Auguri a tutti gli amici che hanno la pazienza di leggermi.
Domani parto per una crociera sul Nilo ed alla scoperta delle piramidi.
Potrei dire, alle origini della civiltà meditterranea.
Mi disintossicherò delle miserie globali e nazionali ma ho speranza, tornando, di leggere due buone notizie.
Il Milan ha esonerato Ancelotti e Galliani lascia la dirigenza calcistica.
Il PD si è spaccato ed ognuno è tornato alla casa madre. Giusto per risolvere la loro questione morale e potere cantare bandiera rossa nei cortei, anziché sotto le lenzuola prima di dormire.
Buon Natale a tutti, e che il Bambino mi renda più buono.
19 dicembre 2008
12 dicembre 2008
A Milano di questi sindaci si è perso lo stampo
Nel momento stesso in cui l'ex-sindaco di Milano, Carlo Tognoli, ha ringraziato il presidente della provincia, Filippo Penati, dell'offerta di aderire alla sua lista in vista delle elezioni provinciali della prossima primavera. Nel momento stesso, cioè, in cui Tognoli ha detto: "Lo ringrazio dell'attenzione e per le belle parole, ma non sono disponibile ad aderire a questa sinistra". Vale a dire nel momento stesso in cui Tognoli ha aggiunto: "Se Penati avesse voluto fare un gesto per ricordare Craxi, avrebbe potuto dedicargli una medaglia in occasione della giornata della riconoscenza, sarebbe stato un gesto di grande importanza, ma forse avrebbe potuto creargli dei problemi, perché la sinistra non ha mai superato il marxismo-leninismo", in quel momento lì, avendo imparato l'importanza del'etologia soltanto ultimamente, perfino noi abbiamo capito la differenza fra Giuliano Amato, splendido esemplare di roditore, e Tognoli il topolino.
Andrea's Version, da Il Foglio del 12 dicembre 2008
Andrea's Version, da Il Foglio del 12 dicembre 2008
11 dicembre 2008
Matrimoni a ore
Recentissime statistiche enunciano che negli ultimi anni, a Milano, si sono perse 1.171 unioni; l'anno scorso i matrimoni sono stati 3.959 contro 2.074 separazioni. Le funzioni civili superano quelle religiose (60,6% contro 39,4% in Chiesa).
Cifre he denunciano senza possibilità di equivoco l'imbarbarimento laicistico della città.
Il germe dell'ateismo e dell'individualismo seminato negli anni '8o dalla cricca Pannella ha prodotto risultati devastanti. L'assenza di valori morali, se non religiosi, ha mercificato il matrimonio a bene di consumo da usare il più rapidamente e meno impegnativamente possibile.
Dice la notissima matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace che l'aumento dei divorzi è figlio di una cultura deviata del matrimonio, passato da una meditata scelta per la vita ad una umorale e passionale opzione che non sa reggere la prova dell'esperienza nel quotidiano. Alla domanda perché si arriva a mettere la parola fine ad un matrimonio, l'avvocato risponde: "Perché ci si sposa senza responsabilità e di fronte alle difficoltà si ha paura. Non si è in grado di capire le diversità dell'altro. Non è più come una volta, al primo ostacolo si getta la spugna. Non si può credere che tutto sia sempre bello come i primi tempi. I cambiamenti sono inevitabili".
Diagnosi di modesta consistenza, secondo me. Il matrimonio ha sempre avuto fasi di disillusione, momenti di difficoltà, stimoli di libera uscita, esigenza di rinunce individuali per potere costruire un equilibrio comune. Il problema è il substrato culturale per l'istituto familiare che non esiste più. La formazione in famiglia verso il matrimonio, la codificazione del ruolo dell'uno parte del due, la predisposizione al sacrificio, il clima religioso che rendeva il contratto matrimoniale un patto sacro fra gli attori e verso la società.
Per i giovani cresciuti spesso in famiglie sessantottine, tutti questi sono stati assimilati come disvalori da rifiutare aprioristicamente. Se la società non tornerà con umiltà ai valori della tradizione, presto vi saranno solo unioni variabili, sessualmente inidentificabili.
Quali i risultati di medio periodo?
Un mondo di disperati, senza ideali, senza emozioni, schiavo di esaltazioni artificiali.
Questo scenario post-moderno alienato sarà il terreno di coltura delle religioni semplici e violente come l'Islam, che proprio nella famiglia riconosce un caposaldo di unità e di proselitismo.
Forse sono troppo vecchio per accettare questo nuovo, ma vorrei che qualcuno mi dicesse dove sbaglio.
Cifre he denunciano senza possibilità di equivoco l'imbarbarimento laicistico della città.
Il germe dell'ateismo e dell'individualismo seminato negli anni '8o dalla cricca Pannella ha prodotto risultati devastanti. L'assenza di valori morali, se non religiosi, ha mercificato il matrimonio a bene di consumo da usare il più rapidamente e meno impegnativamente possibile.
Dice la notissima matrimonialista Annamaria Bernardini De Pace che l'aumento dei divorzi è figlio di una cultura deviata del matrimonio, passato da una meditata scelta per la vita ad una umorale e passionale opzione che non sa reggere la prova dell'esperienza nel quotidiano. Alla domanda perché si arriva a mettere la parola fine ad un matrimonio, l'avvocato risponde: "Perché ci si sposa senza responsabilità e di fronte alle difficoltà si ha paura. Non si è in grado di capire le diversità dell'altro. Non è più come una volta, al primo ostacolo si getta la spugna. Non si può credere che tutto sia sempre bello come i primi tempi. I cambiamenti sono inevitabili".
Diagnosi di modesta consistenza, secondo me. Il matrimonio ha sempre avuto fasi di disillusione, momenti di difficoltà, stimoli di libera uscita, esigenza di rinunce individuali per potere costruire un equilibrio comune. Il problema è il substrato culturale per l'istituto familiare che non esiste più. La formazione in famiglia verso il matrimonio, la codificazione del ruolo dell'uno parte del due, la predisposizione al sacrificio, il clima religioso che rendeva il contratto matrimoniale un patto sacro fra gli attori e verso la società.
Per i giovani cresciuti spesso in famiglie sessantottine, tutti questi sono stati assimilati come disvalori da rifiutare aprioristicamente. Se la società non tornerà con umiltà ai valori della tradizione, presto vi saranno solo unioni variabili, sessualmente inidentificabili.
Quali i risultati di medio periodo?
Un mondo di disperati, senza ideali, senza emozioni, schiavo di esaltazioni artificiali.
Questo scenario post-moderno alienato sarà il terreno di coltura delle religioni semplici e violente come l'Islam, che proprio nella famiglia riconosce un caposaldo di unità e di proselitismo.
Forse sono troppo vecchio per accettare questo nuovo, ma vorrei che qualcuno mi dicesse dove sbaglio.
05 dicembre 2008
Ambrogini e Letizie
Questa sera, o forse è già avvenuto, verranno consegnati gli Ambrogini d'oro e le benemerenze del Comune di Milano.
Una volta, questi erano riconoscimenti molto milanesi, volti a ricompensare i migliori comportamenti e le benefiche iniziative dei cittadini della capitale Lombarda.
Da qualche anno, ma ora come mai, l'iniziativa si è trasformata in una specie di Premio Nobel del Naviglio, che spazia in tutto il cosmo alla ricerca di qualche personaggio benefattore o anche semplicemente testimonial politico o di costume, possibilmente multietnico.
In questa nuova interpretazione, naturalmente lo spazio della "politica" è trabordante, esclusivo.
Le preselezioni sono una parata della provocazione di parte o delle stramberie più coglione.
Quest'anno ha tenuto banco Enzo Biagi, giornalista e scrittore prolifico di leggerissimo spessore intellettuale, ma abilissimo markettaro di sè stesso e soprattutto benemerito antiberlusconiano. C'erano anche le "mamme coraggio del Leonka" (nota associazione insurrezionale di sinistra, trasformatasi con gli anni in un quieto ma remunerativo spaccio di articoli fuorilegge in esenzione fiscale), un autore di best-seller napoletano ed altra compagnia bella di forestieri.
Dei Milanesi poche tracce, forse perché la politica non li conosce per niente.
Questo degrado è l'ultimo e nemmeno più importante effetto del premierato di Letizia Moratti, uno dei più disastrosi sindaci che la città abbia eletto a Palazzo Marino. Da tre anni, assistiamo a provvedimenti ed iniziative sempre più improvvide, decise in assoluta solitudine.
L'astio e l'insofferenza della città verso questa signora è ormai palpabile e avrà come conseguenza la fine della leadership del Pdl in città (se non ci pensa la Lega, avremo il finanziere Penati sindaco).
Ma la rappresentante del clan petrolifero peggio potrà ancora fare con l'improvvida iniziativa dell'Expo 2015, che la sfortuna ha voluto venisse assegnata a Milano, città incapace di governare iniziative di questa dimensione perché disabituata a disbrigare anche l'ordinario, grazie ad una amministrazione locale imbelle.
Lo scempio degli Ambrogini è lo specchio della gestione Moratti.
Se almeno si limitasse a farsi spernacchiare per le medagliette ricordo... invece di collocarsi su un altare universale.
Una volta, questi erano riconoscimenti molto milanesi, volti a ricompensare i migliori comportamenti e le benefiche iniziative dei cittadini della capitale Lombarda.
Da qualche anno, ma ora come mai, l'iniziativa si è trasformata in una specie di Premio Nobel del Naviglio, che spazia in tutto il cosmo alla ricerca di qualche personaggio benefattore o anche semplicemente testimonial politico o di costume, possibilmente multietnico.
In questa nuova interpretazione, naturalmente lo spazio della "politica" è trabordante, esclusivo.
Le preselezioni sono una parata della provocazione di parte o delle stramberie più coglione.
Quest'anno ha tenuto banco Enzo Biagi, giornalista e scrittore prolifico di leggerissimo spessore intellettuale, ma abilissimo markettaro di sè stesso e soprattutto benemerito antiberlusconiano. C'erano anche le "mamme coraggio del Leonka" (nota associazione insurrezionale di sinistra, trasformatasi con gli anni in un quieto ma remunerativo spaccio di articoli fuorilegge in esenzione fiscale), un autore di best-seller napoletano ed altra compagnia bella di forestieri.
Dei Milanesi poche tracce, forse perché la politica non li conosce per niente.
Questo degrado è l'ultimo e nemmeno più importante effetto del premierato di Letizia Moratti, uno dei più disastrosi sindaci che la città abbia eletto a Palazzo Marino. Da tre anni, assistiamo a provvedimenti ed iniziative sempre più improvvide, decise in assoluta solitudine.
L'astio e l'insofferenza della città verso questa signora è ormai palpabile e avrà come conseguenza la fine della leadership del Pdl in città (se non ci pensa la Lega, avremo il finanziere Penati sindaco).
Ma la rappresentante del clan petrolifero peggio potrà ancora fare con l'improvvida iniziativa dell'Expo 2015, che la sfortuna ha voluto venisse assegnata a Milano, città incapace di governare iniziative di questa dimensione perché disabituata a disbrigare anche l'ordinario, grazie ad una amministrazione locale imbelle.
Lo scempio degli Ambrogini è lo specchio della gestione Moratti.
Se almeno si limitasse a farsi spernacchiare per le medagliette ricordo... invece di collocarsi su un altare universale.
03 dicembre 2008
Grand'Italia e dintorni (11)
Walter era antisocialista anche quando fingeva di non essere comunista.
“Il Pd non è parte della storia socialista” dice Walter Veltroni alla Repubblica (2 dicembre). Criticatelo quanto volete, il povero Veltroni, ma è una persona coerente. Anche quando da non comunista (forse anticomunista) era iscritto al Pci, era già nemico di quei fetentoni dei socialisti.
Lodovico Festa, su L'Occidentale
“Il Pd non è parte della storia socialista” dice Walter Veltroni alla Repubblica (2 dicembre). Criticatelo quanto volete, il povero Veltroni, ma è una persona coerente. Anche quando da non comunista (forse anticomunista) era iscritto al Pci, era già nemico di quei fetentoni dei socialisti.
Lodovico Festa, su L'Occidentale
E adesso, povero Veltroni?
In merito alla battaglia di Sky, la Commissione Ue scioglie ogni dubbio. «Se le autorità italiane avessero insistito nel non cambiare le aliquote Iva sulla tv a pagamento - ha fatto sapere Maria Assimakopoulou, portavoce del Commissario Ue alla Fiscalità Laszlo Kovacs - la commissione Ue avrebbe dovuto aprire una procedura di infrazione. Ma nel momento in cui le autorità italiane informano di avervi riposto rimedio con decisioni adeguate, il caso è chiuso».
La portavoce ha ricordato che Bruxelles, in seguito a un reclamo ricevuto nell'aprile 2007, ha inviato una lettera all'Italia per porre in rilievo il tasso diverso di Iva, in alcuni casi al 10%, in altri al 20%. «Nella direttiva Ue sull'Iva c'è un allegato che dice che si può applicare un'aliquota ridotta per le tv satellitari, ma devono essere applicate le stesse aliquote per gli stessi tipi di servizi. L'aliquota andava perciò resa uguale per tutti. Quindi il governo italiano doveva decidere se tutti al 10% o tutti al 20%: è il Paese che decide». Roma aveva dunque riconosciuto, ha proseguito, che «tale differenziazione dell'aliquota non era in linea con le norme Ue e si era impegnata ad allinearlo».
Intanto, l’ex premier Romano Prodi ha ricordato che, sul caso dell’Iva per Sky, "le sollecitazioni dell’Ue perché fosse risolta l’asimmetria delle aliquote Iva per le televisioni in Italia ci furono. Una posizione assolutamente condivisibile, tanto che ci impegnammo a provvedere - spiega in un'intervista confermando le dichiarazione del ministro del Tesoro Tremonti - ma poi non entrammo mai nel merito".
Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ieri aveva detto: "Esiste un blocco di documenti che hanno origine a Bruxelles da cui risulta che il sistema italiano, stratificato su più anni, era fuori dalla giurisprudenza europea per la quale dato un medesimo servizio non puoi avere aliquote segmentate in funzione delle tecniche di trasmissione utilizzate". Secondo Tremonti "è stata avviata una procedura di infrazione comunitaria e la soluzione poteva essere solo quella dell’allineamento delle aliquote. C’è un carteggio tra la commissione Ue e il governo Prodi che prevede l’impegno del governo ad allineare le aliquote. L’impegno scadeva in questi giorni".
La portavoce ha ricordato che Bruxelles, in seguito a un reclamo ricevuto nell'aprile 2007, ha inviato una lettera all'Italia per porre in rilievo il tasso diverso di Iva, in alcuni casi al 10%, in altri al 20%. «Nella direttiva Ue sull'Iva c'è un allegato che dice che si può applicare un'aliquota ridotta per le tv satellitari, ma devono essere applicate le stesse aliquote per gli stessi tipi di servizi. L'aliquota andava perciò resa uguale per tutti. Quindi il governo italiano doveva decidere se tutti al 10% o tutti al 20%: è il Paese che decide». Roma aveva dunque riconosciuto, ha proseguito, che «tale differenziazione dell'aliquota non era in linea con le norme Ue e si era impegnata ad allinearlo».
Intanto, l’ex premier Romano Prodi ha ricordato che, sul caso dell’Iva per Sky, "le sollecitazioni dell’Ue perché fosse risolta l’asimmetria delle aliquote Iva per le televisioni in Italia ci furono. Una posizione assolutamente condivisibile, tanto che ci impegnammo a provvedere - spiega in un'intervista confermando le dichiarazione del ministro del Tesoro Tremonti - ma poi non entrammo mai nel merito".
Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ieri aveva detto: "Esiste un blocco di documenti che hanno origine a Bruxelles da cui risulta che il sistema italiano, stratificato su più anni, era fuori dalla giurisprudenza europea per la quale dato un medesimo servizio non puoi avere aliquote segmentate in funzione delle tecniche di trasmissione utilizzate". Secondo Tremonti "è stata avviata una procedura di infrazione comunitaria e la soluzione poteva essere solo quella dell’allineamento delle aliquote. C’è un carteggio tra la commissione Ue e il governo Prodi che prevede l’impegno del governo ad allineare le aliquote. L’impegno scadeva in questi giorni".
29 novembre 2008
Inzaghi, uno che Ancelotti non ha sterilizzato
Non guardare come, ma che cosa. Gol. Inzaghi ancora, di nuovo, sempre. È inutile contare: 64? 65? 67? Importa davvero quanti ne ha fatti? Tanto presto ce ne sarà un altro: sul limite del fuorigioco, con uno stop goffo, con un tiro sporco e perfetto. Lo splendore della grossolanità, la certificazione che l'estetica conta sempre meno del risultato. Pippo gode, al solito. Un minuto e quarantadue secondi dopo il novantesimo, all'ultimo assalto, all'ultima palla. Cesarini aggiornato. Contemporaneo. Tutta roba sua, di Pippo, perché non si cambia neanche a 35 anni, quando tutti continuano a raccontare che è finito. Cioè «grazie Pippo, hai fatto tutto». È quel momento, quello là, quando in ogni bar dello sport di questo Paese può entrare uno e dire che come Inzaghi non ce ne sono. Fermo al bancone c'è per forza un nemico di Pippo che deve tacere, perché ha appena finito di pensare alla filastrocca di una vita: che è sgraziato, viscido, inguardabile, anti-estetico.
Quante volte s'è sentito: segna alla Inzaghi, quindi facile, col tocco di fronte alla porta, con lo stinco che colpisce prima del collo e crea una traiettoria imprendibile. Culo. Sì, culo. Rimpallo, rimbalzo, deviazione, papera del portiere. Gol e qualche attimo di attesa, perché certe volte non ci crede neanche lui. Poi sì. Poi va. Poi di corsa verso la bandierina con la bocca aperta e le mani agitate come se ogni volta fosse Atene e la Coppa dei Campioni. Inzaghi è lo spot del calcio della speranza è un piccolo totem della fiducia. I suoi gol sgraziati servono a rimettere sulla strada una partita persa o a vincerne una che non si sbloccherà mai. Di Pippo non hai voglia di appendere in camera il poster, ma tieni una figurina nel portafoglio, come un santino al quale aggrapparsi quando non sai più che fare. Allora adesso non serve chiedersi se è titolare o se sta in panchina. Non se lo chiede neanche lui che ha smesso di essere ossessionato dall'idea di giocare ogni partita. Non può, quasi quasi non lo vuole neanche. Con lui si conta il rapporto tra minuti giocati e gol fatti: con lui non devi mica ricordarti se è in forma, oppure no, se gioca bene o se gioca male, se ha preso sei, sette, otto o quattro in pagella. La sponda? E che cos'è? L'assist? In una partita di Inzaghi ti ricordi soltanto se segna o no. È finita l'era dei Fascetti che lo criticavano perché era un cascatore. Inzaghi ha superato tutto: le botte degli avversari che gli hanno sfigurato anche il labbro, la rivalità con Del Piero ai tempi della Juventus, l'arrivo di ogni tipo di attaccante al Milan, l'ironia sulla dieta a base di solo riso in bianco e bresaola, la presenza di un fratello che l'ha imitato senza essere lui. A 35 anni un centravanti che non gioca titolare fisso non serve. Pippo te lo tieni caro fino a quando sarà lui a dire basta. Opportunista. Cioè un po' meschino. Cioè straordinario. Inzaghi è un desiderio represso e un'invidia perenne: l'idea di essere fondamentale per una squadra anche senza dover essere il più forte di tutti. Non piace ai fighetti, non appassiona gli esteti, poi tutti lo vorrebbero o l'avrebbero voluto perché quando trovi uno che segna con il pezzetto di plastica della stringa che si è appena slacciata, non puoi avere davvero nulla di meglio. Sono più di 15 anni che è così. Gol, gol, gol. Poi le critiche, ovvio. Perché con Pippo è successo quello che di solito accade con i trequartisti, con Baggio, Del Piero, Totti, Cassano. Cioè dividono: allora fino a un certo punto o lo adoravi o lo detestavi. Parrocchie e correnti. Poi qualcosa è cambiato. Poi è arrivata Atene e la doppietta nella finale di Champions. Tutti zitti. Applausi. Pippo ha ancora nemici, come tutti, solo che adesso non parlano più. Soffrono un po' a ogni gol e non sanno quando potranno smettere.
Beppe di Corrado, su Il Giornale del 29/11/2008
SuperPippo è uno dei pochi giocatori del Milan per il quale si spendono volentieri i soldi del biglietto o due ore dinanzi al televisore. Perché lui è calcio allo stato fuido: furore, malizia, intensità, inventiva, improvvisazione.
In un calcio ormai incapsulato negli schemi, i cui interpreti non si possono permettere libertà creative, Inzaghi è l'incubo del cobra che ti fulmina prima che tu possa pensare alla contromossa. La sua pericolosità di attaccante ricorda il Veleno interista degli anni 50 che, non a caso, è una memoria viva anche per chi l'ha conosciuto solo con il passaparola.
Ai miei occhi ha inoltre il grandissimo merito di avere rifiutato i condizionamenti tattici del suo allenatore, l'invito a ritornare a centrocampo o a marcare l'avversario difensore.
Per lui il campo, al massimo, sono i 13 metri dell'area, ma il suo habitat è l'area piccola e immediati dintorni.
Ancelotti non potendolo plasmare, per la sua irrinunciabilità si è inventato lo schema ad una punta, che ha un senso ed una credibilità solo se gioca Pippo. Con gli altri che l'hanno sostituito, è solo un favore agli avversari e la vera causa dell'impotenza offensiva del Milan.
Quante volte s'è sentito: segna alla Inzaghi, quindi facile, col tocco di fronte alla porta, con lo stinco che colpisce prima del collo e crea una traiettoria imprendibile. Culo. Sì, culo. Rimpallo, rimbalzo, deviazione, papera del portiere. Gol e qualche attimo di attesa, perché certe volte non ci crede neanche lui. Poi sì. Poi va. Poi di corsa verso la bandierina con la bocca aperta e le mani agitate come se ogni volta fosse Atene e la Coppa dei Campioni. Inzaghi è lo spot del calcio della speranza è un piccolo totem della fiducia. I suoi gol sgraziati servono a rimettere sulla strada una partita persa o a vincerne una che non si sbloccherà mai. Di Pippo non hai voglia di appendere in camera il poster, ma tieni una figurina nel portafoglio, come un santino al quale aggrapparsi quando non sai più che fare. Allora adesso non serve chiedersi se è titolare o se sta in panchina. Non se lo chiede neanche lui che ha smesso di essere ossessionato dall'idea di giocare ogni partita. Non può, quasi quasi non lo vuole neanche. Con lui si conta il rapporto tra minuti giocati e gol fatti: con lui non devi mica ricordarti se è in forma, oppure no, se gioca bene o se gioca male, se ha preso sei, sette, otto o quattro in pagella. La sponda? E che cos'è? L'assist? In una partita di Inzaghi ti ricordi soltanto se segna o no. È finita l'era dei Fascetti che lo criticavano perché era un cascatore. Inzaghi ha superato tutto: le botte degli avversari che gli hanno sfigurato anche il labbro, la rivalità con Del Piero ai tempi della Juventus, l'arrivo di ogni tipo di attaccante al Milan, l'ironia sulla dieta a base di solo riso in bianco e bresaola, la presenza di un fratello che l'ha imitato senza essere lui. A 35 anni un centravanti che non gioca titolare fisso non serve. Pippo te lo tieni caro fino a quando sarà lui a dire basta. Opportunista. Cioè un po' meschino. Cioè straordinario. Inzaghi è un desiderio represso e un'invidia perenne: l'idea di essere fondamentale per una squadra anche senza dover essere il più forte di tutti. Non piace ai fighetti, non appassiona gli esteti, poi tutti lo vorrebbero o l'avrebbero voluto perché quando trovi uno che segna con il pezzetto di plastica della stringa che si è appena slacciata, non puoi avere davvero nulla di meglio. Sono più di 15 anni che è così. Gol, gol, gol. Poi le critiche, ovvio. Perché con Pippo è successo quello che di solito accade con i trequartisti, con Baggio, Del Piero, Totti, Cassano. Cioè dividono: allora fino a un certo punto o lo adoravi o lo detestavi. Parrocchie e correnti. Poi qualcosa è cambiato. Poi è arrivata Atene e la doppietta nella finale di Champions. Tutti zitti. Applausi. Pippo ha ancora nemici, come tutti, solo che adesso non parlano più. Soffrono un po' a ogni gol e non sanno quando potranno smettere.
Beppe di Corrado, su Il Giornale del 29/11/2008
SuperPippo è uno dei pochi giocatori del Milan per il quale si spendono volentieri i soldi del biglietto o due ore dinanzi al televisore. Perché lui è calcio allo stato fuido: furore, malizia, intensità, inventiva, improvvisazione.
In un calcio ormai incapsulato negli schemi, i cui interpreti non si possono permettere libertà creative, Inzaghi è l'incubo del cobra che ti fulmina prima che tu possa pensare alla contromossa. La sua pericolosità di attaccante ricorda il Veleno interista degli anni 50 che, non a caso, è una memoria viva anche per chi l'ha conosciuto solo con il passaparola.
Ai miei occhi ha inoltre il grandissimo merito di avere rifiutato i condizionamenti tattici del suo allenatore, l'invito a ritornare a centrocampo o a marcare l'avversario difensore.
Per lui il campo, al massimo, sono i 13 metri dell'area, ma il suo habitat è l'area piccola e immediati dintorni.
Ancelotti non potendolo plasmare, per la sua irrinunciabilità si è inventato lo schema ad una punta, che ha un senso ed una credibilità solo se gioca Pippo. Con gli altri che l'hanno sostituito, è solo un favore agli avversari e la vera causa dell'impotenza offensiva del Milan.
19 novembre 2008
La classe dirigente craxiana
In un recente convegno sulla terza età ed oltre, tenutosi nella sala convegni della Banca Popolare di Milano, gli illustri e brillanti relatori hanno fissato al 2100 il target per il raggiungimento dei 120 anni della vita media umana.
Il mio forte auspicio è che la scienza avvicini quella scadenza in modo significativo, e non tanto per una egoistica personale attesa ma per consentire alla politica italiana di continuare ad attingere alla classe dirigente craxiana sopravvissuta alla cure di Di Pietro e soci.
Ultimo emblematico esempio è Sergio Zavoli. Non so chi l'abbia suggerito a Veltroni per la vigilanza Rai, ma certamente oltre che proba ed esperta persona (fu presidente Rai durante la Presidenza del Consiglio Craxi e prima fu uno degli inviati storici dell'emittente di stato), l'ottuagenario socialista romagnolo consente al sempre più frastornato Uolter di uscire da un buco in cui si era testardamente cacciato, e forse di liberarsi della subornazione dell'Italia dei Valori, i cui... valori eversivi ed il cui caravanserraglio girotondino offendono la democrazia ogni giorno di più.
Non credo che Zavoli sia l'ultimo craxiano di cui la politica avrà bisogno per uscire dalle sue misere ristrettezze.
Il problema è che il tempo fugge e che se la scienza non fa un miracolo con i traguardi di senescenza, corriamo il rischio di dovere giocare a briscola in futuro solo con maturi e inaciditi portaborse.
Il mio forte auspicio è che la scienza avvicini quella scadenza in modo significativo, e non tanto per una egoistica personale attesa ma per consentire alla politica italiana di continuare ad attingere alla classe dirigente craxiana sopravvissuta alla cure di Di Pietro e soci.
Ultimo emblematico esempio è Sergio Zavoli. Non so chi l'abbia suggerito a Veltroni per la vigilanza Rai, ma certamente oltre che proba ed esperta persona (fu presidente Rai durante la Presidenza del Consiglio Craxi e prima fu uno degli inviati storici dell'emittente di stato), l'ottuagenario socialista romagnolo consente al sempre più frastornato Uolter di uscire da un buco in cui si era testardamente cacciato, e forse di liberarsi della subornazione dell'Italia dei Valori, i cui... valori eversivi ed il cui caravanserraglio girotondino offendono la democrazia ogni giorno di più.
Non credo che Zavoli sia l'ultimo craxiano di cui la politica avrà bisogno per uscire dalle sue misere ristrettezze.
Il problema è che il tempo fugge e che se la scienza non fa un miracolo con i traguardi di senescenza, corriamo il rischio di dovere giocare a briscola in futuro solo con maturi e inaciditi portaborse.
08 novembre 2008
Lettere al Foglio
Risposta di Ferrara ad un lettore sull'obamismo di Veltroni
Veltroni è sempre sotto schiaffo, anche molto ingenerosamente, e la sua versione obamista non ne parliamo nemmeno. Ho sentito citare un efficace e greve detto siciliano ("Fottere con la minchia degli altri") per commentare le manifestazioni di entusiasmo veltroniano alla notizia del trionfo di Obama. Tutto bene. Non faccio moralismi né perbenismi. Ma basta un po' di fair play per riconoscere a Veltroni la convergenza del suo modo di fare politica e cultura con certi tratti obamiani. Che male c'è?
Veltroni è sempre sotto schiaffo, anche molto ingenerosamente, e la sua versione obamista non ne parliamo nemmeno. Ho sentito citare un efficace e greve detto siciliano ("Fottere con la minchia degli altri") per commentare le manifestazioni di entusiasmo veltroniano alla notizia del trionfo di Obama. Tutto bene. Non faccio moralismi né perbenismi. Ma basta un po' di fair play per riconoscere a Veltroni la convergenza del suo modo di fare politica e cultura con certi tratti obamiani. Che male c'è?
07 novembre 2008
Sulla giusta strada per essere Popolare
BPM: Lancia Euromutuo, tasso non più agganciato a Euribor
(ASCA) - Roma, 6 novembre - Si chiama Euromutuo ed ha il vantaggio di avere un tasso di interesse agganciato a quello ufficiale di riferimento della Banca centrale europea. E' questa la nuova tipologia di mutui offerta dal Gruppo Bipiemme (Banca Popolare di Milano, Banca di Legnano e Cassa di Risparmio di Alessandria) alle famiglie. I vantaggi per chi aderira' a questa proposta - informa un comunicato - sono significativi. Soprattutto il tasso, che essendo agganciato a quello ufficiale di riferimento della Banca centrale europea e non piu' a quello interbancario (Euribor) offre una maggiore trasparenza e una maggiore stabilita'.I primi mutui potranno essere sottoscritti nelle filiali del Gruppo Bipiemme fin da lunedi' prossimo e prevedono l'applicazione di uno spread, rispetto al tasso Bce, dell'1,50% e una durata massima di 30 anni.
(ASCA) - Roma, 6 novembre - Si chiama Euromutuo ed ha il vantaggio di avere un tasso di interesse agganciato a quello ufficiale di riferimento della Banca centrale europea. E' questa la nuova tipologia di mutui offerta dal Gruppo Bipiemme (Banca Popolare di Milano, Banca di Legnano e Cassa di Risparmio di Alessandria) alle famiglie. I vantaggi per chi aderira' a questa proposta - informa un comunicato - sono significativi. Soprattutto il tasso, che essendo agganciato a quello ufficiale di riferimento della Banca centrale europea e non piu' a quello interbancario (Euribor) offre una maggiore trasparenza e una maggiore stabilita'.I primi mutui potranno essere sottoscritti nelle filiali del Gruppo Bipiemme fin da lunedi' prossimo e prevedono l'applicazione di uno spread, rispetto al tasso Bce, dell'1,50% e una durata massima di 30 anni.
Gli Usa guardano con il fiato sospeso l'Italia
Se Berlusconi scimmiotta Ezio Greggio, lo fa per una intrinseca vocazione alle battute cretine. Tanto vale l'abbronzato dedicato ad Obama.
Discutiamo di infantilismo, ma buttarsi su una previsione apocalittica di crisi irriversibile dei rapporti USA-Italia, come fa l'eccitato Uolter, mi sembra eccessivo.
Questa militaresca difesa del presidente de noantri ricorda molto da vicino la divinizzazione di Baffone e del paradiso dei lavoratori.
Anche per i piddì è un DNA culturale impazzito, che ha sostituito l'Ovest all'Est. Tanto tutto è relativo, se è vero che la Siberia è l'Ovest della California.
La speranza è che i prossimi quattro anni in Italia non si giochino sul razzismo peloso visto da destra e da sinistra, ma piuttosto sulla realizzazione dei cambiamenti epocali che la più perfetta maccchina elettorale mai vista ha promesso agli Americani ed a tutti i sudditi dell'Impero.
L'unica certezza è che il Presidente degli Usa farà gli interessi del suo continente-paese e non si farà né intenerire n? tanto meno influenzare dalle sinistre post, pre e neo della sgangherata Europa.
Discutiamo di infantilismo, ma buttarsi su una previsione apocalittica di crisi irriversibile dei rapporti USA-Italia, come fa l'eccitato Uolter, mi sembra eccessivo.
Questa militaresca difesa del presidente de noantri ricorda molto da vicino la divinizzazione di Baffone e del paradiso dei lavoratori.
Anche per i piddì è un DNA culturale impazzito, che ha sostituito l'Ovest all'Est. Tanto tutto è relativo, se è vero che la Siberia è l'Ovest della California.
La speranza è che i prossimi quattro anni in Italia non si giochino sul razzismo peloso visto da destra e da sinistra, ma piuttosto sulla realizzazione dei cambiamenti epocali che la più perfetta maccchina elettorale mai vista ha promesso agli Americani ed a tutti i sudditi dell'Impero.
L'unica certezza è che il Presidente degli Usa farà gli interessi del suo continente-paese e non si farà né intenerire n? tanto meno influenzare dalle sinistre post, pre e neo della sgangherata Europa.
05 novembre 2008
Il trionfo di Uolter
Sono trascorsi 7 mesi ma la rivincita è stata trionfale. Sagacemente preparata alla Convention Democratica nella pauperistica pensioncina in cui era stato schiaffato con il suo seguito, animata da clamorose mobilitazioni di masse a Roma (ogni testa in piazza, benedetta da Uolter, conta 10), supportato dai campus dei pelandroni universitari, Veltroni ha travolto Berlusconi nell'unica vera competizione che conta: le Presidenziali del 4 Novembre.
Fratello gemello di Obama, suo ispiratore politico, guida spirituale, viene finalmente collocato al vertice politico mondiale da un consenso travolgente in Usa grazie alla campagna intelligente ed incisiva nelle birrerie di N.Y della Melandri, ministro a doppio passaporto, ed al supporto di tutti i media televisivi indipendenti peninsulari.
In attesa dell'incoronazione, Uolter per i prossimi 2 mesi si dedicherà ad intense cure abbrozzanti nei solarium di Roma ed alla stesura di un book di memorie sui retroscena di questa memorabile vittoria planetaria e sugli ostacoli messi in atto, ma inutilmente, da Max D'Alema detto il rosicone di Gallipoli.
Ça va sans dire che a Berlusconi verranno chieste fermamente le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio che, per volontà popolare planetaria e non banali e compiacenti sondaggi, non è più di sua competenza.
Unica angoscia è che il piduista, sempre ispirato da Gelli, inviti il gemello Obama ad una settimana di ferie su una delle isole di proprietà nei Caraibi, per stabilire vincoli di equivoca amicizia.
Fratello gemello di Obama, suo ispiratore politico, guida spirituale, viene finalmente collocato al vertice politico mondiale da un consenso travolgente in Usa grazie alla campagna intelligente ed incisiva nelle birrerie di N.Y della Melandri, ministro a doppio passaporto, ed al supporto di tutti i media televisivi indipendenti peninsulari.
In attesa dell'incoronazione, Uolter per i prossimi 2 mesi si dedicherà ad intense cure abbrozzanti nei solarium di Roma ed alla stesura di un book di memorie sui retroscena di questa memorabile vittoria planetaria e sugli ostacoli messi in atto, ma inutilmente, da Max D'Alema detto il rosicone di Gallipoli.
Ça va sans dire che a Berlusconi verranno chieste fermamente le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio che, per volontà popolare planetaria e non banali e compiacenti sondaggi, non è più di sua competenza.
Unica angoscia è che il piduista, sempre ispirato da Gelli, inviti il gemello Obama ad una settimana di ferie su una delle isole di proprietà nei Caraibi, per stabilire vincoli di equivoca amicizia.
31 ottobre 2008
Grand'Italia e dintorni (10)
“Madri e figlie unite nella lotta” dice Tito Boeri sulla Repubblica (31 ottorbe).
Madri e figlie? Dei rettori? Unite nella lotta? Per una cattedra?
“Racconterò questa Italia oscurata da un regime autoritario” dice Sabina Guzzanti alla Stampa (31 ottobre).
Splendide denunce magnificamente valorizzate dalla stampa nazionale e dalla tv pubblica, esattamente come succedeva ai dissidenti in Unione sovietica o agli antifascisti sotto Mussolini.
“Noi non possiamo stare dalla parte della conservazione” dice Giuseppe Fioroni al Corriere della Sera (31 ottobre).
E’ dura la vita del “democratico”, non solo gli tocca di difendere tutte le battaglie conservatrici, ma non può neanche condividerle.
Lodovico Festa, su L'Occidentale
Madri e figlie? Dei rettori? Unite nella lotta? Per una cattedra?
“Racconterò questa Italia oscurata da un regime autoritario” dice Sabina Guzzanti alla Stampa (31 ottobre).
Splendide denunce magnificamente valorizzate dalla stampa nazionale e dalla tv pubblica, esattamente come succedeva ai dissidenti in Unione sovietica o agli antifascisti sotto Mussolini.
“Noi non possiamo stare dalla parte della conservazione” dice Giuseppe Fioroni al Corriere della Sera (31 ottobre).
E’ dura la vita del “democratico”, non solo gli tocca di difendere tutte le battaglie conservatrici, ma non può neanche condividerle.
Lodovico Festa, su L'Occidentale
Inglese fantasma
A prosposito di "bontà della scuola italiana" (quella che i giovani comunisti in piazza in questi giorni non ritengono di dover riformare). Ieri sera il TG5 ha mandato in onda un servizio relativo all'ultima truffa sulle assicurazioni in Campania (ultima in ordine di tempo, mica ultima nel senso di definitiva). I carabinieri di Santa Maria Capua Vetere hanno denominato l'operazione crash ghost; la giornalista di turno ha spiegato che quel nome significa "incidente fantasma". Peccato che incidente fantasma si direbbe ghost crash. Ma c'è davvero bisogno di usare l'Inglese per dare un nome a quasi tutte le operazioni di polizia? Se proprio volete farlo, prima di tutto studiatevi la lingua di Shakespeare.
dal blog Ali e Radici
Al blog gemellato di Nautilus voglio fare notare che il vizio non è solo delle questure. L'inglese alla pizzaiola è una invasione che ci perseguita, come l'italiano sintetico: "assolutamente sì" vale "la misura in cui" dei sessantottini, ora rettori e docenti dei nostri disgraziati nipoti.
I fantocci televisivi, di loro, ci mettono una pronuncia da sagra paesana di chi la scuola l'ha frequentata di striscio e da turista ha fatto ridere tutta l'Europa.
Altro esempio emblematico. In Francese la "u" si pronuncia alla padana (come "posteriore" in lombardo). Gli spocchiosi cugini hanno avuto in dono dalla Storia decenni da occupanti per ficcarla in zucca, e non solo ai ricchi borghesi.
In Rai, Mediaset, etc. la "u" francese diventa "iu". Per intenderci, come se noi lombardi dicessimo "mi fa male il chiù" nel senso di centro di produzione del pensiero e non di discarica.
Tanto tutto è global per i peninsulari!
dal blog Ali e Radici
Al blog gemellato di Nautilus voglio fare notare che il vizio non è solo delle questure. L'inglese alla pizzaiola è una invasione che ci perseguita, come l'italiano sintetico: "assolutamente sì" vale "la misura in cui" dei sessantottini, ora rettori e docenti dei nostri disgraziati nipoti.
I fantocci televisivi, di loro, ci mettono una pronuncia da sagra paesana di chi la scuola l'ha frequentata di striscio e da turista ha fatto ridere tutta l'Europa.
Altro esempio emblematico. In Francese la "u" si pronuncia alla padana (come "posteriore" in lombardo). Gli spocchiosi cugini hanno avuto in dono dalla Storia decenni da occupanti per ficcarla in zucca, e non solo ai ricchi borghesi.
In Rai, Mediaset, etc. la "u" francese diventa "iu". Per intenderci, come se noi lombardi dicessimo "mi fa male il chiù" nel senso di centro di produzione del pensiero e non di discarica.
Tanto tutto è global per i peninsulari!
30 ottobre 2008
Facce da ONU
Simpathy for Devil
In diplomazia si devono stringere le mani. Le mani di tutti, anche dei più orrendi personaggi. Ma è fondamentale saperlo fare. Puoi anche dovere stringere la mano di Pol Pot, o di Pinochet, ma non puoi dare a lui e al mondo l’idea di trovarlo simpatico, di essergli amico, di divertirti. Romano Prodi, invece, ha stretto la mano a Mohammed Ahmadinejad, che di lì a poco gli ripeterà –sia pure con parole contorte- che vuole la fine di Israele, come ad un vecchio, caro amico.
Un sorriso sornione e cordiale sul faccione, i gesti disinvolti e amicali di chi ritrova un vecchio sodale, uno di cui hai fiducia, che rispetti. Questo è intollerabile. Prodi non è un cittadino qualsiasi e non solo perché è un ex presidente del Consiglio italiano e quindi ancora rappresenta in qualche modo nel mondo la nostra comunità nazionale. Prodi oggi ricopre un alto incarico dell’Onu. Quella stretta di mano all’antisemita Ahmadinejad, è dunque, semplicemente oscena e fa pensare, proietta una brutta ombra sul passato recente del governo presieduto da Prodi. Più volte, all’assemblea dell’Onu a New York nel 2007, e poi in molti strani incontri bilaterali con esponenti di primo piano dell’Iran, il governo Prodi ha condotto una strana “diplomazia parallela”, che ha inquietato non poco i paesi membri del “5più 1”. Incontri che hanno fatto sospettare molti che il governo dell’Unione facesse di tutto per mostrare a Teheran che era pronto a fornirgli una sponda per evitare di essere messo nell’angolo dalle sanzioni del Consiglio di Sicurezza per il suo programma nucleare e militare. Oggi, quella foto, quel volto pacioccone e sornione di Prodi, quel sorriso amico e troppo aperto di Ahamadinejad sono più che una conferma di quei sospetti.
Carlo Panella, su L'Occidentale del 30 ottobre 2008
In diplomazia si devono stringere le mani. Le mani di tutti, anche dei più orrendi personaggi. Ma è fondamentale saperlo fare. Puoi anche dovere stringere la mano di Pol Pot, o di Pinochet, ma non puoi dare a lui e al mondo l’idea di trovarlo simpatico, di essergli amico, di divertirti. Romano Prodi, invece, ha stretto la mano a Mohammed Ahmadinejad, che di lì a poco gli ripeterà –sia pure con parole contorte- che vuole la fine di Israele, come ad un vecchio, caro amico.
Un sorriso sornione e cordiale sul faccione, i gesti disinvolti e amicali di chi ritrova un vecchio sodale, uno di cui hai fiducia, che rispetti. Questo è intollerabile. Prodi non è un cittadino qualsiasi e non solo perché è un ex presidente del Consiglio italiano e quindi ancora rappresenta in qualche modo nel mondo la nostra comunità nazionale. Prodi oggi ricopre un alto incarico dell’Onu. Quella stretta di mano all’antisemita Ahmadinejad, è dunque, semplicemente oscena e fa pensare, proietta una brutta ombra sul passato recente del governo presieduto da Prodi. Più volte, all’assemblea dell’Onu a New York nel 2007, e poi in molti strani incontri bilaterali con esponenti di primo piano dell’Iran, il governo Prodi ha condotto una strana “diplomazia parallela”, che ha inquietato non poco i paesi membri del “5più 1”. Incontri che hanno fatto sospettare molti che il governo dell’Unione facesse di tutto per mostrare a Teheran che era pronto a fornirgli una sponda per evitare di essere messo nell’angolo dalle sanzioni del Consiglio di Sicurezza per il suo programma nucleare e militare. Oggi, quella foto, quel volto pacioccone e sornione di Prodi, quel sorriso amico e troppo aperto di Ahamadinejad sono più che una conferma di quei sospetti.
Carlo Panella, su L'Occidentale del 30 ottobre 2008
29 ottobre 2008
Sono le carte di credito la prossima bolla che travolgerà gli Usa
La scorsa settimana Innovest Avisors ha pubblicato un rapporto circa il possibile impatto delle carte di credito sulla finanza e sull’economia Americana.
A partire dagli anni ’90, la domanda USA è stata alimentata da un utilizzo massiccio delle carte di credito. Visa, American Express e JP Morgan hanno costruito un grandissimo business e hanno alimentato la spese di tutte le famiglie americane. Il ricorso al debito negli Stati Uniti è molto più diffuso che nel Vecchio Continente. Così pure i meccanismi delle carte di credito sono più complessi e sofisticati.
Le carte che vengono saldate ogni mese per le spese sostenute nel mese precedente sono poco diffuse. Infatti sono di gran lunga più popolari le carte cosiddette revolving. Quest’ultime in buona sostanza corrispondono all’erogazione di una linea di credito che prevede un meccanismo di rientro molto diluito nel tempo. In cambio le società che emettono le carte, fissano tassi di interesse altissimi che sfiorano il 19%.
Le stesse società emittenti inoltre, non effettuano una meticolosa selezione della clientela. Anzi concedono le carte revolving pure a soggetti non in grado di offrire adeguate garanzie o che hanno un rating pessimo. Avviene persino che alcuni famiglie rifinanzino una carta di credito ricorrendo all’emissione di una nuova e ulteriore carta per coprire il debito contratto in precedenza. Oppure operino una rivalutazione dell’immobile su cui grava un mutuo ed effettuino una compensazione con parte dell’ammontare dovuto per le carte revolving.
In analogia a quanto è avvenuto per i mutui subprime, le società emittenti lucrano sulla propria esposizione verso i clienti: il tasso di interesse applicato è tanto più alto quanto lo è il rischio.
Paradossalmente alle emittenti conviene che i soggetti non estinguano il proprio debito. E’ più redditizio un cliente che dilaziona nel tempo il proprio debito o richiede nuove linee di credito perché gli si potrà applicare un tasso di interesse sempre maggiore. Di conseguenza le stesse emittenti hanno creato un circuito in cui milioni di famiglie sono dipendenti in modo crescente dal debito da cui non possono prescindere per soddisfare le proprie necessità.
Robert Magging docente e ricercatore presso “Il Centro per gli Utenti di Servizi Finanziari” del Rochester Institute of Technology, si è interessato trai primi al fenomeno. Afferma che nel 1990 il debito delle famiglie americane era di 4 mila miliardi di dollari. Oggi raggiunge la soglia dei 13 mila miliardi. In particolare Magging sottolinea che il debito delle famigli per carte di credito revolving oggi ammonta a 950 miliardi di dollari a fronte dei 239 miliardi dei primi anni ’90.
Magging osserva che tali stime sono approssimative. Poichè i dati non includono i debiti rifinanziati mediante la rivalutazione degli immobili che potrebbero aggirarsi intorno ai 350 miliardi di dollari.
Milioni di famiglie dipendono quindi dalla rivalutazione dell’immobile per sostenere le proprie spese domestiche.
Pertanto la crisi dei subprime morgage che ha fatto crollare il valore degli immobili, impedisce a molte famiglie di accedere a quella liquidità con cui prima del credit crunch rifinanziavano i debiti delle carte di credito. Milioni di americani rischiano di divenire insolventi. E di non sostenere più la domanda dei consumi, determinando un netto rallentamento dell’economia e conseguenti perdite di posti di lavoro.
Ma non basta. Le società emittenti hanno ricavato liquidità per alimentare i crediti revolving cartolarizzando enormi masse di debito dei propri clienti. Hanno immesso sul mercato dei capitali titoli cartolari per 365 miliardi di dollari di cui hedge fund e fondi pensione sono stati imbottiti.
Se le stime sono corrette, si sta per abbattere sui mercati una nuova bolla. Con la differenza che i subprime hanno come collateral beni solidi e tangibili come le case su cui ci si può rivalere. Mentre le cartolarizzazioni derivanti dal meccanismo delle carte di credito non forniscono nulla di solido su cui rivalersi.
Purtroppo, il Piano Paulson non contempla alcun intervento a sostegno delle carte dei credito e delle relative cartolarizzazioni. I 700 miliardi devono essere già impiegati per fare ripartire il mercato dei commercial papers derivanti dai subpirme morgage.
Eppure il default delle carte di credito non può essere sottovaluto. Il fenomeno impatta ulteriormente sulla finanza globale. E rischia di mettere in ginocchio l’economia americana. Con il coinvolgimento delle altre economie collegate agli USA, inclusa quella Italiana
Zambon, su L'Occidentale del 29 ottobre 2008
A partire dagli anni ’90, la domanda USA è stata alimentata da un utilizzo massiccio delle carte di credito. Visa, American Express e JP Morgan hanno costruito un grandissimo business e hanno alimentato la spese di tutte le famiglie americane. Il ricorso al debito negli Stati Uniti è molto più diffuso che nel Vecchio Continente. Così pure i meccanismi delle carte di credito sono più complessi e sofisticati.
Le carte che vengono saldate ogni mese per le spese sostenute nel mese precedente sono poco diffuse. Infatti sono di gran lunga più popolari le carte cosiddette revolving. Quest’ultime in buona sostanza corrispondono all’erogazione di una linea di credito che prevede un meccanismo di rientro molto diluito nel tempo. In cambio le società che emettono le carte, fissano tassi di interesse altissimi che sfiorano il 19%.
Le stesse società emittenti inoltre, non effettuano una meticolosa selezione della clientela. Anzi concedono le carte revolving pure a soggetti non in grado di offrire adeguate garanzie o che hanno un rating pessimo. Avviene persino che alcuni famiglie rifinanzino una carta di credito ricorrendo all’emissione di una nuova e ulteriore carta per coprire il debito contratto in precedenza. Oppure operino una rivalutazione dell’immobile su cui grava un mutuo ed effettuino una compensazione con parte dell’ammontare dovuto per le carte revolving.
In analogia a quanto è avvenuto per i mutui subprime, le società emittenti lucrano sulla propria esposizione verso i clienti: il tasso di interesse applicato è tanto più alto quanto lo è il rischio.
Paradossalmente alle emittenti conviene che i soggetti non estinguano il proprio debito. E’ più redditizio un cliente che dilaziona nel tempo il proprio debito o richiede nuove linee di credito perché gli si potrà applicare un tasso di interesse sempre maggiore. Di conseguenza le stesse emittenti hanno creato un circuito in cui milioni di famiglie sono dipendenti in modo crescente dal debito da cui non possono prescindere per soddisfare le proprie necessità.
Robert Magging docente e ricercatore presso “Il Centro per gli Utenti di Servizi Finanziari” del Rochester Institute of Technology, si è interessato trai primi al fenomeno. Afferma che nel 1990 il debito delle famiglie americane era di 4 mila miliardi di dollari. Oggi raggiunge la soglia dei 13 mila miliardi. In particolare Magging sottolinea che il debito delle famigli per carte di credito revolving oggi ammonta a 950 miliardi di dollari a fronte dei 239 miliardi dei primi anni ’90.
Magging osserva che tali stime sono approssimative. Poichè i dati non includono i debiti rifinanziati mediante la rivalutazione degli immobili che potrebbero aggirarsi intorno ai 350 miliardi di dollari.
Milioni di famiglie dipendono quindi dalla rivalutazione dell’immobile per sostenere le proprie spese domestiche.
Pertanto la crisi dei subprime morgage che ha fatto crollare il valore degli immobili, impedisce a molte famiglie di accedere a quella liquidità con cui prima del credit crunch rifinanziavano i debiti delle carte di credito. Milioni di americani rischiano di divenire insolventi. E di non sostenere più la domanda dei consumi, determinando un netto rallentamento dell’economia e conseguenti perdite di posti di lavoro.
Ma non basta. Le società emittenti hanno ricavato liquidità per alimentare i crediti revolving cartolarizzando enormi masse di debito dei propri clienti. Hanno immesso sul mercato dei capitali titoli cartolari per 365 miliardi di dollari di cui hedge fund e fondi pensione sono stati imbottiti.
Se le stime sono corrette, si sta per abbattere sui mercati una nuova bolla. Con la differenza che i subprime hanno come collateral beni solidi e tangibili come le case su cui ci si può rivalere. Mentre le cartolarizzazioni derivanti dal meccanismo delle carte di credito non forniscono nulla di solido su cui rivalersi.
Purtroppo, il Piano Paulson non contempla alcun intervento a sostegno delle carte dei credito e delle relative cartolarizzazioni. I 700 miliardi devono essere già impiegati per fare ripartire il mercato dei commercial papers derivanti dai subpirme morgage.
Eppure il default delle carte di credito non può essere sottovaluto. Il fenomeno impatta ulteriormente sulla finanza globale. E rischia di mettere in ginocchio l’economia americana. Con il coinvolgimento delle altre economie collegate agli USA, inclusa quella Italiana
Zambon, su L'Occidentale del 29 ottobre 2008
28 ottobre 2008
Prepariamoci ad un quadriennio di monocolore democratico (negli Usa per fortuna!)
Obama torna messianico, i democratici si preparano a fare il pieno con i candidati pro aborto
New York. A una settimana esatta dalle elezioni presidenziali, il candidato democratico Barack Obama è sempre più in testa ai sondaggi elettorali nazionali e statali e ieri ha cominciato a portare in giro per l’America “l’argomento finale” della sua campagna elettorale, tornando ai toni lirici degli inizi della sua avventura: “Il cambiamento di cui abbiamo bisogno – ha detto Obama in Ohio – non riguarda soltanto nuovi programmi e nuove proposte, ma una nuova politica, una politica che si appella ai nostri migliori angeli, invece che incoraggiare i nostri peggiori istinti, che ci ricordi degli obblighi che abbiamo con noi stessi e uno con l’altro”. Il 4 novembre, però, non si vota soltanto per la presidenza degli Stati Uniti, ma come ogni due anni anche per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. La situazione per il Partito democratico non può essere migliore, al punto che per i democratici e il loro candidato presidenziale si prevede il miglior risultato degli ultimi quarantaquattro anni: non solo il controllo della presidenza e dei due rami del Congresso, come già durante i primi due anni di Bill Clinton, ma anche un mandato ampio per il presidente come nel 1964 e una maggioranza a prova di ostruzionismo al Congresso.I democratici controllano già di misura al Senato e abbastanza agevolmente alla Camera. Con il voto di martedì prossimo potrebbero strappare ai repubblicani altri cinque/nove seggi al Senato e venti/trenta alla Camera, sfruttando l’ondata pro Obama, ma anche l’oculata scelta di presentare in zone repubblicane candidati più conservatori che liberal. La strategia aveva funzionato già due anni fa, alle elezioni di metà mandato, quando sono stati eletti 47 deputati “blue dogs”, moderati e conservatori. In totale sono il 20 per cento del gruppo parlamentare democratico, ma in questi due anni non sono riusciti a emergere e a influenzare la leadership democratica. Ora ce n’è in arrivo almeno un’altra dozzina, hanno scritto il New York Times e Time. Candidati in zone conservatrici, questi probabili nuovi deputati democratici quasi non menzionano Obama nei loro comizi e fanno apertamente campagna elettorale contro l’aborto. Mai nella storia recente del Partito democratico s’era visto una legione di candidati anti aborto come quest’anno, malgrado la piattaforma del partito sia più pro choice del solito. Secondo Pete Wehner, ex capo del centro studi interno alla Casa Bianca di Bush, le probabili vittorie democratiche del 4 novembre non segnalano un cambiamento ideologico nel paese, ma in un certo senso provano che gli Stati Uniti siano un paese conservatore. L’approccio di Obama è moderato, l’oratoria a tratti conservatrice e ieri un gruppo di cristiani per Obama ha diffuso spot radiofonici in cui si sente Obama parlare della sua fede, della sua sottomissione a Cristo, del suo inginocchiarsi davanti alla croce.Le ultime risorse dei repubblicaniIl probabile successo dei democratici al Congresso sarà decisivo perché una solida maggioranza al Senato consentirà a Obama, in caso di elezione alla Casa Bianca, di poter far approvare la sua agenda politica senza grandi compromessi. Se i democratici raggiungeranno quota sessanta seggi al Senato (oggi ne hanno 51 con l’indipendente Joe Lieberman) toglieranno infatti ai repubblicani l’unica arma a loro disposizione per ostacolare le politiche democratiche – ovvero il filibustering, l’ostruzionismo fondamentale per influire sulla nomina di giudici federali e costituzionali. I repubblicani danno già per persa la partita in alcuni stati, mentre rischiano di perdere il posto il leader del Senato Mitch McConnell del Kentucky ed Elizabeth Dole della Nord Carolina, oltre a Norm Coleman del Colorado a vantaggio del comico Al Franken. La situazione è così drammatica che David Frum, ex speechwriter di George W. Bush e columnist del Foglio, in un articolo sul Washington Post ha suggerito ai repubblicani di utilizzare le ultime risorse finanziarie nelle elezioni senatoriali, piuttosto che nella campagna presidenziale di McCain. I repubblicani, ha scritto Frum, dovrebbero accettare l’ormai certa sconfitta di McCain e spiegare agli americani che non si possono permettere anche una maggioranza democratica e a prova di ostruzionismo al Congresso. McCain prova a fare il ragionamento opposto: ci sarà certamente un Congresso democratico, guidato da Nancy Pelosi e Harry Reid, quindi non ci possiamo permettere di consegnare a Obama anche la Casa Bianca. “E’ un ‘dangerous threesome’, un triangolo pericoloso – ha detto McCain – Se questi tre guideranno Washington saremo nei guai, amici miei. Ci sarà da mettere mano al portafoglio”.
Camillo, su Il Foglio del 28 ottobre 2008
New York. A una settimana esatta dalle elezioni presidenziali, il candidato democratico Barack Obama è sempre più in testa ai sondaggi elettorali nazionali e statali e ieri ha cominciato a portare in giro per l’America “l’argomento finale” della sua campagna elettorale, tornando ai toni lirici degli inizi della sua avventura: “Il cambiamento di cui abbiamo bisogno – ha detto Obama in Ohio – non riguarda soltanto nuovi programmi e nuove proposte, ma una nuova politica, una politica che si appella ai nostri migliori angeli, invece che incoraggiare i nostri peggiori istinti, che ci ricordi degli obblighi che abbiamo con noi stessi e uno con l’altro”. Il 4 novembre, però, non si vota soltanto per la presidenza degli Stati Uniti, ma come ogni due anni anche per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato. La situazione per il Partito democratico non può essere migliore, al punto che per i democratici e il loro candidato presidenziale si prevede il miglior risultato degli ultimi quarantaquattro anni: non solo il controllo della presidenza e dei due rami del Congresso, come già durante i primi due anni di Bill Clinton, ma anche un mandato ampio per il presidente come nel 1964 e una maggioranza a prova di ostruzionismo al Congresso.I democratici controllano già di misura al Senato e abbastanza agevolmente alla Camera. Con il voto di martedì prossimo potrebbero strappare ai repubblicani altri cinque/nove seggi al Senato e venti/trenta alla Camera, sfruttando l’ondata pro Obama, ma anche l’oculata scelta di presentare in zone repubblicane candidati più conservatori che liberal. La strategia aveva funzionato già due anni fa, alle elezioni di metà mandato, quando sono stati eletti 47 deputati “blue dogs”, moderati e conservatori. In totale sono il 20 per cento del gruppo parlamentare democratico, ma in questi due anni non sono riusciti a emergere e a influenzare la leadership democratica. Ora ce n’è in arrivo almeno un’altra dozzina, hanno scritto il New York Times e Time. Candidati in zone conservatrici, questi probabili nuovi deputati democratici quasi non menzionano Obama nei loro comizi e fanno apertamente campagna elettorale contro l’aborto. Mai nella storia recente del Partito democratico s’era visto una legione di candidati anti aborto come quest’anno, malgrado la piattaforma del partito sia più pro choice del solito. Secondo Pete Wehner, ex capo del centro studi interno alla Casa Bianca di Bush, le probabili vittorie democratiche del 4 novembre non segnalano un cambiamento ideologico nel paese, ma in un certo senso provano che gli Stati Uniti siano un paese conservatore. L’approccio di Obama è moderato, l’oratoria a tratti conservatrice e ieri un gruppo di cristiani per Obama ha diffuso spot radiofonici in cui si sente Obama parlare della sua fede, della sua sottomissione a Cristo, del suo inginocchiarsi davanti alla croce.Le ultime risorse dei repubblicaniIl probabile successo dei democratici al Congresso sarà decisivo perché una solida maggioranza al Senato consentirà a Obama, in caso di elezione alla Casa Bianca, di poter far approvare la sua agenda politica senza grandi compromessi. Se i democratici raggiungeranno quota sessanta seggi al Senato (oggi ne hanno 51 con l’indipendente Joe Lieberman) toglieranno infatti ai repubblicani l’unica arma a loro disposizione per ostacolare le politiche democratiche – ovvero il filibustering, l’ostruzionismo fondamentale per influire sulla nomina di giudici federali e costituzionali. I repubblicani danno già per persa la partita in alcuni stati, mentre rischiano di perdere il posto il leader del Senato Mitch McConnell del Kentucky ed Elizabeth Dole della Nord Carolina, oltre a Norm Coleman del Colorado a vantaggio del comico Al Franken. La situazione è così drammatica che David Frum, ex speechwriter di George W. Bush e columnist del Foglio, in un articolo sul Washington Post ha suggerito ai repubblicani di utilizzare le ultime risorse finanziarie nelle elezioni senatoriali, piuttosto che nella campagna presidenziale di McCain. I repubblicani, ha scritto Frum, dovrebbero accettare l’ormai certa sconfitta di McCain e spiegare agli americani che non si possono permettere anche una maggioranza democratica e a prova di ostruzionismo al Congresso. McCain prova a fare il ragionamento opposto: ci sarà certamente un Congresso democratico, guidato da Nancy Pelosi e Harry Reid, quindi non ci possiamo permettere di consegnare a Obama anche la Casa Bianca. “E’ un ‘dangerous threesome’, un triangolo pericoloso – ha detto McCain – Se questi tre guideranno Washington saremo nei guai, amici miei. Ci sarà da mettere mano al portafoglio”.
Camillo, su Il Foglio del 28 ottobre 2008
23 ottobre 2008
Circo Barnum Football Club
Avevo preso impegno di non parlare più di Milan. Dimessomi da abbonato, tifoso distratto, passionaccia sepellita sotto i ricordi.
In attesa dell'inevitabile ripulisti dirigenziale.
Indifferente a qualche discreto risultato in campionato, ma anche offeso da sconfitte amichevoli negli Emirati Musulmani d'Europa.
Ora Beckham.
A tutto c'è una misura.
Inoltre il circo non mi ha mai attratto, anche da bambino quando l'unico divertimento era guardare di sottecchi mio padre scompisciarsi dalle risate.
Pelato di Monza, se lui fosse ancora vivo, avresti conquistato quel tifoso in più che è la tua mission.
Ma i conti dei veri milanisti persi chi li tiene?
In attesa dell'inevitabile ripulisti dirigenziale.
Indifferente a qualche discreto risultato in campionato, ma anche offeso da sconfitte amichevoli negli Emirati Musulmani d'Europa.
Ora Beckham.
A tutto c'è una misura.
Inoltre il circo non mi ha mai attratto, anche da bambino quando l'unico divertimento era guardare di sottecchi mio padre scompisciarsi dalle risate.
Pelato di Monza, se lui fosse ancora vivo, avresti conquistato quel tifoso in più che è la tua mission.
Ma i conti dei veri milanisti persi chi li tiene?
06 ottobre 2008
Unicredit matura per l'associazione Amici
Ora è più forte l'asse Geronzi-Tremonti (Berlusconi)-Ligresti
Giù Alessandro Profumo, sale Cesare Geronzi. Il banchiere più indipendente e mitteleuropeo a cui tocca il destino cinico e baro di essere salvato proprio da quella Mediobanca da cui voleva prendere le distanze, ritenendola il crocevia degli intrecci incestuosi del salotto buono.
Sempre più forte l'asse Geronzi-Tremonti (Berlusconi)-Ligresti, che aggiunge un altro trofeo di caccia dopo quello di Corrado Passera conquistato con la vicenda Alitalia. Sempre più debole l'asse Bazoli-Profumo-Prodi-Pd con annessi manager e direttori di giornali. Lo ha capito anche Ferruccio de Bortoli che ieri ha passato il pomeriggio alla festa di An e Forza Italia a Milano, moderando il solito dibattito sonnacchioso ma soprattutto tubando con Ignazio La Russa, gran cerimoniere e anfitrione, da cui si aspetta un appoggio per il ritorno al Corriere della Sera. Ma il salto della quaglia è difficile. E Paolo Mieli dentro l'asse Geronzi-Ligresti c'è da 4 anni. Ce lo hanno messo loro, lì.
da Affari italiani.it
Tutto interessante ma periferico.
Il nocciolo è cosa ne pensano Modica e Botti , sentito Zaffra.
Sembra che ieri al Lido con De Bortoli sia stato notato Tettamanzi.
Diabolici gli Amici.
Giù Alessandro Profumo, sale Cesare Geronzi. Il banchiere più indipendente e mitteleuropeo a cui tocca il destino cinico e baro di essere salvato proprio da quella Mediobanca da cui voleva prendere le distanze, ritenendola il crocevia degli intrecci incestuosi del salotto buono.
Sempre più forte l'asse Geronzi-Tremonti (Berlusconi)-Ligresti, che aggiunge un altro trofeo di caccia dopo quello di Corrado Passera conquistato con la vicenda Alitalia. Sempre più debole l'asse Bazoli-Profumo-Prodi-Pd con annessi manager e direttori di giornali. Lo ha capito anche Ferruccio de Bortoli che ieri ha passato il pomeriggio alla festa di An e Forza Italia a Milano, moderando il solito dibattito sonnacchioso ma soprattutto tubando con Ignazio La Russa, gran cerimoniere e anfitrione, da cui si aspetta un appoggio per il ritorno al Corriere della Sera. Ma il salto della quaglia è difficile. E Paolo Mieli dentro l'asse Geronzi-Ligresti c'è da 4 anni. Ce lo hanno messo loro, lì.
da Affari italiani.it
Tutto interessante ma periferico.
Il nocciolo è cosa ne pensano Modica e Botti , sentito Zaffra.
Sembra che ieri al Lido con De Bortoli sia stato notato Tettamanzi.
Diabolici gli Amici.
03 ottobre 2008
I grandi la fanno fuori del vaso e la reproba BPM deve aggiustare i cocci
Unicredit ieri ha vissuto un altra seduta all'insegna della volatilità, complice l'intonazione positiva dei mercati dopo l'ok del Senato americano al piano di salvataggio dei mercati finanziari prima e la loro flessione conseguente ai deludenti macroecconomici americani.
Nonostante l'agenzia Fitch abbia abbassato le prospettive sul rating di lungo termine della banca (rimasto invariato ad A+) da positivo a negativo definendo «molto stretta» la capitalizzazione della società, il sentiment borsistico sul titolo della banca guidata da Alessandro Profumo sembra essere mutato rispetto ai giorni scorsi. Dal pessimismo cupo si è passati a un ottimismo molto cauto. Il primo che ha cercato di rasserenare gli animi è stato il Governatore di Bankitalia Mario Draghi che ha rassicurato sulla solidità delle banche italiane, rassicurazione che verosimilmente non avrebbe potuto dare se Unicredit fosse stata in serie difficoltà.
A gettare acqua sul fuoco della speculazione ha provveduto la Consob che l'altroieri, invero un po' tardivamente, ha ulteriormente stretto la possibilità di vendere allo scoperto sui titoli finanziari, disinnescando di fatto la speculazione su Unicredit. Una volta sedata la follia dello short selling sul titolo, il mercato ha potuto tornare a concentrarsi nuovamente sui fondamentali ella società. E i numeri, secondo la maggior parte degli analisti, dicono che le quotazioni di Unicredit incorporano uno scenario da «Armageddon». In pratica le attuali quotazioni del titolo sarebbero giustificate se lo scenario economico mondiale fosse molto più compromesso di quello attuale. Dopo l'intervista di Profumo al Tg1, in cui l'a.d. ha confermato che la propria banca è sana e ha ribadito la smentita delle indiscrezioni sulla sua possibili dimissioni, ieri Unicredit ha segnato un segnale di fiducia molto importante al mercato annunciando il lancio di un'emissione obbligazionaria a due anni e tre mesi, composta da una tranche a tasso fisso e da una a tasso variabile, destinata al pubblico indistinto.
Rivolgersi al mercato retail in questo momento per chiedere liquidità non è da tutti. Segno che gli uomini di Profumo sono convinti di riuscire a vendere i titoli. E le prime indiscrezioni sull'andamento del collocamento, che avrebbe registrato prenotazioni per circa il 30% del totale dell'emissione nelle prime ore dal lancio sembrerebbero dare loro ragione. Insieme alla speculazioni sono scemate le indiscrezioni su possibili offerte da parte di banche estere e italiane per rilevare Unicredit. La più suggestiva di quelle circolate nei giorni scorsi voleva un interessamento congiunto di Santander e Intesa Sanpaolo per la banca guidata da Alessandro Profumo. Al di là delle possibili suggestioni, appare abbastanza difficile allo stato che Unicredit possa divenire una preda. In primo luogo perché forte dei suoi 37 miliardi circa di capitalizzazione è un boccone troppo grosso, anche per banche ben capitalizzate, in questa fase di mercato. Al di là delle rassicurazioni del presidemte del Consiglio, inoltre, appare abbastanza improbabile che Bankitalia possa dare il via libera a un take over ostile di Unicredit, che incontrerebbe anche la contrarietà della Bundesbank tedesca, visto che la Germania è il secondo mercato domestico di Unicredit dopo l'acquisizione di Hvb. Quindi qualora mai dovesse essere necessario un salvataggio di Unicredit, e oggi certo non ve ne sono i presupposti, questo arriverebbe dall'Italia o dalla Germania. Più di un osservatore fa notare che se Draghi volesse potrebbe mettere in sicurezza Unicredit favorendo o rilanciando il progetto di integrazione con la Popolare di Milano.
L'eventualità di un merger fra le due realtà era stato studiato prima che Unicredit decidesse la fusione con Capitalia e la Bpm tentasse l'integrazione, poi fallita, con la Popolare Emilia Romagna. Da allora il dossier non è stato più ripreso in mano né risulta che nessuna delle due banche lo stia studiando. Nonostante da allora sia variato il perimetro di Unicredit l'operazione sarebbe ancora razionale da un punto di vista industriale. Le sovrapposizioni territoriali sarebbero minime e l'Opa lanciata recentemente da Bpm su Anima consentirebbe alla banca guidata da Roberto Mazzotta di portare in dote una massa critica interessante nell'asset management che andrebbe a risolvere i problemi dimensionali di Pioneer. Inoltre Bpm è molto liquida e quindi il matrimonio archivierebbe anche ogni timore residuo sui coefficienti patrimoniali di Unicredit.
Il matrimonio con Unicredit risolverebbe poi, una volta per sempre, i problemi di governance della popolare milanese caratterizzata da uno strapotere dei dipendenti soci che Draghi ha dimostrato di non gradire affatto.
da Il Tempo, del 3 ottobre 2008
Nonostante l'agenzia Fitch abbia abbassato le prospettive sul rating di lungo termine della banca (rimasto invariato ad A+) da positivo a negativo definendo «molto stretta» la capitalizzazione della società, il sentiment borsistico sul titolo della banca guidata da Alessandro Profumo sembra essere mutato rispetto ai giorni scorsi. Dal pessimismo cupo si è passati a un ottimismo molto cauto. Il primo che ha cercato di rasserenare gli animi è stato il Governatore di Bankitalia Mario Draghi che ha rassicurato sulla solidità delle banche italiane, rassicurazione che verosimilmente non avrebbe potuto dare se Unicredit fosse stata in serie difficoltà.
A gettare acqua sul fuoco della speculazione ha provveduto la Consob che l'altroieri, invero un po' tardivamente, ha ulteriormente stretto la possibilità di vendere allo scoperto sui titoli finanziari, disinnescando di fatto la speculazione su Unicredit. Una volta sedata la follia dello short selling sul titolo, il mercato ha potuto tornare a concentrarsi nuovamente sui fondamentali ella società. E i numeri, secondo la maggior parte degli analisti, dicono che le quotazioni di Unicredit incorporano uno scenario da «Armageddon». In pratica le attuali quotazioni del titolo sarebbero giustificate se lo scenario economico mondiale fosse molto più compromesso di quello attuale. Dopo l'intervista di Profumo al Tg1, in cui l'a.d. ha confermato che la propria banca è sana e ha ribadito la smentita delle indiscrezioni sulla sua possibili dimissioni, ieri Unicredit ha segnato un segnale di fiducia molto importante al mercato annunciando il lancio di un'emissione obbligazionaria a due anni e tre mesi, composta da una tranche a tasso fisso e da una a tasso variabile, destinata al pubblico indistinto.
Rivolgersi al mercato retail in questo momento per chiedere liquidità non è da tutti. Segno che gli uomini di Profumo sono convinti di riuscire a vendere i titoli. E le prime indiscrezioni sull'andamento del collocamento, che avrebbe registrato prenotazioni per circa il 30% del totale dell'emissione nelle prime ore dal lancio sembrerebbero dare loro ragione. Insieme alla speculazioni sono scemate le indiscrezioni su possibili offerte da parte di banche estere e italiane per rilevare Unicredit. La più suggestiva di quelle circolate nei giorni scorsi voleva un interessamento congiunto di Santander e Intesa Sanpaolo per la banca guidata da Alessandro Profumo. Al di là delle possibili suggestioni, appare abbastanza difficile allo stato che Unicredit possa divenire una preda. In primo luogo perché forte dei suoi 37 miliardi circa di capitalizzazione è un boccone troppo grosso, anche per banche ben capitalizzate, in questa fase di mercato. Al di là delle rassicurazioni del presidemte del Consiglio, inoltre, appare abbastanza improbabile che Bankitalia possa dare il via libera a un take over ostile di Unicredit, che incontrerebbe anche la contrarietà della Bundesbank tedesca, visto che la Germania è il secondo mercato domestico di Unicredit dopo l'acquisizione di Hvb. Quindi qualora mai dovesse essere necessario un salvataggio di Unicredit, e oggi certo non ve ne sono i presupposti, questo arriverebbe dall'Italia o dalla Germania. Più di un osservatore fa notare che se Draghi volesse potrebbe mettere in sicurezza Unicredit favorendo o rilanciando il progetto di integrazione con la Popolare di Milano.
L'eventualità di un merger fra le due realtà era stato studiato prima che Unicredit decidesse la fusione con Capitalia e la Bpm tentasse l'integrazione, poi fallita, con la Popolare Emilia Romagna. Da allora il dossier non è stato più ripreso in mano né risulta che nessuna delle due banche lo stia studiando. Nonostante da allora sia variato il perimetro di Unicredit l'operazione sarebbe ancora razionale da un punto di vista industriale. Le sovrapposizioni territoriali sarebbero minime e l'Opa lanciata recentemente da Bpm su Anima consentirebbe alla banca guidata da Roberto Mazzotta di portare in dote una massa critica interessante nell'asset management che andrebbe a risolvere i problemi dimensionali di Pioneer. Inoltre Bpm è molto liquida e quindi il matrimonio archivierebbe anche ogni timore residuo sui coefficienti patrimoniali di Unicredit.
Il matrimonio con Unicredit risolverebbe poi, una volta per sempre, i problemi di governance della popolare milanese caratterizzata da uno strapotere dei dipendenti soci che Draghi ha dimostrato di non gradire affatto.
da Il Tempo, del 3 ottobre 2008
19 settembre 2008
Addio Fausto
Si allunga paurosamente la fila di quelli che mi guardano dall'altra parte, coetanei o quasi.
Ieri se ne è andato Fausto Gardini, uno dei miti della mia gioventù, eroe del tennis in bianco e nero, non ancora professionistico. Quelli che ne capiscono, io no, scrivevano che aveva uno stile sgangherato, l'esatto contrario del principe Pietrangeli, tutto perfezione di geometrie e genialità.
Lui era un combattente iroso, capace di annullare al suo storico rivale italiano 8 punti decisivi e poi andare a vincersi al quinto set un campionato d'Italia.
Lo vidi dal vivo a Firenze in una Davis Italia-Russia, sentii le sue grida belluine mentre recuperava palle che solo l'atletismo dei Nadal di oggi possono consentire.
Era brutto, sgraziato, ma un guerriero come non se ne sono visti più nel tennis italiano. Dopo pochi minuti portava al parossismo il pubblico di casa, all'isteria quello avversario, meglio se era quello del centrale di Roma.
Ha lasciato il tennis una vita fa, senza chiedere medagliette federali come hanno fatto tutti gli altri, fuoriclasse e mediocri, da Pietrangeli in poi.
Di atleti come lui si è perso lo stampo, dicevano i miei vecchi.
Lievi ti siano le zolle, Fausto!
Ieri se ne è andato Fausto Gardini, uno dei miti della mia gioventù, eroe del tennis in bianco e nero, non ancora professionistico. Quelli che ne capiscono, io no, scrivevano che aveva uno stile sgangherato, l'esatto contrario del principe Pietrangeli, tutto perfezione di geometrie e genialità.
Lui era un combattente iroso, capace di annullare al suo storico rivale italiano 8 punti decisivi e poi andare a vincersi al quinto set un campionato d'Italia.
Lo vidi dal vivo a Firenze in una Davis Italia-Russia, sentii le sue grida belluine mentre recuperava palle che solo l'atletismo dei Nadal di oggi possono consentire.
Era brutto, sgraziato, ma un guerriero come non se ne sono visti più nel tennis italiano. Dopo pochi minuti portava al parossismo il pubblico di casa, all'isteria quello avversario, meglio se era quello del centrale di Roma.
Ha lasciato il tennis una vita fa, senza chiedere medagliette federali come hanno fatto tutti gli altri, fuoriclasse e mediocri, da Pietrangeli in poi.
Di atleti come lui si è perso lo stampo, dicevano i miei vecchi.
Lievi ti siano le zolle, Fausto!
17 settembre 2008
Questa estate ho letto (2008)
I mesi caldi, la spiaggia, il sopore del fare niente, sono notoriamente propizi alla lettura. Quest'anno ci ho dato dentro con gusto e con la fortuna di alcune ottime scelte.
Muriel Barbery: L'eleganza del riccio
In classifica da un anno, quindi mi accosto con diffidenza temendo boiate alla Moccia o alla Tamaro. Libro delizioso, commovente, scritto con simpatica raffinatezza. Un'opera veramente educativa, da tenere fra i volumi che si devono rileggere nei momenti di piattezza esistenziale.
Piero Chiara: Il verde della tua veste ed altri racconti
Per noi che amiamo il maestro di Luino è uno stupefacente reincontro questa operina inedita di racconti. Si ritrovano le atmosfere, il mondo lacustre, il dotto e brioso narratore che affascinò la mia maturità.
Cornac McCarty: Sunset Limited
Dell'autore della Strada. Un'opera breve e possente come una sinfonia. Stile narrativo ineguagliabile. La titanica lotta dialettica fra un demone ed un angelo e la sua amara conclusione.
Georges Simenon: Il Treno
C'è tutta l'abilità narrativa di S., la capacità di fare vivere trame e di impadronirsi del lettore, la triste inesorabilità del compimento del nostro destino di morte.
Sebastiano Vassalli: Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni
Lontani gli anni della Chimera e dell'invenzione narrativa, ma è sempre piacevole leggerlo anche ora che si atteggia ad ecopessimista.
Luciano de Crescenzo: Il caffè sospeso
Che dire? Anche se hai l'impressione di rileggere le stesse pagine dei primi libri è un amico che ti tiene allegro e ti fa amare questa napoletanità di pura fantasia.
Laura Fitzgerald: Colazione da Starbucks
L'iniziazione di una donna iraniana in permesso provvisorio negli Usa al mondo capitalista e la sua ricerca affannosa di un marito che la salvi dal ritorno all'inferno. La grazia dell'autrice riesce a colorare, con pungenti note sociologiche e venature di sensibiltà femminile, una storia forse un po' inverosimile e certamente un po' troppo filoamericana. Esemplare la rappresentazione della comunità persiana trapiantata negli Usa.
Geronimo: La politica del cuore
Pomicino non aggiunge molto al suo precedente libro. Immaginifica esaltazione della taumaturgica capacità di governo politico della DC, nefandezze dei magistrati di Mani Pulite, simpatia per gli alleati di allora. Ma non è mai banale e si legge con una vena di nostalgia per un'epoca della politica in cui i nanetti non erano leader ma portaborse.
Muriel Barbery: L'eleganza del riccio
In classifica da un anno, quindi mi accosto con diffidenza temendo boiate alla Moccia o alla Tamaro. Libro delizioso, commovente, scritto con simpatica raffinatezza. Un'opera veramente educativa, da tenere fra i volumi che si devono rileggere nei momenti di piattezza esistenziale.
Piero Chiara: Il verde della tua veste ed altri racconti
Per noi che amiamo il maestro di Luino è uno stupefacente reincontro questa operina inedita di racconti. Si ritrovano le atmosfere, il mondo lacustre, il dotto e brioso narratore che affascinò la mia maturità.
Cornac McCarty: Sunset Limited
Dell'autore della Strada. Un'opera breve e possente come una sinfonia. Stile narrativo ineguagliabile. La titanica lotta dialettica fra un demone ed un angelo e la sua amara conclusione.
Georges Simenon: Il Treno
C'è tutta l'abilità narrativa di S., la capacità di fare vivere trame e di impadronirsi del lettore, la triste inesorabilità del compimento del nostro destino di morte.
Sebastiano Vassalli: Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni
Lontani gli anni della Chimera e dell'invenzione narrativa, ma è sempre piacevole leggerlo anche ora che si atteggia ad ecopessimista.
Luciano de Crescenzo: Il caffè sospeso
Che dire? Anche se hai l'impressione di rileggere le stesse pagine dei primi libri è un amico che ti tiene allegro e ti fa amare questa napoletanità di pura fantasia.
Laura Fitzgerald: Colazione da Starbucks
L'iniziazione di una donna iraniana in permesso provvisorio negli Usa al mondo capitalista e la sua ricerca affannosa di un marito che la salvi dal ritorno all'inferno. La grazia dell'autrice riesce a colorare, con pungenti note sociologiche e venature di sensibiltà femminile, una storia forse un po' inverosimile e certamente un po' troppo filoamericana. Esemplare la rappresentazione della comunità persiana trapiantata negli Usa.
Geronimo: La politica del cuore
Pomicino non aggiunge molto al suo precedente libro. Immaginifica esaltazione della taumaturgica capacità di governo politico della DC, nefandezze dei magistrati di Mani Pulite, simpatia per gli alleati di allora. Ma non è mai banale e si legge con una vena di nostalgia per un'epoca della politica in cui i nanetti non erano leader ma portaborse.
Alitalia, vergogna d'Italia
Due anni fa inauguravo questo blog nel mezzo di una delle infinite crisi epocali dell'Alitalia. Allora facevo considerazioni sul livello di litigiosità, sindacale e di servizio, di questa compagnia e concludevo che gli italiani che ancora desideravano farsi del male volando Alitalia erano ostaggi di una proterva banda di facinorosi sindacalizzati. Il titolo, se non ricordo male, era meglio il fallimento che cancellasse per sempre un nome ed il ricordo di uno scempio comportamentale.
Io ovviamente non volo Alitalia da anni. L'ultima volta fu un Budapest-Milano in cui mi sentii apostrofare da una cameriera di bordo: «Aò, che vo'».
In questi giorni si sta dipanando, sotto la regia di Berlusconi e lo sguardo attonito di una decina di capitalisti sado-masochisti che sono stati indotti ad investire in questo pattume di compagnia, un teatrino di ineguagliabile comicità. Gente che porta la responsabilità materiale e morale del fallimento di fatto di Alitalia, che strepita su piani strategici che non gli aggradano, mobilità dorate, confederali che giocano gli ultimi atti di una protagonismo velenoso, cameriere di bordo che rivendicano il mantenimento di privilegi salariali inauditi sfilando per le vie di Roma, pazzarielli napoletani che fingono di bruciarsi in piazza, un ministro del lavoro che ogni ora cala le braghe sino a mostrare le impudicizie.
Il liquidatore Fantozzi, nomen omen, osserva esterrefatto e pensa che forse settimana prossima non potrà pagare la benzina avio.
Domani il circo dovrebbe finire per esaurimento delle forze.
Mi auguro che venerdì Fantozzi salga le scale del Tribunale fallimentare di Roma.
Io ovviamente non volo Alitalia da anni. L'ultima volta fu un Budapest-Milano in cui mi sentii apostrofare da una cameriera di bordo: «Aò, che vo'».
In questi giorni si sta dipanando, sotto la regia di Berlusconi e lo sguardo attonito di una decina di capitalisti sado-masochisti che sono stati indotti ad investire in questo pattume di compagnia, un teatrino di ineguagliabile comicità. Gente che porta la responsabilità materiale e morale del fallimento di fatto di Alitalia, che strepita su piani strategici che non gli aggradano, mobilità dorate, confederali che giocano gli ultimi atti di una protagonismo velenoso, cameriere di bordo che rivendicano il mantenimento di privilegi salariali inauditi sfilando per le vie di Roma, pazzarielli napoletani che fingono di bruciarsi in piazza, un ministro del lavoro che ogni ora cala le braghe sino a mostrare le impudicizie.
Il liquidatore Fantozzi, nomen omen, osserva esterrefatto e pensa che forse settimana prossima non potrà pagare la benzina avio.
Domani il circo dovrebbe finire per esaurimento delle forze.
Mi auguro che venerdì Fantozzi salga le scale del Tribunale fallimentare di Roma.
05 settembre 2008
I proprietari di una volta
Non c'è più il calcio di una volta, per non parlare dei proprietari di una volta. L'ennesimo colpo di un miliardario slegato da logiche di appartenenza, per nascita o per tifo, è importante perché questa volta non ha creato scandalo né reazioni negative. La triste verità è che chi non crede in niente si abitua a tutto: in Italia a città governate dalla criminalità organizzata e disorganizzata, ad oratori cattolici affittati per il Ramadan, all'evasione fiscale come grande risposta liberale nei confronti dello Stato oppressore, in Inghilterra non sappiamo. Torniamo a noi, anzi a loro: lo sceicco Sulamain Al-Fahim, uno degli uomini più ricchi di Abu Dhabi e quindi del mondo, ha come tutti sanno acquistato il Manchester City per circa 250 milioni di euro e si è presentato portando al popolo bue la stellina Robinho per circa 45 milioni superando anche l'offerta di Abramovich. Tutto preso dalla maggioranza con filosofia, stando a giornali e blog di tifosi che invece al suo predecessore non avevano risparmiato critiche e linciaggi mediatici. Il Berlusconi thailandese (per politica, da primo ministro, e televisioni possedute) Thaksin Shinawatra, e anche il Berlusconi vero però sono poca cosa rispetto agli interessi non solo personali rappresentati dallo sceicco, leader di un gruppo che vale più di mille miliardi euro (non abbiamo scritto male: centesimo più centesimo meno significa un decimo del PIL degli Stati Uniti ed il quintuplo di quello italiano). Dimensioni che si faticano anche solo ad immaginare, senza alcun merito dei primatisti in classifica a parte quello di nascere sopra un giacimento di petrolio (Abramovich e Berlusconi, con tutto il male che si può dire di loro, qualche capacità hanno almeno dovuto dimostrarla) , e che spiegano meglio dei nostri articoletti moraleggianti perché il calcio europeo, per non parlare dell'Europa, sia in pericolo. Ovviamente non lo capivamo quando l'uomo simbolo della nazionale brasiliana era orgoglioso di giocare in una nostra provinciale, anzi all'epoca tutto ci sembrava dovuto. Qualcuno non lo capisce nemmeno quando si vede costretto ad esaltare questa specie di NASL presuntuosa che è diventata la serie A, che fabbrica statue equestri agli scarti di Barcellona e Chelsea o a chi ha stracciato un contratto arabo solo per rischio insolvenza, venendo premiato con un ruolo da dirigente in pectore. Magari il concetto sarà più chiaro quando un fondo sovrano di uno stato canaglia comprerà, mettiamo, la Juventus. Senza arrivare agli estremi del 'vero Manchester United' che riparte dai dilettanti o a quelli del Wimbledon anti Milton Keynes, non è razzismo osservare che il calcio e chi lo dirige (per noi anche chi lo gioca) non possano essere slegati da chi lo guarda. Ognuno fa i suoi interessi, ma il rapporto dei Moratti e dei Sensi con Inter e Roma è strutturalmente diverso da quello dei Glazer con il Manchester United, di Hicks e Gillette con il Liverpool o di Gaydamak con il Portsmouth. Per non parlare dello sceicco, che da bambino di sicuro non è cresciuto con il mito di Bert Trautmann o di Mike Summerbee. Perché il calcio non è un grande sport, come contenuti tecnici ed etici, ed è spesso osceno come spettacolo. E' la vita di molte persone, però. Vita che fa schifo, ma per la quale ci hanno offerto Robinho. Vendiamo?
di Stefano Olivari, su Indiscreto
Con ricchezza di riferimenti e di argomenti, Olivari conferma una mia crepuscolare convinzione sul futuro del Milan.
Finito il boom televisivo e l'immenso indotto che si trascina, ridimensionati gli introiti ai soli spettatori, che nel frattempo sono scappati disgustati da stadi angusti e dominati da bande di teppisti, l'alternativa al fallimento saranno i fondi sovrani arabi che finanzieranno un campionato europeo stile Nba.
Si può prolungare l'agonia ma lì finirà, superprofessionalizzato, un calcio che ha smesso di essere sport da almeno vent'anni.
di Stefano Olivari, su Indiscreto
Con ricchezza di riferimenti e di argomenti, Olivari conferma una mia crepuscolare convinzione sul futuro del Milan.
Finito il boom televisivo e l'immenso indotto che si trascina, ridimensionati gli introiti ai soli spettatori, che nel frattempo sono scappati disgustati da stadi angusti e dominati da bande di teppisti, l'alternativa al fallimento saranno i fondi sovrani arabi che finanzieranno un campionato europeo stile Nba.
Si può prolungare l'agonia ma lì finirà, superprofessionalizzato, un calcio che ha smesso di essere sport da almeno vent'anni.
Italia coatta
I figli di Grillo
Al Festival di Venezia, trasformato in Multisala delle Emozioni, ieri è stata la giornata delle esternazioni forti: due, e pressoché in contemporanea. Una di Adriano Celentano, precursore e maestro del genere «esternescion», che ha attaccato nell’ordine (si fa per dire) i «politici degenerati» Berlusconi e Veltroni, la cordata per Alitalia, Formigoni e Moratti «genitori di Frankenstein» (questa però fa ridere...). E il parcheggio del Pincio, Chicco Testa «senza testa», Alemanno, l’Expo di Milano e parecchio altro. L’altra del regista Mimmo Calopresti, autore commosso del commovente film La fabbrica dei tedeschi sulla strage alla ThyssenKrupp, che dopo avere passato qualche mese a girare e montare scene di lacrime e sangue ne è uscito, e se ne è uscito, lui di sinistra, con una raffica di critiche anche contro il sindacato che «pensa solo al pil» mentre la gente muore. Parole diverse di due artisti diversi. Che vanno a riversarsi nell’immane calderone delle dichiarazioni pronunciate o urlate ormai tutti i santi giorni, da tutti i pulpiti, in tutti i telegiornali e su molti giornali, e da esternatori di ineguale competenza ed efficacia. Ne siamo inondati, ne siamo frastornati. Al punto che si rischia di pensare che sia tutta la stessa materia indistinta e gridata: un mix di furbizia, protagonismo, scorciatoie demagogiche. Ma le parole sono creature delicate. Come distinguere quelle autentiche da quelle «paracule», quelle che davvero dicono dalle altre soltanto autopromozionali? Un outsider pensoso come Calopresti non rischia forse di gettare il suo sasso nello stesso stagno dove navigano - da anni - esternatori per hobby o per professione? Come per altri comparti della cultura di massa, e massificata, manca un vaglio che lasci filtrare solo le pepite, e scarichi altrove i detriti, la massa inerte delle parole insignificanti, dette tanto per dire, tanto per avere due minuti di popolarità sui teleschermi della sera o cinque righe nelle edicole dell'indomani. E in questa omissione di giudizio non si può certo dire che i media (quasi tutti) brillino per vigilanza, e soprattutto per sobrietà. Ci sono dichiaratori quotidiani (per esempio Gasparri, che esterna a mitraglia) che finiscono per avere lo stesso spazio, e dunque ahimè lo stesso peso, di filosofi originali e parchi, o di pensatori spiazzanti.Bisognerebbe inventare una critica delle esternazioni e delle dichiarazioni da giornale. Qualcuno che valuti e metta in guardia contro gli effettacci, i titoli facili, la parola rumorosa e vuota. Che ristabilisca una gerarchia delle parole, non tutte eguali come la ghiaia sonora che crepita ovunque. Magari che commini squalifiche (come il giudice sportivo) per chi prevarica o imbroglia o esagera, costringendolo a saltare almeno un turno: hai già dichiarato ieri, fatti da parte. Che misuri le competenze e denunci le incompetenze, perché l’universo mediatico pullula di pareri (a volte perfino richiesti: ed è quasi istigazione a delinquere...) che non hanno alcuna titolarità, non discendono da esperienze, da saperi, da pensieri, da emozioni vere (come quella di Calopresti), ma solo da un microfono aperto, e aperto quasi per chiunque passi nelle vicinanze.Perfino Celentano, che pure di esternazioni è un campione indiscusso (i giornali lo chiamano guru, speriamo che lui se la rida), rischia di ritrovarsi a imitare se stesso. Cominciò a sparare sul pianista quando la comunicazione aveva toni e volumi decisamente più soft. Un pioniere. Un inventore. Ora il frastuono del saloon è tale, che neanche ci si domanda più il significato, giusto o sbagliato, di quello che si dice. Il dopo Grillo & C. è un territorio dove la voce umana è diventata così esondante, e invadente, e strumentale, che cercare la misura delle parole potrebbe essere l'unico modo per farsi ascoltare davvero.
di G. Zucconi, sulla Stampa
Perfetto quadro della nostra contemporaneità burina, di cui Celentano è un analfabeta precursore.
Aggiungiamoci i vezzi da middle-class (assolutamente sì, assolutamente no), facciamo un bell'applauso ai funerali, il festival delle banalità nelle interviste al volo per strada, gli idoli televisivi dei grandi fratelli nell'isola, il dramma dell'ultima settimana del mese evocato sulle spiagge della Sardegna, lo stato deve fare lo stato con gli sfasciacarrozze degli stadi e, ultimo tic, speriamo che vinca Obama per salvare la democrazia.
Siamo o non siamo la culla della civiltà?
Al Festival di Venezia, trasformato in Multisala delle Emozioni, ieri è stata la giornata delle esternazioni forti: due, e pressoché in contemporanea. Una di Adriano Celentano, precursore e maestro del genere «esternescion», che ha attaccato nell’ordine (si fa per dire) i «politici degenerati» Berlusconi e Veltroni, la cordata per Alitalia, Formigoni e Moratti «genitori di Frankenstein» (questa però fa ridere...). E il parcheggio del Pincio, Chicco Testa «senza testa», Alemanno, l’Expo di Milano e parecchio altro. L’altra del regista Mimmo Calopresti, autore commosso del commovente film La fabbrica dei tedeschi sulla strage alla ThyssenKrupp, che dopo avere passato qualche mese a girare e montare scene di lacrime e sangue ne è uscito, e se ne è uscito, lui di sinistra, con una raffica di critiche anche contro il sindacato che «pensa solo al pil» mentre la gente muore. Parole diverse di due artisti diversi. Che vanno a riversarsi nell’immane calderone delle dichiarazioni pronunciate o urlate ormai tutti i santi giorni, da tutti i pulpiti, in tutti i telegiornali e su molti giornali, e da esternatori di ineguale competenza ed efficacia. Ne siamo inondati, ne siamo frastornati. Al punto che si rischia di pensare che sia tutta la stessa materia indistinta e gridata: un mix di furbizia, protagonismo, scorciatoie demagogiche. Ma le parole sono creature delicate. Come distinguere quelle autentiche da quelle «paracule», quelle che davvero dicono dalle altre soltanto autopromozionali? Un outsider pensoso come Calopresti non rischia forse di gettare il suo sasso nello stesso stagno dove navigano - da anni - esternatori per hobby o per professione? Come per altri comparti della cultura di massa, e massificata, manca un vaglio che lasci filtrare solo le pepite, e scarichi altrove i detriti, la massa inerte delle parole insignificanti, dette tanto per dire, tanto per avere due minuti di popolarità sui teleschermi della sera o cinque righe nelle edicole dell'indomani. E in questa omissione di giudizio non si può certo dire che i media (quasi tutti) brillino per vigilanza, e soprattutto per sobrietà. Ci sono dichiaratori quotidiani (per esempio Gasparri, che esterna a mitraglia) che finiscono per avere lo stesso spazio, e dunque ahimè lo stesso peso, di filosofi originali e parchi, o di pensatori spiazzanti.Bisognerebbe inventare una critica delle esternazioni e delle dichiarazioni da giornale. Qualcuno che valuti e metta in guardia contro gli effettacci, i titoli facili, la parola rumorosa e vuota. Che ristabilisca una gerarchia delle parole, non tutte eguali come la ghiaia sonora che crepita ovunque. Magari che commini squalifiche (come il giudice sportivo) per chi prevarica o imbroglia o esagera, costringendolo a saltare almeno un turno: hai già dichiarato ieri, fatti da parte. Che misuri le competenze e denunci le incompetenze, perché l’universo mediatico pullula di pareri (a volte perfino richiesti: ed è quasi istigazione a delinquere...) che non hanno alcuna titolarità, non discendono da esperienze, da saperi, da pensieri, da emozioni vere (come quella di Calopresti), ma solo da un microfono aperto, e aperto quasi per chiunque passi nelle vicinanze.Perfino Celentano, che pure di esternazioni è un campione indiscusso (i giornali lo chiamano guru, speriamo che lui se la rida), rischia di ritrovarsi a imitare se stesso. Cominciò a sparare sul pianista quando la comunicazione aveva toni e volumi decisamente più soft. Un pioniere. Un inventore. Ora il frastuono del saloon è tale, che neanche ci si domanda più il significato, giusto o sbagliato, di quello che si dice. Il dopo Grillo & C. è un territorio dove la voce umana è diventata così esondante, e invadente, e strumentale, che cercare la misura delle parole potrebbe essere l'unico modo per farsi ascoltare davvero.
di G. Zucconi, sulla Stampa
Perfetto quadro della nostra contemporaneità burina, di cui Celentano è un analfabeta precursore.
Aggiungiamoci i vezzi da middle-class (assolutamente sì, assolutamente no), facciamo un bell'applauso ai funerali, il festival delle banalità nelle interviste al volo per strada, gli idoli televisivi dei grandi fratelli nell'isola, il dramma dell'ultima settimana del mese evocato sulle spiagge della Sardegna, lo stato deve fare lo stato con gli sfasciacarrozze degli stadi e, ultimo tic, speriamo che vinca Obama per salvare la democrazia.
Siamo o non siamo la culla della civiltà?
25 agosto 2008
Sarà un autunno caldo?
Tornati a Milano, con la frescura notturna, il sole pallido ed il cielo color latte, per non farci prendere dalla malinconia dei ricordi agostani, delle spiaggie bianche e dei mari trasparenti, proviamo a strologare sull'autunno.
Cosa ci aspetta?
Federalismo all'italiana: cambiare perché tutto resti come prima, con lo scempio del denaro pubblico (cioè nostro) disperso in mille rivoli di burocratismo inefficiente e ribaldo.
La nuova guerra dei blocch,i ma a temperatura ambiente con la riconferma che l'Europa, mancando di fondamenta etico-politiche ed anche religiose, conta come le damine del Settecento con il neo sulla guancia.
Il rallentamento dell'immigrazione clandestina, ma solo perché il mare in autunno è mosso.
Il campionato di calcio con il santone portoghese che viene a spiegare alle curve che il pallone, poiché è rotondo, rotola.
Per la Bpm un nuovo statuto che sancisca il principio che desiderano i poteri forti: se il pallino in assemblea ce l'hanno gli sgraditi, l'assemblea deve contare sempre di meno. Per Draghi, il vero nocciolo duro delle società sono i fondi speculativi, specie in una cooperativa con sede a Milano.
Poi infine ci sarebbe il sindacato, che una volta organizzava gli autunni caldi. Ora, al massimo, può mettere insieme un milione di pensionati con viaggio gratis sino a Roma e ritorno.
Gratis perché i treni sono gentilmente messi a disposizione dall'azienda parastatale più indebitata del mondo.
Insomma, sempre le stesse cose.
Poi arriva Natale.
Cosa ci aspetta?
Federalismo all'italiana: cambiare perché tutto resti come prima, con lo scempio del denaro pubblico (cioè nostro) disperso in mille rivoli di burocratismo inefficiente e ribaldo.
La nuova guerra dei blocch,i ma a temperatura ambiente con la riconferma che l'Europa, mancando di fondamenta etico-politiche ed anche religiose, conta come le damine del Settecento con il neo sulla guancia.
Il rallentamento dell'immigrazione clandestina, ma solo perché il mare in autunno è mosso.
Il campionato di calcio con il santone portoghese che viene a spiegare alle curve che il pallone, poiché è rotondo, rotola.
Per la Bpm un nuovo statuto che sancisca il principio che desiderano i poteri forti: se il pallino in assemblea ce l'hanno gli sgraditi, l'assemblea deve contare sempre di meno. Per Draghi, il vero nocciolo duro delle società sono i fondi speculativi, specie in una cooperativa con sede a Milano.
Poi infine ci sarebbe il sindacato, che una volta organizzava gli autunni caldi. Ora, al massimo, può mettere insieme un milione di pensionati con viaggio gratis sino a Roma e ritorno.
Gratis perché i treni sono gentilmente messi a disposizione dall'azienda parastatale più indebitata del mondo.
Insomma, sempre le stesse cose.
Poi arriva Natale.
28 luglio 2008
25 luglio 2008
In BPM dopo 18 anni un Direttore Generale di scuola interna
Giovedì sera il CdA di BPM ha nominato all'unanimità Fiorenzo Dalù direttore generale.
Decisione importante, quasi storica, perché dopo più di tre lustri la popolare milanese torna ad avere al vertice un manager di scuola interna e di solida formazione commerciale.
Sembra di potere affermare che il difficile percorso che dovrà portare anche alla riforma dello statuto ed alle scadenze assembleari della primavera prossima sia cominciato in modo virtuoso e con un'assonanza di consensi così ampia da fare sperare superati gli infantilismi e gli steccati isterici dell'ultimo anno.
Decisione importante, quasi storica, perché dopo più di tre lustri la popolare milanese torna ad avere al vertice un manager di scuola interna e di solida formazione commerciale.
Sembra di potere affermare che il difficile percorso che dovrà portare anche alla riforma dello statuto ed alle scadenze assembleari della primavera prossima sia cominciato in modo virtuoso e con un'assonanza di consensi così ampia da fare sperare superati gli infantilismi e gli steccati isterici dell'ultimo anno.
19 luglio 2008
Giustizia malata (2)
Stupisce la scarsa perspicacia politica di Walter Veltroni che ha seccamente respinto ieri la proposta di una stagione di riforme bipartsan che nel prossimo autunno affianchi al federalismo anche la giustizia. Stupisce soprattutto l'incapacità del presidente del Pd di comprendere che la decisione di Silvio Berlusconi di affidare a "tre saggi" la stesura delle linee della riforma della giustizia, cambia il quadro di riferimento
Soprattutto elimina alla radice ogni possibile dubbio di una riforma viziata da interessi di parte del premier. Solo un Veltroni masochisticamente placcato da Di Pietro e in stato confusionale, può non accorgersi che Francesco Cossiga, Giuseppe Gargani e Romano Vaccarella non sono personalità disposte a macchiare le loro biografie con proposte di basso profilo. Applicando la tecnica dello spariglio, con fantasia istituzionale, Berlusconi offre oggi al Pd e all'Udc un tavolo di alto livello, più che aperto ai loro contributi. Mette a disposizione del confronto con l'opposizione uno strumento agile, pronto a recepire le sue suggestioni. Una preziosa sponda per quella parte del Pd che sa bene che è indispensabile affrontare il nodo gordiano della giustizia -che ha strangolato anche il governo Prodi- ma che non sa oggi come prendere l'iniziativa. Stranamente isolato nel suo stesso partito, Luciano Violante da mesi ha avanzato proposte stimolanti di riforma della giustizia che - per una intrigante nemesi storica - saranno sicuramente guardate con grande attenzione dai "tre saggi".
Il Tempo, editoriale del 19 luglio.
Soprattutto elimina alla radice ogni possibile dubbio di una riforma viziata da interessi di parte del premier. Solo un Veltroni masochisticamente placcato da Di Pietro e in stato confusionale, può non accorgersi che Francesco Cossiga, Giuseppe Gargani e Romano Vaccarella non sono personalità disposte a macchiare le loro biografie con proposte di basso profilo. Applicando la tecnica dello spariglio, con fantasia istituzionale, Berlusconi offre oggi al Pd e all'Udc un tavolo di alto livello, più che aperto ai loro contributi. Mette a disposizione del confronto con l'opposizione uno strumento agile, pronto a recepire le sue suggestioni. Una preziosa sponda per quella parte del Pd che sa bene che è indispensabile affrontare il nodo gordiano della giustizia -che ha strangolato anche il governo Prodi- ma che non sa oggi come prendere l'iniziativa. Stranamente isolato nel suo stesso partito, Luciano Violante da mesi ha avanzato proposte stimolanti di riforma della giustizia che - per una intrigante nemesi storica - saranno sicuramente guardate con grande attenzione dai "tre saggi".
Il Tempo, editoriale del 19 luglio.
Giustizia malata (1)
L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati.
L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.
Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.
È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?
Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).
In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.
Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.
Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.
Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro.
Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera
L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.
Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.
È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?
Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).
In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.
Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.
Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.
Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro.
Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera
18 luglio 2008
Il calcio mediatico
Della spumeggiante e scintillante notte di Ronaldinho a San Siro è rimasto impresso un oggetto, datato, addirittura vetusto, ancorché d‘ordinanza negli studi professionali di New York da mille dollari al minuto quadro: un paio di bretelle. Le indossava Lorenzo Cantamessa, figlio d’arte di Leandro, l’avvocatissimo del Milan e della Lega Calcio, in una parola di zio Fester. Nere, o almeno così è sembrato, seriose, larghissime. Ogni bretella copriva mezzo busto dell’impettito avvocato che incedeva, con ventiquattr’ore d’ordinanza nella mano, verso il tavolo della conferenza stampa. Lì un Galliani gigioneggiante lo stava aspettando al fianco di Ronaldinho per la firma thriller. Tutto improvvisato, sia chiaro. Nella borsa del giovane Lorenzo le copie fresche di inchiostro contenenti le ultime postille del contratto fiume. Postille determinanti, e sopratutto fuori tempo massimo; le bretelle parlavano chiaro. Bretelle sulla camicia con la giacca appesa nello studio, sinonimo di urgenza, imprevisto, “Dannazione non c’è un attimo da perdere” da telefilm poliziesco. In sala un brivido lungo la schiena, per i più. Per gli altri, i distratti, quelli ancora inconsapevoli di vivere la Storia in diretta (pochissimi per la verità) è arrivata in soccorso una concitatissima signora in golf colore rosso che si è precipitata verso Cantamessa. La signora, una segretaria? un’interprete? No, una velina no, magari una semplice funzionaria affannata e affamata di telecamere (l’avremmo rivista più tardi raggiante e incollata a Ronaldinho in mezzo al campo durante i fuochi d’artificio) con un guizzo alla Mennea ha voluto interporsi tra Lorenzo Cantamessa e il vuoto davanti a lui, appunto per fargli spazio e recuperare tempo prezioso. L’effetto “imprevisto nell’imprevisto” della Signora in Rosso ha fatto elegantemente il paio con le bretelle Nere dell’Uomo della Legge producendo prima il brusio quindi l’applauso desiderato: “Ci siamo, ci siamo!”. In alto dunque i cellulari, le firme, i clic per la foto dell’anno: “La Storia Siamo Noi”.
da Calciomercato.com
Per noi che abbiamo perso la poesia ma non la fede, resta difficile prevedere se il Divin Dentone sarà l'uomo della rinascita o il monotono ripetersi di brutte sceneggiature sin troppo recenti(Ciccionaldo, Pato).
La passione ferita non ha impedito di incollarsi al televisore per gustarsi la diretta della presentazione con la migliore predisposizione di questo mondo, direi quasi con il fanciullesco entusiasmo di quei 40.000 pirla che sono andati di persona a vedere i fuochi di artificio e le foche con il pallone.
Fingendo di credere che tutto fosse spontaneo.
Sino a quando è stata messa in scena la pagliacciata del contratto firmato in presa diretta di telecamere, con il pelato brianzolo che fingeva svenimenti.
Qui è cascato l'asino.
Era solo un teatrino televisivo, con la guest star chiamata a potenziare l'audience ed i finti giornalisti a fare da claque.
Il funerale del calcio popolare e la nuova frontiera del reality calcistico.
Comunque, qualcosa che non riguarda più i veri milanisti.
da Calciomercato.com
Per noi che abbiamo perso la poesia ma non la fede, resta difficile prevedere se il Divin Dentone sarà l'uomo della rinascita o il monotono ripetersi di brutte sceneggiature sin troppo recenti(Ciccionaldo, Pato).
La passione ferita non ha impedito di incollarsi al televisore per gustarsi la diretta della presentazione con la migliore predisposizione di questo mondo, direi quasi con il fanciullesco entusiasmo di quei 40.000 pirla che sono andati di persona a vedere i fuochi di artificio e le foche con il pallone.
Fingendo di credere che tutto fosse spontaneo.
Sino a quando è stata messa in scena la pagliacciata del contratto firmato in presa diretta di telecamere, con il pelato brianzolo che fingeva svenimenti.
Qui è cascato l'asino.
Era solo un teatrino televisivo, con la guest star chiamata a potenziare l'audience ed i finti giornalisti a fare da claque.
Il funerale del calcio popolare e la nuova frontiera del reality calcistico.
Comunque, qualcosa che non riguarda più i veri milanisti.
Qual è il vero motivo per cui il Papa è andato in Australia
Il papa, i giovani, l’Australia. Alla Giornata Mondiale della Gioventù di Sidney questi sono i tre ingredienti principali. Sembrano fare a pugni tra loro, ma il papa è convinto di no. Come il solito i media hanno sbagliato bersaglio. Quando si tratta di religione, la tendenza a secolarizzare è molto forte. Il papa ha detto mezza parola sulla tutela dell’ambiente e i giornali a riportalo come un grande novità. Poi il papa ha detto che c’è contrasto tra essere prete e compiere abusi sessuali e i media a sottolineare l’affermazione come se fosse anche questa una novità. Qualcuno ha anche riportato con enfasi la frase del papa secondo cui gli abusi sessuali impediscono la santità. Poi ci si è soffermati sugli indigeni, che in Australia – è vero – sono cittadini di serie B. Il fatto è che il papa non è andato a Sidney per parlare di ecologia, né per occupare i titoli dei giornali con le sue invettive contro gli abusi sessuali di qualche sacerdote, né per denunciare le ingiustizie sociali di quel continente. Farà anche questo, se necessario, ma non è là per questo. E là per lanciare questa sfida: cosa ci stanno a fare insieme il papa, i giovani e l’Australia?
L’Australia è uno dei paesi più secolarizzati del mondo, con un benessere molto diffuso e una inflazione inesistente. E’ un paese dalle mille culture e dalle mille religioni, ma soprattutto è un paese postreligioso o, come si dice di solito, “emancipato”, dalle larghe vedute. La Chiesa è proprio per questo sofferente. Ricca anch’essa, in grado di aiutare generosamente altre chiese più povere, ma spesso proiettata sull’orizzontale, sulla salvaguardia dell’ambiente e sui diritti degli indigeni, appunto. Cose sacrosante in sé, ma che non fanno il cuore del cattolicesimo. La scelta di Sidney non è stata casuale: una terra ai confini, non solo ai confini del Pacifico, ma anche ai confini della fede o forse già ampiamente oltre. A questa Australia, e al mondo che essa rappresenta, il mondo “post”, il papa va a fare l’annuncio di Cristo, che qui può anche risuonare come un “primo” annuncio. La secolarizzazione non è un destino, l’allontanamento dalla fede, che i moderni maestri ci hanno abituato a considerare “menzongna” – L’uomo ha bisogno di Dio, quindi Dio non esiste, sosteneva Freud - non è una necessità, la ruota della storia può cambiare il proprio giro, la battaglia non è ancor conclusa. In quelle terre il papa è andato per parlare di Gesù Cristo e per aiutare quella Chiesa a ritrovare il suo essere, che non è quello di una agenzia sociale.
A Sidney sono arrivati tanti giovani da tutto il mondo. Le statistiche ci dicono che il gruppo maggiore viene dagli Stati Uniti e il secondo dall’Italia. Ce ne sono anche molti dall’Oriente. L’arrivo dei giovani americani e italiani ha un senso preciso, quello della ripresa. Il papa fa molta leva sugli Stati Uniti – lo si è visto nel suo viaggio recente - e sull’Italia. A questi due paesi assegna un ruolo particolare nella rievangelizzazione. Al primo per la saggia soluzione che ha sempre dato al rapporto tra fede e ambito pubblico. Il secondo perché esprime ancora una religione di popolo, che si è preservata, anche se ne è stata molto provata, dalla secolarizzazione della morte di Dio. Sono truppe giovanili che vanno in soccorso ai giovani australiani. Questi ultimi ascolteranno il papa, ma ascolteranno anche i loro coetanei di Washington e di Roma. Si sentiranno meno soli nel testimoniare una verità che il loro mondo fatica ad accettare. Sono arrivati anche i giovani poveri del Vietnam o delle Filippine, arrivati lì proprio grazie agli aiuti della Chiesa australiana. E da loro i supervitaminizzati giovanottoni australiani apprenderanno forse una ingenuità che essi hanno perduto, ma non irrimediabilmente. Spesso chi è nel bisogno – come dice il Salmo – vede meglio e di più.
Durante questa GMG I giornali continueranno prevedibilmente a carpire qua e là qualche frase del papa a sfondo sociale o politico, nel tentativo di orizzontalizzare quanto è verticale. Ma il papa è andato a Sidney e ha incontrato i giovani proprio per dire il contrario, ossia che un orizzonte solo orizzontale non è un vero orizzonte.
Stefano Fontana, su L'Occidentale
L’Australia è uno dei paesi più secolarizzati del mondo, con un benessere molto diffuso e una inflazione inesistente. E’ un paese dalle mille culture e dalle mille religioni, ma soprattutto è un paese postreligioso o, come si dice di solito, “emancipato”, dalle larghe vedute. La Chiesa è proprio per questo sofferente. Ricca anch’essa, in grado di aiutare generosamente altre chiese più povere, ma spesso proiettata sull’orizzontale, sulla salvaguardia dell’ambiente e sui diritti degli indigeni, appunto. Cose sacrosante in sé, ma che non fanno il cuore del cattolicesimo. La scelta di Sidney non è stata casuale: una terra ai confini, non solo ai confini del Pacifico, ma anche ai confini della fede o forse già ampiamente oltre. A questa Australia, e al mondo che essa rappresenta, il mondo “post”, il papa va a fare l’annuncio di Cristo, che qui può anche risuonare come un “primo” annuncio. La secolarizzazione non è un destino, l’allontanamento dalla fede, che i moderni maestri ci hanno abituato a considerare “menzongna” – L’uomo ha bisogno di Dio, quindi Dio non esiste, sosteneva Freud - non è una necessità, la ruota della storia può cambiare il proprio giro, la battaglia non è ancor conclusa. In quelle terre il papa è andato per parlare di Gesù Cristo e per aiutare quella Chiesa a ritrovare il suo essere, che non è quello di una agenzia sociale.
A Sidney sono arrivati tanti giovani da tutto il mondo. Le statistiche ci dicono che il gruppo maggiore viene dagli Stati Uniti e il secondo dall’Italia. Ce ne sono anche molti dall’Oriente. L’arrivo dei giovani americani e italiani ha un senso preciso, quello della ripresa. Il papa fa molta leva sugli Stati Uniti – lo si è visto nel suo viaggio recente - e sull’Italia. A questi due paesi assegna un ruolo particolare nella rievangelizzazione. Al primo per la saggia soluzione che ha sempre dato al rapporto tra fede e ambito pubblico. Il secondo perché esprime ancora una religione di popolo, che si è preservata, anche se ne è stata molto provata, dalla secolarizzazione della morte di Dio. Sono truppe giovanili che vanno in soccorso ai giovani australiani. Questi ultimi ascolteranno il papa, ma ascolteranno anche i loro coetanei di Washington e di Roma. Si sentiranno meno soli nel testimoniare una verità che il loro mondo fatica ad accettare. Sono arrivati anche i giovani poveri del Vietnam o delle Filippine, arrivati lì proprio grazie agli aiuti della Chiesa australiana. E da loro i supervitaminizzati giovanottoni australiani apprenderanno forse una ingenuità che essi hanno perduto, ma non irrimediabilmente. Spesso chi è nel bisogno – come dice il Salmo – vede meglio e di più.
Durante questa GMG I giornali continueranno prevedibilmente a carpire qua e là qualche frase del papa a sfondo sociale o politico, nel tentativo di orizzontalizzare quanto è verticale. Ma il papa è andato a Sidney e ha incontrato i giovani proprio per dire il contrario, ossia che un orizzonte solo orizzontale non è un vero orizzonte.
Stefano Fontana, su L'Occidentale
15 luglio 2008
Draghi mette sotto tiro BPM
La Banca Popolare di Milano deve cambiare in tempi rapidi lo statuto riducendo il peso dei dipendenti-soci in consiglio di amministrazione. E in tempi altrettanto celeri deve provvedere al varo di un nuovo piano industriale. La rivoluzione della governance di Bpm è stata imposta ieri dalla Banca d'Italia, dopo un'accurata ispezione durata sei mesi. Al verbale d'ispezione, letto al cospetto del cda dalla responsabile della Vigilanza di Via Nazionale Anna Maria Tarantola, era allegata una lettera firmata personalmente dal Governatore di Bankitalia Mario Draghi. Ed è proprio nella missiva, stando alle indiscrezioni, che verrebbero poste in termini perentori le richieste di presentare entro 45 giorni – insieme alla replica della banca ai rilievi ispettivi – una nuova bozza di statuto (che Bankitalia dovrà approvare) e un nuovo piano industriale. Bankitalia chiede anche che il cda proceda in tempi rapidissimi alla sostituzione del direttore generale Fabrizio Viola, dimessosi nei giorni scorsi.La vera svolta per la atipica governance di Bpm riguarda i meccanismi del voto assembleare per la nomina del cda. Nel mirino del Governatore è finito l'attuale «premio di maggioranza» che garantisce, di fatto, alla lista dei dipendenti-soci coordinata dai sindacati interni 16 consiglieri su 20. Bankitalia chiede che questo «premio» venga ridotto sensibilmente. E contesta il computo dei consiglieri (2) nominati dalla lista dei soci-pensionati tra quelli realmente di minoranza.La revisione della governance, secondo le preoccupazioni espresse da Bankitalia, si è resa necessaria perchè – al termine dell'ispezione – è risultato che l'autoreferenzialità degli attuali meccanismi di governance non permette più lo sviluppo di un piano per la banca.La perentorietà dell'invito a modificare lo statuto, che dopo il via libera di Via Nazionale dovrà essere approvato entro fine anno da un'assemblea straordinaria di Bpm, è destinata a riaprire i giochi per la nomina del nuovo cda ad aprile 2009. La riduzione del peso dei dipendenti-soci apre le porte a una significativa rappresentanza delle minoranze, compresi gli investitori istituzionali che attraverso l'Associazione Bpm 360° (promossa dal fondo Usa Amber Capital) hanno già bussato al libro soci della banca.I rilievi di Bankitalia sono contenuti nel verbale ispettivo (e nell'allegata lettera di Draghi) illustrata ieri al cda della Bpm da parte della responsabile della Vigilanza Anna Maria Tarantola, accompagnata dal responsabile Bankitalia di Milano e dal capo degli ispettori. In un clima interno di crescente tensione – a seguito delle dimissioni del direttore generale Fabrizio Viola, che hanno amplificato il faro del mercato e delle Autorità sulla governance di Bpm – il consiglio presieduto da Roberto Mazzotta ha ascoltato per circa due ore la dura relazione della Vigilanza. In serata una nota ufficiale di Bpm si è limitata a dire che «il cda si è impegnato a fornire le risposte richieste e ad adottare i provvedimenti indicati sia sulle questioni relative alla struttura e al funzionamento del governo aziendale, sia sulle questioni operative, nel rispetto dei tempi prescritti». Nessun accenno ai contenuti del verbale, anche se è presumibile che oggi il mercato dovrà avere qualche informazione dato il rilievo delle modifiche di governance. Ora il cda ha 45 giorni di tempo per dare risposta ai rilievi di Bankitalia. Martedì 22 il cda tornerà a riunirsi, anche se – sempre stando alle indiscrezioni – la data è considerata prematura per una valutazione collegiale delle risposte da dare all'ispezione. Non è escluso invece che già lunedì prossimo il cda possa nominare il nuovo direttore generale di Bpm, accogliendo il pressante invito di Bankitalia ad avere un responsabile operativo nel pieno delle sue funzioni. Prima del consiglio di amministrazione, si era riunito il comitato esecutivo che aveva vagliato le candidature interne. Tra questi, i nomi più probabili restano quelli del direttore finanziario Enzo Chiesa e del direttore commerciale Fiorenzo Dalu. Il duro monito di Bankitalia ha indotto l'esecutivo a tornare a riunirsi d'urgenza subito dopo la fine del cda.
da Il Sole 24 Ore, del 15 luglio 2008
da Il Sole 24 Ore, del 15 luglio 2008
14 luglio 2008
Expo 2015, solo se riuscirà a dare un volto nuovo a Milano sarà un successo
Se si riflette sulle Expo universali di maggiore qualità nella storia dei quasi due secoli di queste manifestazioni, si deve constatare come, da quella di Chicago nell’Ottocento a quella di Lisbona tenuta in anni recenti, quelle che hanno lasciato un segno urbano veramente forte sono quelle che sono intervenute sul tessuto della città. Certo c’è anche la Torre Eiffel di Parigi, c’è qualche meraviglioso edificio a Londra che il Palazzo di cristallo e altri in giro per il mondo a ricordare eventi architettonici glamour e di qualità connessi con le varie Expo. Ma le esposizioni che “pesano” sul serio sono quelle che aiutano a ridisegnare la città contemporanea, un moloch difficile da gestire.
In qualche modo è questa anche la storia dell’Expo milanese del 1906, che fissa per sempre l’asse del Sempione (già lanciato in epoca napoleonica) come elemento orientativo per lo sviluppo di Milano.
Si riuscirà nel 2015 a ripetere questa impresa? La prossima manifestazione continua a insistere sull’asse del Sempione, definitivamente consolidato dal lancio – non particolarmente brillante ma comunque “lancio” – della Malpensa e poi dalla costruzione della nuova Fiera milanese a Rho-Pero. Anche gli interventi urbanistici-architettonici più rilevanti negli ultimi anni (soprattutto adesso che alcuni immobiliaristi che avevano investito in altre aree stanno entrando in crisi) insistono su questo asse: così gli interventi sull’area della vecchia Fiera (con i tre gratttacieli modernizzanti, tra cui quello meravigliosamente “storto”) e la ristrutturazione dell’area Garibaldi-Repubblica che sono “in linea” con la via del Sempione.
Ma al di là di questa corretta impostazione di base, si riuscirà a fare operazioni urbanistiche più complesse che segnino una nuova qualità dello sviluppo milanese? Non sono, i nostri, tempi particolarmente propizi per le città italiane. Si consideri anche i casi del Comune di Roma, giustamente criticati pure da uno dei protagonisti della politica di sviluppo della Capitale in questo quindicennio, Walter Tocci, ottimo assessore ai trasporti per diversi mandati. Invece di ridare forma al “costruito” a Roma si è scelto di espandere ancora una città che ha dimensioni già particolarmente ingovernabili. Certamente, oltre che con una logica di amicizie collegate al blocco di potere rutellian-veltroniano peraltro poi clamorosamente fallito, si è scelto di farlo cercando di appoggiare i nuovi quartieri sul trasporto su ferro e di dotarli di spazi verdi. Comunque è difficile dissentire da Tocci sull’errore generale che si è compiuto espandendo ancora Roma.
Milano dalla sua ha rapidamente esaurito gran parte delle aree industriali lasciate libere dalla modificazione del tessuto urbano cittadino. Più di un intervento privato ha una sua logica non disprezzabile, ma nel complesso si sono perse molte occasioni puntando soprattutto su residenziale, commerciale e un generico terziario. In parte questo è stato inevitabile in una città decapitata dal furore giustizialista del ’92.
Oggi chi prepara la nuova Expo, gli organizzatori si concentrano molto sui contenuti, sugli eventi e su una pianificazione legata all’esaltante tema del “nutrire il pianeta”. Ma miliardi di euro in interventi in infrastrutture e in costruzione di padiglioni di cui sarebbe bene pensare subito il riuso, devono spingere anche a riflettere su come utilizzare tutte queste risorse secondo un disegno coerente della nuova Milano. Secondo me, lo si fa partendo, innanzi tutto, da due temi: come valorizzare le strutture di ricerca di Milano e come riqualificare le periferie.
Lodovico Festa su L'Occidentale
In qualche modo è questa anche la storia dell’Expo milanese del 1906, che fissa per sempre l’asse del Sempione (già lanciato in epoca napoleonica) come elemento orientativo per lo sviluppo di Milano.
Si riuscirà nel 2015 a ripetere questa impresa? La prossima manifestazione continua a insistere sull’asse del Sempione, definitivamente consolidato dal lancio – non particolarmente brillante ma comunque “lancio” – della Malpensa e poi dalla costruzione della nuova Fiera milanese a Rho-Pero. Anche gli interventi urbanistici-architettonici più rilevanti negli ultimi anni (soprattutto adesso che alcuni immobiliaristi che avevano investito in altre aree stanno entrando in crisi) insistono su questo asse: così gli interventi sull’area della vecchia Fiera (con i tre gratttacieli modernizzanti, tra cui quello meravigliosamente “storto”) e la ristrutturazione dell’area Garibaldi-Repubblica che sono “in linea” con la via del Sempione.
Ma al di là di questa corretta impostazione di base, si riuscirà a fare operazioni urbanistiche più complesse che segnino una nuova qualità dello sviluppo milanese? Non sono, i nostri, tempi particolarmente propizi per le città italiane. Si consideri anche i casi del Comune di Roma, giustamente criticati pure da uno dei protagonisti della politica di sviluppo della Capitale in questo quindicennio, Walter Tocci, ottimo assessore ai trasporti per diversi mandati. Invece di ridare forma al “costruito” a Roma si è scelto di espandere ancora una città che ha dimensioni già particolarmente ingovernabili. Certamente, oltre che con una logica di amicizie collegate al blocco di potere rutellian-veltroniano peraltro poi clamorosamente fallito, si è scelto di farlo cercando di appoggiare i nuovi quartieri sul trasporto su ferro e di dotarli di spazi verdi. Comunque è difficile dissentire da Tocci sull’errore generale che si è compiuto espandendo ancora Roma.
Milano dalla sua ha rapidamente esaurito gran parte delle aree industriali lasciate libere dalla modificazione del tessuto urbano cittadino. Più di un intervento privato ha una sua logica non disprezzabile, ma nel complesso si sono perse molte occasioni puntando soprattutto su residenziale, commerciale e un generico terziario. In parte questo è stato inevitabile in una città decapitata dal furore giustizialista del ’92.
Oggi chi prepara la nuova Expo, gli organizzatori si concentrano molto sui contenuti, sugli eventi e su una pianificazione legata all’esaltante tema del “nutrire il pianeta”. Ma miliardi di euro in interventi in infrastrutture e in costruzione di padiglioni di cui sarebbe bene pensare subito il riuso, devono spingere anche a riflettere su come utilizzare tutte queste risorse secondo un disegno coerente della nuova Milano. Secondo me, lo si fa partendo, innanzi tutto, da due temi: come valorizzare le strutture di ricerca di Milano e come riqualificare le periferie.
Lodovico Festa su L'Occidentale
10 luglio 2008
Vecchie ricette da Draghi
Va bene tutto, ma non tassate le banche. Mentre l’Italia stringe la cinghia e l’Istat ci dice che le famiglie hanno iniziato a risparmiare anche su pranzo e cena, il governatore della Banca d’Italia si ricorda di essere liberista solo quando c’è da privatizzare pezzi dello Stato a gran vantaggio di qualche banca internazionale amica.
Se però non c’è trippa per gatti, allora meglio indossare i panni del gran banchiere e partire per la più classica delle difese corporative.
All’assemblea annuale dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, giù quindi contro la Robin Tax, la tassa che nelle intenzioni del ministro Tremonti dovrebbe colpire i ricchi lasciando al riparo – per una volta – i ceti medi.
Se le banche dovessero essere tassate – ha spiegato Draghi – poi potrebbero scaricare gli oneri sui clienti e – dunque – di nuovo sulle famiglie.
Nemmeno una parola, invece, per dire – se le banche dovessero effettivamente rigirare i costi sui correntisti – quale potrebbe essere il ruolo della Banca d’Italia. Banca che una volta passati all’euro non si capisce più bene che cosa ci sta a fare, se non la solita messa cantata zeppa di allarmismi e pessimismo sull’economia planetaria.
Tremonti non ha perso così l’occasione per rispondere a Draghi per le rime, ricordando che trasferire le tasse dalle imprese ai clienti è una dottrina vecchia. Una dottrina dei tempi in cui piuttosto che tassare i ricchi si alzavano le imposte direttamente sugli operai.Una battuta che non ha turbato più di tanto il governatore, rientrato presto nella serena quiete del suo bel palazzo in via Nazionale.
Un palazzo dove si taglia il capello in quattro sugli effetti dell’inflazione e l’andamento dei mercati petroliferi, ma non si ricorda una presa di posizione minimamente efficace sui costi dei servizi bancari, sulle commissioni, sui tempi biblici ancora necessari per far passare un bonifico da un istituto all’altro.
Un palazzo da dove non ci si è fatto ancora sapere come Bankitalia può trasformarsi in una moderna Autorità in grado di tutelare i risparmiatori (oltre che le banche).
Naturale che l’associazione delle banche italiane tuteli i suoi interessi, soprattutto in un momento non entusiasmante per l’economia, ma la lezioncina di una immobilissima (passateci il termine) Banca d’Italia di fronte a banche mobilissime quando c’è da pescar soldi dai correntisti, questa no, Draghi ce la risparmi, per favore.
da L'Occidentale
Se però non c’è trippa per gatti, allora meglio indossare i panni del gran banchiere e partire per la più classica delle difese corporative.
All’assemblea annuale dell’Abi, l’associazione delle banche italiane, giù quindi contro la Robin Tax, la tassa che nelle intenzioni del ministro Tremonti dovrebbe colpire i ricchi lasciando al riparo – per una volta – i ceti medi.
Se le banche dovessero essere tassate – ha spiegato Draghi – poi potrebbero scaricare gli oneri sui clienti e – dunque – di nuovo sulle famiglie.
Nemmeno una parola, invece, per dire – se le banche dovessero effettivamente rigirare i costi sui correntisti – quale potrebbe essere il ruolo della Banca d’Italia. Banca che una volta passati all’euro non si capisce più bene che cosa ci sta a fare, se non la solita messa cantata zeppa di allarmismi e pessimismo sull’economia planetaria.
Tremonti non ha perso così l’occasione per rispondere a Draghi per le rime, ricordando che trasferire le tasse dalle imprese ai clienti è una dottrina vecchia. Una dottrina dei tempi in cui piuttosto che tassare i ricchi si alzavano le imposte direttamente sugli operai.Una battuta che non ha turbato più di tanto il governatore, rientrato presto nella serena quiete del suo bel palazzo in via Nazionale.
Un palazzo dove si taglia il capello in quattro sugli effetti dell’inflazione e l’andamento dei mercati petroliferi, ma non si ricorda una presa di posizione minimamente efficace sui costi dei servizi bancari, sulle commissioni, sui tempi biblici ancora necessari per far passare un bonifico da un istituto all’altro.
Un palazzo da dove non ci si è fatto ancora sapere come Bankitalia può trasformarsi in una moderna Autorità in grado di tutelare i risparmiatori (oltre che le banche).
Naturale che l’associazione delle banche italiane tuteli i suoi interessi, soprattutto in un momento non entusiasmante per l’economia, ma la lezioncina di una immobilissima (passateci il termine) Banca d’Italia di fronte a banche mobilissime quando c’è da pescar soldi dai correntisti, questa no, Draghi ce la risparmi, per favore.
da L'Occidentale
09 luglio 2008
Auspici in devoluzione
Immaginate di avere una perdita d'acqua in casa. Chiamate l'idraulico, gli spiegate il problema e questi, anziché intervenire, vi risponde dicendo "auspico che il guasto venga riparato". Ma come? Tu sei l'idraulico, sei tu che dovresti risolvermi la perdita e invece mi dici che auspichi? Naturalmente si tratta di una situazione al di fuori della relatà. Se tuttavia facciamo una traslazione dal mondo degli idraulici a quello dei politici non è difficile rendersi conto di come l'irrealtà appena descritta si trasformi in quotidiana normalità. Quanto più il politico è importante, infatti, e quanto più riveste un ruolo istituzionale elevato tanto maggiore è il ricorso alla formuletta del verbo auspico. A cui si aggiungono poi altre espressioni magistrali tra cui "formulo l'augurio che...", "bisogna trovare le condizioni affinché...", "è necessario andare verso una convergenza/piattaforma di...". Insomma, un Paese di politici auspicatori, a partire dal giovane Napolitano.E allora istituiamo un bel fondo di devoluzione in cui far convergere delle multe simboliche (un misero 100 euro) ogni volta che un politico o un uomo delle istituzioni tiri fuori la parola auspico. Conta la prova televisiva. Sono certo che in poco tempo si raccoglierebbe una somma enorme, da destinare poi a qualche progetto utile e interessante.
Nautilus, su Ali e radici
Nautilus, su Ali e radici
Nel calcio non si è mai campioni del mondo per caso
Il mito del Kempes consapevole
Le rievocazioni del 1978 hanno raggiunto il livello di guardia: ormai anche gli eremiti sanno a memoria i nomi del commando di via Fani (tutti più o meno a piede libero, fra un dibattito e l'altro sulla 'nostra generazione'), ma anche il trentennale del Mondiale argentino non scherza. Con il labile pretesto di una 'partita della memoria' giocata al Monumental ed alla quale si sono presentati solo Luque, Villa ed Houseman. Il tutto per ribadire l'ovvio, cioè che quella di Videla e colleghi fu una dittatura sanguinaria: con oppositori o semplicemente non allineati arrestati, torturati, uccisi o fatti sparire nell'ordine delle decine di migliaia. Ma anche il meno ovvio, cioè che i calciatori in qualche modo sapessero quello che stava accadendo e che quella Coppa alzata da Passarella al termine della finale con l'Olanda sia stata doppiamente insanguinata. Per questo, tralasciando i discorsi sulla sporcizia 'sportiva' di quel mondiale (il sei a zero al Perù, l'arbitraggio di Gonella, eccetera), questo della squadra 'colpevole' rischia di tramandarsi in eterno come un falso mito. Non a caso gli esponenti di 'sinistra' (sinistra in Sudamerica spesso significa solo non essere pro-dittatori) di quel gruppo, Flaco Menotti in testa, si defilano sempre da questo tipo di iniziative. Dagli anni Trenta al 1983, quando fu letto presidente Alfonsin, l'Argentina è stata governata da personaggi sostenuti dai militari, quando non direttamente dai militari stessi: se con colpi di stato o elezioni spesso è stato un dettaglio. Lo stesso Juan Peron, eletto nel 1946, era un ufficiale dell'esercito oltre che un fervente ammiratore del fascismo. Questo per dire che Tarantini e Olguin sono cresciuti in un contesto sociale in cui per l'uomo della strada, non diciamo l'intellettuale o il politico ma l'uomo della strada, Videla non doveva poi sembrare tanto diverso da molti suoi predecessori. Almeno fino a quanto il figlio di questo uomo della strada non veniva prelevato di notte a casa, senza farvi mai più ritorno: solo in quel momento poteva nascere una consapevolezza che di sicuro non poteva venire da una stampa che per ingentilire il regime si inventava anche le lettere di Krol al figlio. Doverose le rievocazioni, quindi, ma pretendere che la dittatura fosse rovesciata da un Kempes consapevole era ed è un po' troppo.
Stefano Olivari, su Indiscreto
Le rievocazioni del 1978 hanno raggiunto il livello di guardia: ormai anche gli eremiti sanno a memoria i nomi del commando di via Fani (tutti più o meno a piede libero, fra un dibattito e l'altro sulla 'nostra generazione'), ma anche il trentennale del Mondiale argentino non scherza. Con il labile pretesto di una 'partita della memoria' giocata al Monumental ed alla quale si sono presentati solo Luque, Villa ed Houseman. Il tutto per ribadire l'ovvio, cioè che quella di Videla e colleghi fu una dittatura sanguinaria: con oppositori o semplicemente non allineati arrestati, torturati, uccisi o fatti sparire nell'ordine delle decine di migliaia. Ma anche il meno ovvio, cioè che i calciatori in qualche modo sapessero quello che stava accadendo e che quella Coppa alzata da Passarella al termine della finale con l'Olanda sia stata doppiamente insanguinata. Per questo, tralasciando i discorsi sulla sporcizia 'sportiva' di quel mondiale (il sei a zero al Perù, l'arbitraggio di Gonella, eccetera), questo della squadra 'colpevole' rischia di tramandarsi in eterno come un falso mito. Non a caso gli esponenti di 'sinistra' (sinistra in Sudamerica spesso significa solo non essere pro-dittatori) di quel gruppo, Flaco Menotti in testa, si defilano sempre da questo tipo di iniziative. Dagli anni Trenta al 1983, quando fu letto presidente Alfonsin, l'Argentina è stata governata da personaggi sostenuti dai militari, quando non direttamente dai militari stessi: se con colpi di stato o elezioni spesso è stato un dettaglio. Lo stesso Juan Peron, eletto nel 1946, era un ufficiale dell'esercito oltre che un fervente ammiratore del fascismo. Questo per dire che Tarantini e Olguin sono cresciuti in un contesto sociale in cui per l'uomo della strada, non diciamo l'intellettuale o il politico ma l'uomo della strada, Videla non doveva poi sembrare tanto diverso da molti suoi predecessori. Almeno fino a quanto il figlio di questo uomo della strada non veniva prelevato di notte a casa, senza farvi mai più ritorno: solo in quel momento poteva nascere una consapevolezza che di sicuro non poteva venire da una stampa che per ingentilire il regime si inventava anche le lettere di Krol al figlio. Doverose le rievocazioni, quindi, ma pretendere che la dittatura fosse rovesciata da un Kempes consapevole era ed è un po' troppo.
Stefano Olivari, su Indiscreto
Polizza di lunga vita per Berlusconi
La suburra dei dipietrini, grillini, sfasciacarrozze, girotondini pensionati, si è convocata in Piazza Navona per fanculare Berlusconi al grido di fascismo, fascismo. Poi si è fatta prendere la mano dai guitti in erezione ed ha esteso l'insulto al Papa ed a Napolitano in un tripudio esaltato.
I compagni di schieramento, ricevuto il boomerang sul grugno, ora si dilungano in distinguo, sconcertato dolore, casiniani "l'avevamo detto". Il Pd veltroniano precipita nell'abituale psicodramma.
Il red D'Alema ride soddisfatto.
Da Tokio, Berlusconi ringrazia i fessi del coro.
I compagni di schieramento, ricevuto il boomerang sul grugno, ora si dilungano in distinguo, sconcertato dolore, casiniani "l'avevamo detto". Il Pd veltroniano precipita nell'abituale psicodramma.
Il red D'Alema ride soddisfatto.
Da Tokio, Berlusconi ringrazia i fessi del coro.
07 luglio 2008
Nadal è il nuovo re del tennis
Sette ore e passa dinanzi al televisore, fra gioco e soste per pioggia, per vedere un incontro di tennis: la finale di Wimbledon.
Uno sport che mi prende emotivamente ma di cui capisco relativamente poco.
Ma per creare interesse e fascino non occorre essere esperti di regolamenti e tecniche di gioco, è sufficiente farsi prendere dalle sensazioni di un evento importante, qual è la finale di Wimbledon, e gustarsi gli umori di una grande sfida fra due antagonisti di classe e carisma.
Vale per il tennis ma anche per il football americano e forse anche per il cricket o il gioco della lippa.
Federer e Nadal sono rispettivamente il n° 1 ed il secondo delle classifiche mondiali.
Il primo è un caimano che divora tutti da anni, il secondo, più giovane, si appresta ad imitarlo ed, in effetti, da un anno è il migliore delle classifiche.
Il destino ha voluto che si trovassero di fronte per l'appuntamento più fascinoso dell'anno, per la finale di un torneo che da oltre cent'anni assegna l'alloro del migliore al mondo sull'erba.
La battaglia è durata 5 set, si è sviluppata in modo ammaliante con un dominio iniziale del più giovane e sfrontato e con un faticoso, ansioso recupero del più anziano e titolato, che ha ceduto solo all'ultimo game del quinto set, fra le ombre lunghe della notte ormai incombente.
Il fascino di questa sfida non è stato per il contenuto tecnico della contesa, tutto affidato a chi randellava la pallina più forte dell'altro, ma sull'eterna contesa tra il vecchio che difende il suo trono ed il giovane più fresco e sfrontato che glielo insidia.
Una legge eterna della vita, drammatica, ricca di patos e di umori, un risultato scontato ma sempre diverso perché diversa è la dignità nella sconfitta.
Ha vinto ovviamente il giovane sfrontato, spocchioso iberico Nadal.
Ha perso lo svizzero Federer (glielo si leggeva sul volto) che la sua sconfitta l'ha inesorabilmente assaporata in ogni minuto di quelle sette ore di contesa.
Perché la sconfitta, prima di certificarla sul campo o nella vita, nel tuo intimo te la bevi, minuto per minuto, sempre in ogni frangente, da un immenso calice di fiele.
Uno sport che mi prende emotivamente ma di cui capisco relativamente poco.
Ma per creare interesse e fascino non occorre essere esperti di regolamenti e tecniche di gioco, è sufficiente farsi prendere dalle sensazioni di un evento importante, qual è la finale di Wimbledon, e gustarsi gli umori di una grande sfida fra due antagonisti di classe e carisma.
Vale per il tennis ma anche per il football americano e forse anche per il cricket o il gioco della lippa.
Federer e Nadal sono rispettivamente il n° 1 ed il secondo delle classifiche mondiali.
Il primo è un caimano che divora tutti da anni, il secondo, più giovane, si appresta ad imitarlo ed, in effetti, da un anno è il migliore delle classifiche.
Il destino ha voluto che si trovassero di fronte per l'appuntamento più fascinoso dell'anno, per la finale di un torneo che da oltre cent'anni assegna l'alloro del migliore al mondo sull'erba.
La battaglia è durata 5 set, si è sviluppata in modo ammaliante con un dominio iniziale del più giovane e sfrontato e con un faticoso, ansioso recupero del più anziano e titolato, che ha ceduto solo all'ultimo game del quinto set, fra le ombre lunghe della notte ormai incombente.
Il fascino di questa sfida non è stato per il contenuto tecnico della contesa, tutto affidato a chi randellava la pallina più forte dell'altro, ma sull'eterna contesa tra il vecchio che difende il suo trono ed il giovane più fresco e sfrontato che glielo insidia.
Una legge eterna della vita, drammatica, ricca di patos e di umori, un risultato scontato ma sempre diverso perché diversa è la dignità nella sconfitta.
Ha vinto ovviamente il giovane sfrontato, spocchioso iberico Nadal.
Ha perso lo svizzero Federer (glielo si leggeva sul volto) che la sua sconfitta l'ha inesorabilmente assaporata in ogni minuto di quelle sette ore di contesa.
Perché la sconfitta, prima di certificarla sul campo o nella vita, nel tuo intimo te la bevi, minuto per minuto, sempre in ogni frangente, da un immenso calice di fiele.
05 luglio 2008
Perché l'obbligatorietà dell'azione penale non è più un dogma
Vietti, Biondi, Cicala, Violante, Perduca e Della Loggia trattano un’idea un tempo intrattabile. Chi è ottimista e chi no.
A sfogliare i quotidiani in questi giorni, a leggere e ascoltare le dichiarazioni di politici, esperti e professori, l’impressione è che il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione cominci a sentirsi vecchio. Che insomma polemiche e scontri su giustizia, magistratura, Cav. e processi stiano parallelamente creando un fronte comune trasversale pronto a ridiscutere quello che per molti è “un principio non applicabile”, per cui “l’uguaglianza di fronte alla legge” suona come formula retorica. Non è un tema nuovo, questo, e in passato ha visto tra i suoi sostenitori anche nomi non certo vicini a Silvio Berlusconi, come il politologo Alessandro Pizzorno che definiva “una finzione” l’obbligatorietà dell’azione penale. Che oggi ci siano le premesse per un dibattito che porti a un cambiamento?
Per Luciano Violante “non ci sono tabernacoli intangibili, ma occorre capire dove si colloca il problema: molti lo ritengono un problema dell’ordinamento giudiziario, invece ha a che fare con il sistema politico. Su questo bisogna ragionare per discuterne in radice. Sappiamo tutti che è un’ipocrisia quella dell’obbligatorietà dell’azione penale, quindi ben venga un dibattito sul tema, ma senza che si abbia un processo alle spalle, senza interessi personali di mezzo e senza avere fretta di chiudere la partita”. Anche per Michele Vietti (Udc), “quello dell’obbligatorietà dell’azione penale è un simulacro: la moltiplicazione delle norme penali incriminatici e l’iniziativa dei singoli pm slegata da qualunque logica di coordinamento fanno sì che i reati da perseguire e quelli da far prescrivere siano scelti in base a criteri non trasparenti”. Per l’ex sottosegretario alla Giustizia, però, “discuterne in un clima di rissa finisce per farli accettare acriticamente o rifiutare pregiudizialmente”. Secondo Vietti, “un’ipotesi potrebbe essere quella di una sessione annuale del Parlamento sulla giustizia in cui, sentiti i procuratori delle Corti d’appello, i procuratori generali, il Csm e il ministro, si decidono una serie di priorità sull’esercizio dell’azione penale”.
Anche l’ex ministro della Giustizia Alfredo Biondi pensa che sia “un dogma da ridiscutere”, e aggiunge: “Oltre che obbligatoria occorrerebbe che l’azione penale fosse anonima”. Prima di toglierla del tutto, però, per l’ex senatore di Forza Italia bisognerebbe apportare due semplici cambiamenti: “L’obbligatorietà dell’azione penale deve essere regolata dal procuratore capo che, magari dopo un confronto con l’ordine degli avvocati, decide certe priorità piuttosto che altre, anche in base ai carichi di lavoro della procura, come ha fatto Maddalena a Torino, per esempio. Tutto questo ovviamente assieme alla separazione delle carriere oltre che delle funzioni dei magistrati”. Il senatore radicale del Pd Marco Perduca la definisce “un’anomalia tutta italiana che necessita una riforma, non palliativi da polemica quotidiana”. E’ ottimista il senatore, che per settembre è tra gli organizzatori di un convegno internazionale proprio su questo tema: “Non mi sembra di avere visto chiusure significative: fatta eccezione per l’Italia dei valori, anche a sinistra mi pare ci sia lo spazio per far crescere un po’ di movimento che porti a una discussione seria. L’importante è che se ne continui a parlare”.
E’ pessimista lo storico Ernesto Galli Della Loggia, che in un editoriale di domenica scorsa sul Corriere metteva la degenerazione dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pm in “totale arbitrio d’iniziativa del pm” come primo dei tre punti rivelatori della “patologia che affligge la giustizia italiana”. Dice infatti al Foglio che “è difficile che si apra un dibattito, perché sul tema dovrebbero essere i giuristi a esprimersi, ma essi sono ideologicamente prigionieri della loro militanza politica a sinistra; non c’è coraggio nei professori di Diritto penale e costituzionale”. Per l’editorialista del Corriere l’astio nei confronti di Berlusconi rovina tutto: “Non se ne farà nulla perché quella dei giuristi è una corporazione che si sente in dovere di sacrificare il proprio sapere alle ragioni della militanza politica”. Mario Cicala, esponente storico di Magistratura indipendente, sottolinea infine due problemi: “Oltre alla discrezionalità di celebrare i processi, vi è anche una discrezionalità del potere di indagine del magistrato che sceglie lui dove andare a cercare notizie di reato. Soltanto partendo da questa constatazione può iniziare un dibattito che farebbe abbandonare miti vuoti come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”.
da Il Foglio, del 5 luglio 2008
A sfogliare i quotidiani in questi giorni, a leggere e ascoltare le dichiarazioni di politici, esperti e professori, l’impressione è che il tabù dell’obbligatorietà dell’azione penale sancita dalla Costituzione cominci a sentirsi vecchio. Che insomma polemiche e scontri su giustizia, magistratura, Cav. e processi stiano parallelamente creando un fronte comune trasversale pronto a ridiscutere quello che per molti è “un principio non applicabile”, per cui “l’uguaglianza di fronte alla legge” suona come formula retorica. Non è un tema nuovo, questo, e in passato ha visto tra i suoi sostenitori anche nomi non certo vicini a Silvio Berlusconi, come il politologo Alessandro Pizzorno che definiva “una finzione” l’obbligatorietà dell’azione penale. Che oggi ci siano le premesse per un dibattito che porti a un cambiamento?
Per Luciano Violante “non ci sono tabernacoli intangibili, ma occorre capire dove si colloca il problema: molti lo ritengono un problema dell’ordinamento giudiziario, invece ha a che fare con il sistema politico. Su questo bisogna ragionare per discuterne in radice. Sappiamo tutti che è un’ipocrisia quella dell’obbligatorietà dell’azione penale, quindi ben venga un dibattito sul tema, ma senza che si abbia un processo alle spalle, senza interessi personali di mezzo e senza avere fretta di chiudere la partita”. Anche per Michele Vietti (Udc), “quello dell’obbligatorietà dell’azione penale è un simulacro: la moltiplicazione delle norme penali incriminatici e l’iniziativa dei singoli pm slegata da qualunque logica di coordinamento fanno sì che i reati da perseguire e quelli da far prescrivere siano scelti in base a criteri non trasparenti”. Per l’ex sottosegretario alla Giustizia, però, “discuterne in un clima di rissa finisce per farli accettare acriticamente o rifiutare pregiudizialmente”. Secondo Vietti, “un’ipotesi potrebbe essere quella di una sessione annuale del Parlamento sulla giustizia in cui, sentiti i procuratori delle Corti d’appello, i procuratori generali, il Csm e il ministro, si decidono una serie di priorità sull’esercizio dell’azione penale”.
Anche l’ex ministro della Giustizia Alfredo Biondi pensa che sia “un dogma da ridiscutere”, e aggiunge: “Oltre che obbligatoria occorrerebbe che l’azione penale fosse anonima”. Prima di toglierla del tutto, però, per l’ex senatore di Forza Italia bisognerebbe apportare due semplici cambiamenti: “L’obbligatorietà dell’azione penale deve essere regolata dal procuratore capo che, magari dopo un confronto con l’ordine degli avvocati, decide certe priorità piuttosto che altre, anche in base ai carichi di lavoro della procura, come ha fatto Maddalena a Torino, per esempio. Tutto questo ovviamente assieme alla separazione delle carriere oltre che delle funzioni dei magistrati”. Il senatore radicale del Pd Marco Perduca la definisce “un’anomalia tutta italiana che necessita una riforma, non palliativi da polemica quotidiana”. E’ ottimista il senatore, che per settembre è tra gli organizzatori di un convegno internazionale proprio su questo tema: “Non mi sembra di avere visto chiusure significative: fatta eccezione per l’Italia dei valori, anche a sinistra mi pare ci sia lo spazio per far crescere un po’ di movimento che porti a una discussione seria. L’importante è che se ne continui a parlare”.
E’ pessimista lo storico Ernesto Galli Della Loggia, che in un editoriale di domenica scorsa sul Corriere metteva la degenerazione dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pm in “totale arbitrio d’iniziativa del pm” come primo dei tre punti rivelatori della “patologia che affligge la giustizia italiana”. Dice infatti al Foglio che “è difficile che si apra un dibattito, perché sul tema dovrebbero essere i giuristi a esprimersi, ma essi sono ideologicamente prigionieri della loro militanza politica a sinistra; non c’è coraggio nei professori di Diritto penale e costituzionale”. Per l’editorialista del Corriere l’astio nei confronti di Berlusconi rovina tutto: “Non se ne farà nulla perché quella dei giuristi è una corporazione che si sente in dovere di sacrificare il proprio sapere alle ragioni della militanza politica”. Mario Cicala, esponente storico di Magistratura indipendente, sottolinea infine due problemi: “Oltre alla discrezionalità di celebrare i processi, vi è anche una discrezionalità del potere di indagine del magistrato che sceglie lui dove andare a cercare notizie di reato. Soltanto partendo da questa constatazione può iniziare un dibattito che farebbe abbandonare miti vuoti come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”.
da Il Foglio, del 5 luglio 2008
La Lega invita Berlusconi a cambiare rotta
Il saggio Calderoli ha oggi pronunciato parole chiare e razionali sul tema giustizia e priorità di governo. Ha rammentato che le priorità che il popolo ha consegnato ai vincitori sono potere d'acquisto dei salari, detassazione e federalismo. Il tema giustizia è un nervo scoperto della società italiana ma anche e solo un affanno di Berlusconi, e non è risolvibile con leggi-salvacondotto ma piuttosto con una profonda riforma di lungo periodo concepita in una logica bipartisan. Ciò è indispensabile per la portata drammatica dell'argomento e politicamente opportuno per isolare i giustizialisti alla Di Pietro. Per i fabbisogni processuali del premier basta ed avanza il lodo Alfano, in attesa di rimettere mano all'obbligatorietà dell'azione penale, magari secondo gli schemi cui Nordio ha lavorato per cinque anni.
L'uscita di Calderoli è a mio avviso sintomatica dell'irritazione leghista per il mese di follia di Berlusconi, e sottointende anche qualche importante presa di distanza nel Pdl dell'ala Tremontiana.
L'altolà arriva quanto mai opportuno per rimettere in linea di gallegiamento l'azione di governo e per mandare un segnale chiaro e forte a Berlusconi. Gli anni dell'improvvisazione e della difesa degli interessi particolari sono finiti. Questa maggioranza ha fiato per governare per più lustri se saprà realizzare gli importanti obiettivi di politica economica e sociale che il paese si aspetta.
O l'uomo di Arcore se ne fa una ragione o questa maggioranza ha forza e fiato per avvicendarlo al posto di comando.
L'uscita di Calderoli è a mio avviso sintomatica dell'irritazione leghista per il mese di follia di Berlusconi, e sottointende anche qualche importante presa di distanza nel Pdl dell'ala Tremontiana.
L'altolà arriva quanto mai opportuno per rimettere in linea di gallegiamento l'azione di governo e per mandare un segnale chiaro e forte a Berlusconi. Gli anni dell'improvvisazione e della difesa degli interessi particolari sono finiti. Questa maggioranza ha fiato per governare per più lustri se saprà realizzare gli importanti obiettivi di politica economica e sociale che il paese si aspetta.
O l'uomo di Arcore se ne fa una ragione o questa maggioranza ha forza e fiato per avvicendarlo al posto di comando.
01 luglio 2008
Europei 2008: gli iberici hanno vinto e convinto
Il centravanti campione del mondo che ti segna più di zero gol in cinque partite, il grande talento del calcio italiano che avendo intorno fiducia si mette e fare la differenza, il centrocampo che pur senza il suo regista è pieno di gente che ha vinto tutto da protagonista, la difesa registrata dopo l'esordio disastroso, il miglior portiere del mondo o giù di lì: Donadoni si starà chiedendo come mai gli azzurri non siano campioni d'Europa, con lui glorificato ed il ridicolo contratto prolungato in automatico, ma questo non toglie che le sconfitte ai rigori siano vere sconfitte (altrimenti le vittorie non sarebbero vere vittorie, dalla Coppa del Mondo in giù) e che la Spagna in ogni reparto abbia una qualità ed un'età media da fare spavento non solo ad un'Italia che comunque i suoi De Silvestri e Balotelli li produce sempre. Grottesca la retorica sui giovani, che applicata alla Spagna prende spesso connotazioni politiche (i vecchi spagnoli saranno rinchiusi in qualche lager?), così come la scoperta di Aragones che allena da 35 anni ai massimi livelli nella Liga. E che fra poco a 70 anni, invece di fare il santone ritirandosi o gestendo una Spagna che va avanti da sola, proverà per la prima volta l'avventura all'estero sulla impossibile panchina del Fenerbahce che ha distrutto i nervi non solo di Zico ma anche di gente come Hiddink, Parreira, Ivic, Venglos e Baric. Grande coraggio, complimenti. In questo Europeo la bravura di Aragones, oltre a quella di pensionare Raul-Del Piero (ancora valido ma troppo condizionante), è stata soprattutto gestire con il pugno di ferro le rotazioni dei giocatori, particolarmente complicate a centrocampo dove quasi sempre Fabregas e Xabi Alonso sono partiti dalla panchina. Integrando il tutto con cambi di posizione che hanno fatto la differenza, in questo favorito dalla versatilità di un Iniesta di superlusso. Poi l'infortunio di Villa in leggero calo gli ha paradossalmente facilitato il compito nel finale: se con un centrocampo a quattro gli avversari vedevano poco la palla, con uno a cinque non l'hanno proprio mai vista. Un successo dal peso specifico pazzesco, passando in scioltezza il girone, superando con merito i campioni del mondo e la squadra con i picchi di rendimento più alti dell'Europeo, infine evitando di perdere la testa in una finale da strafavoriti. Vinta correndo pochi rischi contro una Germania dalle poche armi, lasciando capire che ci sarà molto altro da dire: con in panchina un altro saggio come Vicente Del Bosque, anche lui senza le emozioni del visionario ma con la credibilità (e rispetto ad Aragones qualche trofeo in più, ogni paese ha i suoi amanti del genere 'bacheca') per farsi ascoltare da un gruppo di talenti.
Stefano Olivari su La Settimana Sportiva
Stefano Olivari su La Settimana Sportiva
27 giugno 2008
Andrea's version
Concesso che dura sarà sempre, per lo meno adesso la questione è più civile. Una volta confermato che, con Borrelli ai giardinetti, Scalfaro ai giardinetti, Caselli (come insinua Sorrentino nel “Divo”) più che altro dal coiffeur, e con Colombo e D’Avigo nei pressi a loro volta delle panchine del parco, straconfermato, si diceva, che in questa sua nuova e meno infelice condizione l’Italia potrebbe diventare perfino un paese passabilmente anormale, due considerazioni bisogna aggiungerle. La prima è che Borrelli, Caselli e compagnia trascorsa, non è che avessero puntato la prua esattamente su un paio di frilli. Craxi, Andreotti, Berlusconi, ma pure Previti, Mannino, Pomicino, insomma, era tutta gente tosta, per cui onore quantomeno al fegato. Il secondo rilievo è figlio invece delle cronache di questi giorni e delle inevitabili preoccupazioni per il bilancio. Dal momento che i nouveaux magistrates, con quello che costano laurea e concorsi, d’ora in poi faranno i ganassa solo con le Vanne Marchi e i Vittori Cecchi Gori, non si potrebbero prendere dei diplomati?
Andrea Mercenaro sul Foglio
Andrea Mercenaro sul Foglio
Me lo ricordavo meno peggio
Non sono trascorsi due mesi e Berlusconi riesce a dare il peggio di se stesso. Incurante delle motivazioni che hanno spinto il popolo a dargli una amplissima maggioranza, è tornato ad impelagarsi in storie di corruzioni, processi da non finire, baldracche da sistemare in Rai (forse a Mediaset non lo ascoltano più, come quando parla di Milan?).
La sinistra ormai in decozione si sente rianimata nonostante in Sicilia abbia subito una disfatta elettorale storica.
Mi sembra si possano trarre due conclusioni.
Il centro-destra resta la maggioranza assoluta del paese nonostante Berlusconi e non grazie a Berlusconi. Proprio per ciò deve seriamente pensare ad un rapido avvicendamento del medesimo alla guida del governo.
La magistratura è ormai contropotere nel nostro paese. Se non la si caccia in un angolo a fare il suo mestiere, ed anche bene, la svolta autoritaria in Italia è molto più vicina di quanto ci si illuda.
La sinistra ormai in decozione si sente rianimata nonostante in Sicilia abbia subito una disfatta elettorale storica.
Mi sembra si possano trarre due conclusioni.
Il centro-destra resta la maggioranza assoluta del paese nonostante Berlusconi e non grazie a Berlusconi. Proprio per ciò deve seriamente pensare ad un rapido avvicendamento del medesimo alla guida del governo.
La magistratura è ormai contropotere nel nostro paese. Se non la si caccia in un angolo a fare il suo mestiere, ed anche bene, la svolta autoritaria in Italia è molto più vicina di quanto ci si illuda.
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