovò ad operare con le scelte di mercato italiane del Cavaliere, invero mediocri. Finì con un grave gesto di intimidazione, una bomba carta contro la sua panchina lanciata dal parterre, dopo una sconfitta interna con l'Avellino. Esonerato dal Berlusca e sostituito da un giovanotto con i denti aguzzi: Capello. Una brutta pagina finale per una gloria milanista che non cancella lustri di ammirazione, rispetto, godimento per gli occhi e per la mente, innovazione tattica, capacità di insegnamento a decine di giovani che hanno calcato con profitto i campi della Serie A.
Grazie Lidas, incomparabile maestro di vita.
E che le zolle ti siano lievi.
05 novembre 2007
Di Rom si muore
Una donna a Roma è stata barbaramente trucidata da uno zingaro, forse pazzo, forse ubriaco.
Le anime belle, dopo centinaia di episodi simili, di ruberie metodiche nelle periferie delle metropoli, di degrado come scelta di vita di queste comunità, hanno deciso che è il momento di dire basta.
Su ordine di Veltroni, attento all'immagine patinata della Roma che governa, si è scatenata una campagna mediatica contenente minacce di espulsioni immediate, processi-lampo, detenzioni sicure. Il governo ha provveduto con esemplare rapidità, con un decreto di nanetto Amato. Esecutori del giro di vite questori, e qui mi fido, e magistrati (aspettiamoci severe condanne ad anni di residence vista mare).
La beffa è sentire che la Romania, patria della più numerosa comunità di zingari itineranti, è uno dei paesi più sicuri d'Europa, mentre l'Italia è il ventre molle d'Europa dove chiunque, malintenzionato, si può stabilire liberamente, delinquere e farla franca.
Ogni qualche mese, dopo una catena di crimini odiosi e di sopraffazioni al diritto di vivere in pace degli Italiani, esce con un grande tramestio un decreto "facite la faccia feroce".
Nessun sollievo per il paese e nessun problema per i delinquenti. Gli antidoti sono ovunque: burocrazia, magistratura, sinistra radicale, cattocomunisti perbenisti.
Questa è la storia della presenza Rom in Italia, così come degli islamici e dell'umanità varia cacciata dalla Germania, Francia e persino Spagna.
Si controbatte che gli immigrati sono una risorsa. Vero. Ma parliamo, a titolo di esempio, di filippini, polacchi, ucraini, sudamericani, fra le cui fila i delinquenti sono l'eccezione statistica di tutte le comunità umane. Gli altri, per ragioni diverse, sono una minaccia perché rifiutano l'integrazione nel paese che li ospita, perché della loro cultura fanno una corazza impenetrabile.
Quando le cose stanno così, un Paese ha il diritto di difendersi con il rifiuto dell'ospitalità.
Da noi invece solo chiacchiere ed una falso solidarismo.
Possiamo giusto aspettarci di essere integrati da loro, o un rigurgito di razzismo violento.
In tutti i casi, sintomi di una incapacità di governare i fenomeni di mobilità del terzo millennio.
PS: Leggo che in Sicilia non ci sono che sporadiche comunità di Rom. È più efficace la malavita dello stato?
Le anime belle, dopo centinaia di episodi simili, di ruberie metodiche nelle periferie delle metropoli, di degrado come scelta di vita di queste comunità, hanno deciso che è il momento di dire basta.
Su ordine di Veltroni, attento all'immagine patinata della Roma che governa, si è scatenata una campagna mediatica contenente minacce di espulsioni immediate, processi-lampo, detenzioni sicure. Il governo ha provveduto con esemplare rapidità, con un decreto di nanetto Amato. Esecutori del giro di vite questori, e qui mi fido, e magistrati (aspettiamoci severe condanne ad anni di residence vista mare).
La beffa è sentire che la Romania, patria della più numerosa comunità di zingari itineranti, è uno dei paesi più sicuri d'Europa, mentre l'Italia è il ventre molle d'Europa dove chiunque, malintenzionato, si può stabilire liberamente, delinquere e farla franca.
Ogni qualche mese, dopo una catena di crimini odiosi e di sopraffazioni al diritto di vivere in pace degli Italiani, esce con un grande tramestio un decreto "facite la faccia feroce".
Nessun sollievo per il paese e nessun problema per i delinquenti. Gli antidoti sono ovunque: burocrazia, magistratura, sinistra radicale, cattocomunisti perbenisti.
Questa è la storia della presenza Rom in Italia, così come degli islamici e dell'umanità varia cacciata dalla Germania, Francia e persino Spagna.
Si controbatte che gli immigrati sono una risorsa. Vero. Ma parliamo, a titolo di esempio, di filippini, polacchi, ucraini, sudamericani, fra le cui fila i delinquenti sono l'eccezione statistica di tutte le comunità umane. Gli altri, per ragioni diverse, sono una minaccia perché rifiutano l'integrazione nel paese che li ospita, perché della loro cultura fanno una corazza impenetrabile.
Quando le cose stanno così, un Paese ha il diritto di difendersi con il rifiuto dell'ospitalità.
Da noi invece solo chiacchiere ed una falso solidarismo.
Possiamo giusto aspettarci di essere integrati da loro, o un rigurgito di razzismo violento.
In tutti i casi, sintomi di una incapacità di governare i fenomeni di mobilità del terzo millennio.
PS: Leggo che in Sicilia non ci sono che sporadiche comunità di Rom. È più efficace la malavita dello stato?
Il cosiddetto Derby d'Italia
Viene chiamata con una definizione del genio Breriano la partita fra bianconeri e nerocelesti. Una volta era decisiva per lo scudetto ma, da almeno vent'anni, per cause diverse (era morattiana ante commissario Rossi e scandalo di Lucianone) conta solo per le botte che si scambiano generosamente in campo i contendenti ed i veleni dello spogliatoio.
Ieri sera è finita pari, 1-1. Partita bruttina, gioco paesano, botte quanto basta per tenere alta la tradizione.
Eppure la partita ha detto qualche cosa di importante.
La Juve ha recuperato grazie ai suoi vecchi fuoriclasse, quelli salvatisi dallo scippo morattiano-iberico e da qualche giovanotto pescato in quel meraviglioso vivaio che Lucianone aveva costruito.
I nuovi, voluti dalla dirigenza post-moggiana, non valgono il prezzo del biglietto del tram. Dimostrazione lampante che nel calcio non bastano i soldi (vero Galliani?) ma occorrono competenze, conoscenze, ma anche cellulari ed arbitri amici.
L'Inter ha mostrato crepe sorprendenti. La difesa, se aggredita con rabbia, va pericolosamente in affanno e si rifugia nel pestaggio scientifico. Il proboscidone bosniaco è un fenomeno quando ha un metro di spazio. Marcato a uomo, si trasforma in un fantasmino insolente.
Un'ultima considerazione ed una rivalutazione dell'intuito di Galliani. Suazo è un brocco veloce. Solo la bulimia di Moratti poteva strapparcelo per 30 miliardi.
PS: Da ieri il piazzale di San Siro si chiama Angelo Moratti.
È ora di costruirci un nuovo stadio.
Analisi sentimentale di una partita di calcio, di Er Go’ de Turone
Niente da fare, alla fine la sento anch’io, come se fosse una partita speciale. Sarà la voglia di rivincita, il desiderio di dimostrarci ancora vivi. La vivo anch’io come un’attesa diversa dalle altre. Forse, a pensarci bene, sarà anche per quei 3 dati che ho letto nel pomeriggio su un giornale (bianco, ovviamente). Le statistiche erano queste. Ultimo scudetto conteso tra le 2: 2005, Juve sul campo, Inter a tavolino. Ultima vittoria dell’Inter in quello stadio: 1983, 3-3 sul campo, 0-2 a tavolino. Vittoria con maggior scarto: 9-1 Juve, Inter in campo con i primavera. Cosa c’entra quest’ultima? Beh, facile. Perchè l’Inter era scesa in campo con i giovani? Per protesta, perchè volevano la vittoria a tavolino, e invece era stata ordinata la ripetizione di una partita sospesa per invasione. Allora si’, guardo quei dati e un po’ rido, un po’ comincia a salire la tensione. Arrivo al pub, qui a Bruxelles, alle 20. Sono il primo. Il grande schermo è occupato dal football americano, da non crederci. Ma forse hanno ragione loro, Juve-Inter non ha motivo per essere una partita speciale: in Europa l’Inter non ha lasciato grandi ricordi negli ultimi 40 anni, e di signori anziani che possano ricordare Mazzola e Corso, nel pub ce ne sono proprio pochi. Vado in una delle sale dove trasmetteranno la partita, ovviamente sono il primo. Pian piano arriva gente, con uno sguardo cerco di capire che tipi sono, per chi tiferanno. Più juventini, direi. La vediamo con sky, quindi ho modo di vedere l’abbraccio dei tifosi al pullman bianconero, l’augurio della curva (Montero torna per Ibra!), i cori, i fischi. Sale, la tensione, sale. Il pullman dell’Inter, bloccato dai tifosi juventini, è in ritardo, cosi dicono. La partita comincia in ritardo. Ecco qua, penso io. Vincono a tavolino. La partita è equilibrata, il fuorigioco è utile ma pericoloso, ed ecco che ne fanno uno, che rischiano di farne un altro. Ma Ibra, troppo tifoso nerazzurro, si emoziona e si fa anticipare a porta vuota. Secondo tempo, la Juve è calata, quasi assente. Loro rischiano di dilagare in contropiede. Esce Cruz, uno lento, ma che segna ogni 2 occasioni. Entra Suazo, uno velocissimo, ma che non segna neanche a porta vuota. Meglio cosi. Altra grande intuizione di Mancini. Fuori Figo, dentro Burdisso. Bravo, l’uomo che vince sempre. Da noi, invece, entra Camoranesi, unico fuoriclasse in campo tra tutte e due le squadre, fa 3 dribbling in un minuto, cambia la partita. Palladino, che tanti juventini criticano e io davvero non capisco perchè, da tutta la partita salta Maicon senza problemi, lo frega un’altra volta e mette al centro, poi Iaquinta, Camoranesi… Gol. Gol, si. Abbiamo segnato. Un anno e mezzo dopo, riecco quella scena. Si abbracciano tutti. E’ giusto cosi, visto che loro non hanno allenatore, mentre noi abbiamo meno qualità, ma una tonnellata di carattere in più. Sono felice. mi spiace solo per Bergomi, lo sento un po’ giù e proprio non capisco perchè. L’Inter è più forte, niente da dire. Non ha un briciolo del carattere della Juve capelliana, ma è forte. Prova a vincere nonostante il suo allenatore, il che è comunque lodevole. Sono felice per un pareggio contro l’Inter, e qui chi ha il compito di rifare grande la nostra Juve si fermi magari a leggere queste due righe. Facciano il possibile, al più presto, per riportare le cose al proprio posto. Perchè Juve-Inter ieri per noi era una partita speciale, mentre nei 100 anni precedenti speciale lo era stata solo per loro, perchè quella domenica affrontavano i più forti. Perchè ieri, dopo un pareggio in casa, eravamo a festeggiare per un punto guadagnato. Mentre da quando esiste il calcio, un pareggio in casa contro l’Inter vuol dire solo due punti persi. Poche chiacchiere, allora, e al lavoro. Sin da gennaio. Per ora, accontentiamoci di Moratti e dei suoi arbitri "eccessivamente bravi", del "pareggio ingiusto" di Mancini, delle mani sulla testa di Cambiasso scandalizzato per una decisione arbitrale, ovviamente del tutto corretta. E teniamoci Ranieri e Molinaro, che non saranno Lippi e Zambrotta, ma hanno fatto togliere un ammonizione a un avversario. E ci hanno aiutato a ricordare, in una serata dove tutto sembrava essere invertito, che la Juve in fondo è sempre la Juve, e l’Inter è sempre l’Inter. Al di là del risultato, e di quel punto guadagnato in una partita speciale, che dall’anno prossimo deve tornare ad essere solo due punti persi, in una partita normale. Forza Juve. I love football.
dal blog Camillo, di Christian Rocca
Ieri sera è finita pari, 1-1. Partita bruttina, gioco paesano, botte quanto basta per tenere alta la tradizione.
Eppure la partita ha detto qualche cosa di importante.
La Juve ha recuperato grazie ai suoi vecchi fuoriclasse, quelli salvatisi dallo scippo morattiano-iberico e da qualche giovanotto pescato in quel meraviglioso vivaio che Lucianone aveva costruito.
I nuovi, voluti dalla dirigenza post-moggiana, non valgono il prezzo del biglietto del tram. Dimostrazione lampante che nel calcio non bastano i soldi (vero Galliani?) ma occorrono competenze, conoscenze, ma anche cellulari ed arbitri amici.
L'Inter ha mostrato crepe sorprendenti. La difesa, se aggredita con rabbia, va pericolosamente in affanno e si rifugia nel pestaggio scientifico. Il proboscidone bosniaco è un fenomeno quando ha un metro di spazio. Marcato a uomo, si trasforma in un fantasmino insolente.
Un'ultima considerazione ed una rivalutazione dell'intuito di Galliani. Suazo è un brocco veloce. Solo la bulimia di Moratti poteva strapparcelo per 30 miliardi.
PS: Da ieri il piazzale di San Siro si chiama Angelo Moratti.
È ora di costruirci un nuovo stadio.
Analisi sentimentale di una partita di calcio, di Er Go’ de Turone
Niente da fare, alla fine la sento anch’io, come se fosse una partita speciale. Sarà la voglia di rivincita, il desiderio di dimostrarci ancora vivi. La vivo anch’io come un’attesa diversa dalle altre. Forse, a pensarci bene, sarà anche per quei 3 dati che ho letto nel pomeriggio su un giornale (bianco, ovviamente). Le statistiche erano queste. Ultimo scudetto conteso tra le 2: 2005, Juve sul campo, Inter a tavolino. Ultima vittoria dell’Inter in quello stadio: 1983, 3-3 sul campo, 0-2 a tavolino. Vittoria con maggior scarto: 9-1 Juve, Inter in campo con i primavera. Cosa c’entra quest’ultima? Beh, facile. Perchè l’Inter era scesa in campo con i giovani? Per protesta, perchè volevano la vittoria a tavolino, e invece era stata ordinata la ripetizione di una partita sospesa per invasione. Allora si’, guardo quei dati e un po’ rido, un po’ comincia a salire la tensione. Arrivo al pub, qui a Bruxelles, alle 20. Sono il primo. Il grande schermo è occupato dal football americano, da non crederci. Ma forse hanno ragione loro, Juve-Inter non ha motivo per essere una partita speciale: in Europa l’Inter non ha lasciato grandi ricordi negli ultimi 40 anni, e di signori anziani che possano ricordare Mazzola e Corso, nel pub ce ne sono proprio pochi. Vado in una delle sale dove trasmetteranno la partita, ovviamente sono il primo. Pian piano arriva gente, con uno sguardo cerco di capire che tipi sono, per chi tiferanno. Più juventini, direi. La vediamo con sky, quindi ho modo di vedere l’abbraccio dei tifosi al pullman bianconero, l’augurio della curva (Montero torna per Ibra!), i cori, i fischi. Sale, la tensione, sale. Il pullman dell’Inter, bloccato dai tifosi juventini, è in ritardo, cosi dicono. La partita comincia in ritardo. Ecco qua, penso io. Vincono a tavolino. La partita è equilibrata, il fuorigioco è utile ma pericoloso, ed ecco che ne fanno uno, che rischiano di farne un altro. Ma Ibra, troppo tifoso nerazzurro, si emoziona e si fa anticipare a porta vuota. Secondo tempo, la Juve è calata, quasi assente. Loro rischiano di dilagare in contropiede. Esce Cruz, uno lento, ma che segna ogni 2 occasioni. Entra Suazo, uno velocissimo, ma che non segna neanche a porta vuota. Meglio cosi. Altra grande intuizione di Mancini. Fuori Figo, dentro Burdisso. Bravo, l’uomo che vince sempre. Da noi, invece, entra Camoranesi, unico fuoriclasse in campo tra tutte e due le squadre, fa 3 dribbling in un minuto, cambia la partita. Palladino, che tanti juventini criticano e io davvero non capisco perchè, da tutta la partita salta Maicon senza problemi, lo frega un’altra volta e mette al centro, poi Iaquinta, Camoranesi… Gol. Gol, si. Abbiamo segnato. Un anno e mezzo dopo, riecco quella scena. Si abbracciano tutti. E’ giusto cosi, visto che loro non hanno allenatore, mentre noi abbiamo meno qualità, ma una tonnellata di carattere in più. Sono felice. mi spiace solo per Bergomi, lo sento un po’ giù e proprio non capisco perchè. L’Inter è più forte, niente da dire. Non ha un briciolo del carattere della Juve capelliana, ma è forte. Prova a vincere nonostante il suo allenatore, il che è comunque lodevole. Sono felice per un pareggio contro l’Inter, e qui chi ha il compito di rifare grande la nostra Juve si fermi magari a leggere queste due righe. Facciano il possibile, al più presto, per riportare le cose al proprio posto. Perchè Juve-Inter ieri per noi era una partita speciale, mentre nei 100 anni precedenti speciale lo era stata solo per loro, perchè quella domenica affrontavano i più forti. Perchè ieri, dopo un pareggio in casa, eravamo a festeggiare per un punto guadagnato. Mentre da quando esiste il calcio, un pareggio in casa contro l’Inter vuol dire solo due punti persi. Poche chiacchiere, allora, e al lavoro. Sin da gennaio. Per ora, accontentiamoci di Moratti e dei suoi arbitri "eccessivamente bravi", del "pareggio ingiusto" di Mancini, delle mani sulla testa di Cambiasso scandalizzato per una decisione arbitrale, ovviamente del tutto corretta. E teniamoci Ranieri e Molinaro, che non saranno Lippi e Zambrotta, ma hanno fatto togliere un ammonizione a un avversario. E ci hanno aiutato a ricordare, in una serata dove tutto sembrava essere invertito, che la Juve in fondo è sempre la Juve, e l’Inter è sempre l’Inter. Al di là del risultato, e di quel punto guadagnato in una partita speciale, che dall’anno prossimo deve tornare ad essere solo due punti persi, in una partita normale. Forza Juve. I love football.
dal blog Camillo, di Christian Rocca
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