Resta ancora da spiegare, tuttavia, perché lo ‘scippo’ simbolico sia riuscito al punto tale che per una gran parte dell’opinione pubblica italiana, antifascismo e Resistenza sono associati alla propaganda comunista o comunque sinistro-radicale e, pertanto, vengono considerati ‘cose loro’. Nel ’48 il Fronte popolare si diede come emblema Giuseppe Garibaldi eppure non per questo l’eroe dei Due Mondi, nell’immaginario collettivo, venne appiattito sulla falce e martello. Nel 1953, i monarchici esposero un manifesto con la scritta
Cosa dire allora? Che la Resistenza non è popolare perché, a ben guardare, non coinvolse ‘il popolo’? Che le masse siano rimaste alla finestra, a guardare, con un sentimento di trepidazione e di angoscia, la ‘guerra civile’, che si scatenò a nord di Roma dopo l’8 settembre, è un fatto innegabile, che può essere contestato solo da quanti credono che i duecentomilacinquecento partigiani iscritti, il 26 aprile 1946, nelle varie formazioni combattenti, abbiano combattuto per davvero e ignorano che molti hanno profuso il loro impegno nella ricerca di una camicia rossa che sostituisse quella nera. No, a rischiare la vita contro i tedeschi invasori furono pochi ma è quanto si verifica nella stragrande maggioranza degli eventi storici che hanno segnato un’epoca e rivoltato da cima e fondo una società. Fu una minoranza ad accorrere sotto le bandiere di George Washington, furono alcune migliaia gli studenti e i popolani arruolati nei vari eserciti di volontari che nel 1848 si costituirono in diverse regioni italiane. Sono sempre le ‘minoranze eroiche’ — per usare espressioni care ad Alfredo Oriani e a Piero Gobetti — a fare gli stati e le rivoluzioni e l’ottobre sovietico non fa certo eccezione. Sennonché, i ribelli nordamericani, i patrioti italiani, i soldati dell’anno II in Francia sono entrati nel Pantheon nazionale, diventando oggetto di culto anche per i discendenti di coloro che ‘non avevano preso parte’ agli eventi ‘fondatori’, e che, ‘sventurati’, avrebbero dovuto dire
Orbene, tornando all’antifascismo, sarà un caso che una nobilissima figura di antifascista come Duccio Galimberti sia conosciuta solo dai militanti di partito, dai cultori di storia e, naturalmente, dagli abitanti di Cuneo mentre il carabiniere Salvo D’Acquisto, che s’immolò per salvare la vita di ostaggi pronti ad essere fucilati dagli occupanti tedeschi, è conosciuto, se non da tutti gli italiani, per lo meno da un numero crescente di persone, la maggior parte delle quali non s’intende di storia né milita in un partito? Sarebbe riduttivo spiegare l’impopolarità dei ‘martiri’ dell’antifascismo con il loro apparire come un’élite severa e intransigente, disposta a sacrificare la vita in nome di un ideale - un’élite, quindi, ‘antipatica’ e minacciosa come l’ombra di Banquo per il populismo e per il qualunquismo sempre verdi nel nostro paese; il motivo dell’impopolarità in questione potrebbe trovarsi, invece, nei contenuti culturali e nei programmi politici di quella élite. Non vanno dimenticati il disegno, condiviso anche dalle correnti più moderate del Partito d’Azione, di voler rigenerare moralmente e intellettualmente gli italiani, la pedagogica iattanza che portava a considerare i propri connazionali ‘malati’ e corrotti da vent’anni di regime, l’ostinata rimozione di quel poco di buono — in termini di opere pubbliche e di Welfare State — che la dittatura aveva pur realizzato. Ce n’è quanto basta per creare una frattura insanabile tra il vissuto concreto della gente — con il suo carico di positivo e negativo — e l’immagine ufficiale che veniva data degli ‘anni neri’, totalmente ignara del chiaroscuro (v. la vulgata antifascista dei Quazza e dei Galante Garrone).
E tuttavia anche questa spiegazione lascia qualcosa in ombra. Quasi ovunque, la radicalità di un ‘progetto rivoluzionario’, in un primo tempo, genera la guerra civile ma, col passare delle generazioni, perde la sua carica divisiva. I versi della Marsigliese traboccano di sangue, di battaglie, di atroci vendette. In realtà, l’inadeguatezza non è iscritta nel DNA del liberalismo ma, ieri come oggi, nelle gravi carenze del sistema politico e della political culture italiana. Rendersene davvero conto comporterebbe la malinconica coscienza che il 25 aprile c’è ben poco da festeggiare giacché della malattia fascista siamo stati tutti responsabili!
Dino Cofrancesco, su L'Occidentale
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