Vado lontano dall'Italia per un po' di giorni.
Auguro a tutti buon Natale.
18 dicembre 2009
06 dicembre 2009
Italia patria del diritto
Vorremmo cortesemente avvisare il N.Y. Times, la CNN, il Washington Post, Newsweek e il fior fiore dell'informazione progressista americana, la quale ha mandato prestigiosissimi inviati a Perugia, Italia, per seguire il processo ad Amanda Knox, salvo scoprire, infine: con Timoty Egan(N.Y.T. premio Pulitzer) "che questo processo italiano ha poco a che fare con le prove fattuali" con Barbie Nadeau (Newsweek),"che in Italia l'imputata è colpevole prima di essere giudicata colpevole"; con il duo John Q.Kelly-Larry King (CNN) che "in Italia è in corso la più straordinaria persecuzione giudiziaria mai vista", e qui ci fermiamo per carità di patria; ma si
vorrebbe, dicevamo, cortesemente avvisare questi fascistoni di americani, i quali si ritrovano felici e contenti con il loro pubblico ministero alle dipendenze dell'esecutivo, di fare quantomeno il favore di non rompere i coglioni alla gloriosa autonomia della nostra gloriosa magistratura.
Andrea's Version, da il Foglio del 5 dicembre 2009
vorrebbe, dicevamo, cortesemente avvisare questi fascistoni di americani, i quali si ritrovano felici e contenti con il loro pubblico ministero alle dipendenze dell'esecutivo, di fare quantomeno il favore di non rompere i coglioni alla gloriosa autonomia della nostra gloriosa magistratura.
Andrea's Version, da il Foglio del 5 dicembre 2009
27 novembre 2009
Rivoluzione e resurrezione
Nessuna rivoluzione può creare un uomo nuovo: ciò sarebbe sempre e soltanto violenza e costrizione; ma lo può creare Dio, a partire dal di dentro. La speranza che ce lo fa attendere conferisce anche al nostro agire dentro la storia una speranza nuova.
In verità, quando si lascia da parte il problema della morte, non viene data alcuna risposta sufficiente alle domande umane di giustizia e libertà. Tutti i morti della storia passata, infatti, sono uomini ingannati, se solo un avvenire imprecisato porterà un giorno la giustizia sulla terra. Non giova nulla dire che anch'essi avrebbero collaborato a preparare e a realizzare la rivoluzione e che per questo ora ne sarebbero entrati a farne parte. Essi non vi sono affatto entrati, sono anzi usciti dalla storia, e senza avere ottenuto giustizia.
In questo caso, la misura dell'ingiustizia rimane sempre infinitamente maggiore della misura della giustizia che si può realizzare. Per questo un pensatore così coerentemente marxista come Adorno ha detto che, se ci deve essere giustizia, ci dovrebbe essere giustizia anche per i morti. Una liberazione, che trova nella morte il suo limite definitivo, non è una liberazione reale. Senza una soluzione al problema della morte, tutto il resto diventa irreale e contradditorio.
Perciò la fede nella resurrezione dei morti è il punto a partire dal quale è possibile pensare una giustizia per la storia, e può quindi diventare ragionevole lottare per essa. Soltanto se esiste resurrezione dei morti ha senso anche morire per la giustizia: perché solo allora la giustizia è qualcosa di più che il potere, e soltanto allora essa è un a realtà, altrimenti non rimane che un'idea vuota.
Per questo, la certezza di un giudizio universale che attende il mondo ha anch'essa un significato eminentemente pratico. Lungo i secoli, la coscienza che un giorno ci sarà il giudizio è stata la forza che, sempre di nuovo, ha trattenuto i potenti a trasgredire determinati limiti. Noi tutti dovremo passare per questo giudizio, ognuno di noi ed è questo che costituisce quell'eguaglianza tra gli uomini, cui nessuno potrà mai sottrarsi. Il giudizio finale non ci esime quindi dallo sforzo di promuovere la giustizia nella storia; al contrario, esso dona a questo sforzo il suo significato e sottrae la sua doverosità ad ogni arbitrio.
Così anche il regno di Dio non è affatto un futuro confuso e indistinto. Solo nella misura in cui noi, già in questa vita, apparteniamo al regno, vi apparterremo in quel giorno. Non è la fede nelle verità ultime, la fede nella sua valenza escatologica a compiere l'errore di rimandare il regno nel futuro: è invece l'utopia che lo commette, poiché il suo futuro non ha alcun presente e la sua ora non arriva mai.
Joseph Ratzinger: Chiesa, ecumenismo e politica (p. 256s)
In verità, quando si lascia da parte il problema della morte, non viene data alcuna risposta sufficiente alle domande umane di giustizia e libertà. Tutti i morti della storia passata, infatti, sono uomini ingannati, se solo un avvenire imprecisato porterà un giorno la giustizia sulla terra. Non giova nulla dire che anch'essi avrebbero collaborato a preparare e a realizzare la rivoluzione e che per questo ora ne sarebbero entrati a farne parte. Essi non vi sono affatto entrati, sono anzi usciti dalla storia, e senza avere ottenuto giustizia.
In questo caso, la misura dell'ingiustizia rimane sempre infinitamente maggiore della misura della giustizia che si può realizzare. Per questo un pensatore così coerentemente marxista come Adorno ha detto che, se ci deve essere giustizia, ci dovrebbe essere giustizia anche per i morti. Una liberazione, che trova nella morte il suo limite definitivo, non è una liberazione reale. Senza una soluzione al problema della morte, tutto il resto diventa irreale e contradditorio.
Perciò la fede nella resurrezione dei morti è il punto a partire dal quale è possibile pensare una giustizia per la storia, e può quindi diventare ragionevole lottare per essa. Soltanto se esiste resurrezione dei morti ha senso anche morire per la giustizia: perché solo allora la giustizia è qualcosa di più che il potere, e soltanto allora essa è un a realtà, altrimenti non rimane che un'idea vuota.
Per questo, la certezza di un giudizio universale che attende il mondo ha anch'essa un significato eminentemente pratico. Lungo i secoli, la coscienza che un giorno ci sarà il giudizio è stata la forza che, sempre di nuovo, ha trattenuto i potenti a trasgredire determinati limiti. Noi tutti dovremo passare per questo giudizio, ognuno di noi ed è questo che costituisce quell'eguaglianza tra gli uomini, cui nessuno potrà mai sottrarsi. Il giudizio finale non ci esime quindi dallo sforzo di promuovere la giustizia nella storia; al contrario, esso dona a questo sforzo il suo significato e sottrae la sua doverosità ad ogni arbitrio.
Così anche il regno di Dio non è affatto un futuro confuso e indistinto. Solo nella misura in cui noi, già in questa vita, apparteniamo al regno, vi apparterremo in quel giorno. Non è la fede nelle verità ultime, la fede nella sua valenza escatologica a compiere l'errore di rimandare il regno nel futuro: è invece l'utopia che lo commette, poiché il suo futuro non ha alcun presente e la sua ora non arriva mai.
Joseph Ratzinger: Chiesa, ecumenismo e politica (p. 256s)
23 novembre 2009
Decerebrati e felici (profilo di spettatore della TV generalista, ma anche satellitare)
Un aggiornamento scientifico ogni tanto ci vuole, per precisare lo stato reale delle cose. Perché se abbiamo un compito (qui su "Indiscreto") è quello di spazzare via l'epica da bar sport o almeno renderla meno ipocrita. Tutta quella melassa da quattro soldi, spalmata su una montagna di retorica facile e strappalacrime, preparata solitamente sotto dettatura e prezzolata. Visto che dalle altre parti, vantando padrini padroni ingombranti (beati loro...), tendono a fornire una versione dei fatti alterata o di comodo, noi abbiamo bisogno del samizdat: il sistema usato nell'Urss di Stalin per diffondere materiale informativo clandestino. Per farlo compiutamente, necessitiamo di un preambolo tortuoso come la discesa del Fauniera...
Qualche anno fa in Irlanda ebbero l'idea di produrre un telefilm dalla verve comica irresistibile, basato su un argomento tabù dalle nostre parti. "Father Ted" elevò a icone di resistenza umana tre preti cattolici, confinati su un'isola sperduta: il protagonista Ted, donnaiolo e scommettitore folle; il vecchio Jack, alcolizzato demente e violento, e il giovane (?) Dougal, un ventiseienne ritardato mentalmente. I tre eroi, esiliati dal mondo moderno perché impresentabili, rappresentavano loro malgrado il rifiuto totale verso il sistema: improbabilmente anarchici e magnificamente liberi. Ebbene, la serie (che ebbe un successo incredibile) coniò pure un neologismo: il dougalismo, ovvero l'incapacità di distinguere tra realtà e finzione, enunciando frasi talmente stupide e ignoranti da apparire surreali (postdadaiste?).
Il punto è proprio questo: oggi i media, chi più chi meno, sognano un mondo di idioti felici, pronti a bere (e quindi consumare) qualsiasi aborto giornalistico partorito dal quarto (e quinto) potere. Insomma un pianeta di Dougal: eterni adolescenti cristallizzati sul vuoto pneumatico, incapaci di andare oltre le frasi fatte e la destrutturazione cerebrale delle stesse. [...]
di Simone Basso, dal blog Indiscreto
Qualche anno fa in Irlanda ebbero l'idea di produrre un telefilm dalla verve comica irresistibile, basato su un argomento tabù dalle nostre parti. "Father Ted" elevò a icone di resistenza umana tre preti cattolici, confinati su un'isola sperduta: il protagonista Ted, donnaiolo e scommettitore folle; il vecchio Jack, alcolizzato demente e violento, e il giovane (?) Dougal, un ventiseienne ritardato mentalmente. I tre eroi, esiliati dal mondo moderno perché impresentabili, rappresentavano loro malgrado il rifiuto totale verso il sistema: improbabilmente anarchici e magnificamente liberi. Ebbene, la serie (che ebbe un successo incredibile) coniò pure un neologismo: il dougalismo, ovvero l'incapacità di distinguere tra realtà e finzione, enunciando frasi talmente stupide e ignoranti da apparire surreali (postdadaiste?).
Il punto è proprio questo: oggi i media, chi più chi meno, sognano un mondo di idioti felici, pronti a bere (e quindi consumare) qualsiasi aborto giornalistico partorito dal quarto (e quinto) potere. Insomma un pianeta di Dougal: eterni adolescenti cristallizzati sul vuoto pneumatico, incapaci di andare oltre le frasi fatte e la destrutturazione cerebrale delle stesse. [...]
di Simone Basso, dal blog Indiscreto
18 novembre 2009
La frontiera del terziario: agitare accuratamente il fumo dentro lo scatolone
Il Convegno sul Digital Signage.
Se il mondo aziendale è il regno del non senso e il marketing è il riassunto del nulla, la partecipazione a un Convegno è la sublimazione assoluta del vuoto.
L’altra settimana ho avuto l’onore di partecipare a un convegno sul Digital Signage. Non chiedetemi cosa cazzo sia perchè non lo so e nemmeno mi interessa. Però ci sto lavorando da un po' di tempo e ho fatto una gran figura con il mio capo mostrando un certo interesse per partecipare alla cosa.
Va da se che a un corso o a un convegno si va esclusivamente per tre motivi:
1) Vedere se c’è figa
2) Mangiare a scrocco
3) Passare una giornata fuori dall’ufficio di merda
E’ con queste solide motivazioni che mi sono alzato alle 6 del mattino e ho messo il mio culo su uno sporchissimo Intercity di trenitalia diretto a Milano. Trascorso il solito viaggio con aria condizionata a -10° e il solito ritardo sono arrivato al prestigioso Hotel giusto in tempo per ascoltare il primo relatore.
Ben lungi da me l’idea di concentrarmi sulle presentazioni ho cominciato a esplorare attentamente la sala.
Tutti uomini! Ma porc.... e le famose belle ragazze milanesi? Tre o quattro al massimo e già ampiamente circondate da serissimi manager in abito scuro.
Disastro.
Tanti anni fuori da Milano mi hanno fatto perdere smalto. I manager Milanesi sono tutti inappuntabili, attentissimi e carichissimi. Io ho la faccia di cartone, rispetto a loro sono vestito come un diciottenne e il mio cervello ha la stessa capacità di concentrazione di una scimmia che salta da un ramo all’altro nella giungla...
Lo so che loro, nel loro intimo, stanno pensando “che palle” esattamente come me. Però non lo danno a vedere e, devo ammetterlo, se la tirano da gran professionisti.
Mentre rassegnato mi metto a seguire la materia del Convegno (facendo una estrema sintesi in genovese potremmo dire: tutte musse) riapro il book e mi saltano all’occhio i Curriculum Vitae dei relatori.
Una vera meraviglia. Chi più ne ha più ne metta. Titoloni a stecca, referenze a manetta e, soprattutto, una serie di minchiate immonde.
Tralasciando i numerosi figli di papà che da neolaureati si sono trovati “Direttori della filiale di Londra” oppure con un “Master alla San Diego University” di seguito riporto alcune perle che mi hanno commosso:
• Membro dell’associazione Mensa - associazione mondiale delle persone dotate di alto QI – (giuro, c’è scritto cosi!!!)
• Svolgo l’attività di Disruptive Innovator (e sticazzi!)
• Ero noto con lo pseudonimo di “1.0” (ma vaffanculo va!!!)
• E’ mia l’idea di dare voce (contenuto parlato) ai siti internet (e come no!!!)
• Nel 1996 realizza la prima moneta virtuale al mondo “EnergyBank” (ah belin!!!)
• Nel 2007 produce TuoVideo definito dalla stampa lo YouTube italiano (ah ah ah ah!!!)
• Mi interesso di letterattura francese e jazz (ma vai a lavorare va!!!)
Man mano che leggo, la consapevolezza che la gente che scrive queste cazzate poi fa carriera e soldi mi fa montare una tale carogna che mi porta a terminare velocemente la lettura prima di dover mettere le mani addosso a qualcuno.
Arriva l’ora dell’agognato pranzo. Purtroppo non è a buffet ma è servito al tavolo impedendomi le classiche razzie di piatti composti da pasta, carne, patatine, crocchette e sottaceti tutti mischiati assieme. Mi ritrovo a un tavolo dove parlano di lavoro. Tento qualche sortita di cazzeggio ma vengo subito stoppato tipo “Pierino, stai zitto che qui siamo gente seria e parliamo di business”. Rassegnato mi bevo cinque bicchieri di bianco per affrontare il pomeriggio.
Il Convegno riparte e ormai il mio livello di attenzione è lo stesso che ho guardando un GP di Formula 1. Morte apparente.
Passa un tempo indeterminato e sulla frase che da sola riassume il vero spessore intellettuale dei relatori: “anche i tristi musei possono essere ravvivati da questa tecnologia del Digital Signage” , mi riprendo e mi accorgo che devo correre in stazione. Faccio giusto a tempo a comprare un libro sul tema del convegno in modo da poter raccontare qualcosa al mio capo quando mi chiederà l’inevitabile resoconto di quel che hanno detto.
Prendo le mie carabattole e me la filo.
Un’altra proficua giornata da uomo di marketing è trascorsa.
di Polonegativo, dal blog: Burattini da ufficio
Rendo onore e merito al blog di Polonegativo, che trasuda verità lapidarie ed incontrovertibili, e porto qui la mia onesta testimonianza di manager in una società "attiva nel settore della comunicazione digitale e più specificamente nel digital signage delivery". Posso per di più pregiarmi di avere assistito al convegno di cui all'oggetto del post.
Sono con ciò portatore sano (ma non in ottima salute) di solide esperienze ed argomentazioni, attraverso le quali tenterò di diradare le nebbie che ancora oggi si addensano davanti agli occhi dell'autore e dei molti altri che tuttora si domandano: ma il Digital Signage, in definitiva, che cazzo è?
La risposta è das Nicht, il nulla. Non esiste nella stanza, alla stregua della donna nell'aforisma di Karl Kraus. Esso non esiste in sé! A questa drammatica conclusione esistenziale sono giunti (dopo un paio di ricapitalizzazioni, un numero imprecisato di trasferimenti di quote sociali e svariate centinaia di migliaia di euro di perdite a fronte di zero centesimi di euro di ricavi) anche i due titolari della mia azienda “attiva nel Digital Signage”.
Il primo s'è dileguato con le prime brume d’autunno, portandosi appresso soci di capitale, partner di servizio e (in una grossa scatola di cartone) persino i robot d'acciaio con i quali aveva adornato gli scaffali (freddi e vuoti) della nostra sede operativa: gli scaffali che noi dipendenti - così, per farci un po' di compagnia e di calore - avevamo affettuosamente battezzato "le minchie" (una volgare deformazione di "le nicchie"). Mi si perdoni la divagazione romantica, ma tant'è.
Dal momento che al peggio non vi è mai fine, il secondo titolare (dopo aver ricevuto in dono dagli ex azionisti le quote della società, con annesse le perdite a cinque zeri di cui più sopra) nell'estremo tentativo di salvare la nave che cola a picco, ha pensato dunque di affidarsi a due "professionisti del marketing". Con ciò, sono diventato il responsabile operativo di una "agenzia di marketing".
Ora, un cristiano medio come me si domanda: ma che cazzo fa una agenzia di marketing?
Dopo una prima fase di smarrimento (chi siamo? dove andiamo? ci sarà vita su Marte?) ho tuttavia recuperato aplomb e dirittura metodologica, e prontamente ho convocato una riunione con i due "professionisti del marketing" ed il seguente ordine del giorno:
1) Il nuovo modello di offerta:
a. Dichiarazione formale dei servizi che sono oggetto del business aziendale,
b. Dichiarazione delle partnership di servizio in essere (specifica dei referenti e modalità di relazione).
2) La nuova strategia di marketing:
a. Formalizzazione degli obiettivi aziendali (qualitativi e quantitativi),
b. Dichiarazione delle azioni di marketing atte a raggiungere gli obiettivi aziendali,
c. Definizione degli strumenti (materiali) a supporto delle azioni di marketing.
3) I nuovi materiali istituzionali (declinazione del modello di offerta e della strategia di marketing):
a. Determinazione dei materiali da realizzare,
b. Identificazione dei responsabili (interni/esterni) del rilascio dei materiali da realizzare.
4) Le nuove linee-guida commerciali:
a. Approvazione della (mia) proposta di processo per la gestione dell’offerta commerciale,
b. Declinazione della strategia di marketing nella gestione dei prospect (quali mezzi: mail? telefonata?).
5) Reporting delle attività commerciali:
a. Approvazione del report proposto (da me) per il tracciamento dello stato avanzamento lavori,
b. Determinazione della frequenza di erogazione del report e condivisione delle modalità di feed-back.
La reazione dei due “professionisti del marketing” alla lettura dell’agenda è stata, per dirla con un eufemismo, un po' scomposta. La riunione ha avuto infatti una durata complessiva di non più di mezzora, nella prima metà della quale sono stati sommariamente smarcati i punti relativi alla mission aziendale: “vogliamo essere consulenti della comunicazione”, alla strategia di marketing: “il nostro scopo è portare a casa ordini di una prestazione di marketing” e agli obiettivi quantitativi: "1,5 milioni di euro di fatturato entro 30 giorni, 10 milioni nel 2010".
Alla mia cortese richiesta di declinare con maggiore concretezza strategie e obiettivi in azioni e strumenti, uno dei due "professionisti del marketing" abbandonava polemicamente la sala riunioni, sostenendo di non avere altro tempo da perdere. Il secondo mi accusava di essere “un sofistico” e mi congedava con l’invettiva: “Lei dovrebbe lavorare all’Eni!”.
La notte ha portato sonni disturbati.
Stamane il mio datore di lavoro mi ha convocato per comunicarmi che, stante la mia totale assenza di proattività e il disagio ambientale da me provocato con la riunione del giorno prima, devo ritenermi sollevato da tutte le responsabilità di supervisione e controllo dei processi operativi dell'azienda.
Ho tentato di argomentare sulla differenza che corre fra le mansioni attinenti i processi operativi e quelle di natura strategico-decisionale. In altre parole: questo cazzo di piano di marketing dovrà mica descriverlo il responsabile di processo??
Lo sguardo perso nell’infinito del mio interlocutore (soglia di attenzione crollata a zero dopo cinque secondi) mi ha persuaso della totale irrecuperabilità della situazione.
Da domani mi occuperò di “progetti verticali”.
Ma se rinasco, giuro che rinasco proattivo. Oppure professionista del marketing.
zioSteve (el Hombre Vertical)
Se il mondo aziendale è il regno del non senso e il marketing è il riassunto del nulla, la partecipazione a un Convegno è la sublimazione assoluta del vuoto.
L’altra settimana ho avuto l’onore di partecipare a un convegno sul Digital Signage. Non chiedetemi cosa cazzo sia perchè non lo so e nemmeno mi interessa. Però ci sto lavorando da un po' di tempo e ho fatto una gran figura con il mio capo mostrando un certo interesse per partecipare alla cosa.
Va da se che a un corso o a un convegno si va esclusivamente per tre motivi:
1) Vedere se c’è figa
2) Mangiare a scrocco
3) Passare una giornata fuori dall’ufficio di merda
E’ con queste solide motivazioni che mi sono alzato alle 6 del mattino e ho messo il mio culo su uno sporchissimo Intercity di trenitalia diretto a Milano. Trascorso il solito viaggio con aria condizionata a -10° e il solito ritardo sono arrivato al prestigioso Hotel giusto in tempo per ascoltare il primo relatore.
Ben lungi da me l’idea di concentrarmi sulle presentazioni ho cominciato a esplorare attentamente la sala.
Tutti uomini! Ma porc.... e le famose belle ragazze milanesi? Tre o quattro al massimo e già ampiamente circondate da serissimi manager in abito scuro.
Disastro.
Tanti anni fuori da Milano mi hanno fatto perdere smalto. I manager Milanesi sono tutti inappuntabili, attentissimi e carichissimi. Io ho la faccia di cartone, rispetto a loro sono vestito come un diciottenne e il mio cervello ha la stessa capacità di concentrazione di una scimmia che salta da un ramo all’altro nella giungla...
Lo so che loro, nel loro intimo, stanno pensando “che palle” esattamente come me. Però non lo danno a vedere e, devo ammetterlo, se la tirano da gran professionisti.
Mentre rassegnato mi metto a seguire la materia del Convegno (facendo una estrema sintesi in genovese potremmo dire: tutte musse) riapro il book e mi saltano all’occhio i Curriculum Vitae dei relatori.
Una vera meraviglia. Chi più ne ha più ne metta. Titoloni a stecca, referenze a manetta e, soprattutto, una serie di minchiate immonde.
Tralasciando i numerosi figli di papà che da neolaureati si sono trovati “Direttori della filiale di Londra” oppure con un “Master alla San Diego University” di seguito riporto alcune perle che mi hanno commosso:
• Membro dell’associazione Mensa - associazione mondiale delle persone dotate di alto QI – (giuro, c’è scritto cosi!!!)
• Svolgo l’attività di Disruptive Innovator (e sticazzi!)
• Ero noto con lo pseudonimo di “1.0” (ma vaffanculo va!!!)
• E’ mia l’idea di dare voce (contenuto parlato) ai siti internet (e come no!!!)
• Nel 1996 realizza la prima moneta virtuale al mondo “EnergyBank” (ah belin!!!)
• Nel 2007 produce TuoVideo definito dalla stampa lo YouTube italiano (ah ah ah ah!!!)
• Mi interesso di letterattura francese e jazz (ma vai a lavorare va!!!)
Man mano che leggo, la consapevolezza che la gente che scrive queste cazzate poi fa carriera e soldi mi fa montare una tale carogna che mi porta a terminare velocemente la lettura prima di dover mettere le mani addosso a qualcuno.
Arriva l’ora dell’agognato pranzo. Purtroppo non è a buffet ma è servito al tavolo impedendomi le classiche razzie di piatti composti da pasta, carne, patatine, crocchette e sottaceti tutti mischiati assieme. Mi ritrovo a un tavolo dove parlano di lavoro. Tento qualche sortita di cazzeggio ma vengo subito stoppato tipo “Pierino, stai zitto che qui siamo gente seria e parliamo di business”. Rassegnato mi bevo cinque bicchieri di bianco per affrontare il pomeriggio.
Il Convegno riparte e ormai il mio livello di attenzione è lo stesso che ho guardando un GP di Formula 1. Morte apparente.
Passa un tempo indeterminato e sulla frase che da sola riassume il vero spessore intellettuale dei relatori: “anche i tristi musei possono essere ravvivati da questa tecnologia del Digital Signage” , mi riprendo e mi accorgo che devo correre in stazione. Faccio giusto a tempo a comprare un libro sul tema del convegno in modo da poter raccontare qualcosa al mio capo quando mi chiederà l’inevitabile resoconto di quel che hanno detto.
Prendo le mie carabattole e me la filo.
Un’altra proficua giornata da uomo di marketing è trascorsa.
di Polonegativo, dal blog: Burattini da ufficio
Rendo onore e merito al blog di Polonegativo, che trasuda verità lapidarie ed incontrovertibili, e porto qui la mia onesta testimonianza di manager in una società "attiva nel settore della comunicazione digitale e più specificamente nel digital signage delivery". Posso per di più pregiarmi di avere assistito al convegno di cui all'oggetto del post.
Sono con ciò portatore sano (ma non in ottima salute) di solide esperienze ed argomentazioni, attraverso le quali tenterò di diradare le nebbie che ancora oggi si addensano davanti agli occhi dell'autore e dei molti altri che tuttora si domandano: ma il Digital Signage, in definitiva, che cazzo è?
La risposta è das Nicht, il nulla. Non esiste nella stanza, alla stregua della donna nell'aforisma di Karl Kraus. Esso non esiste in sé! A questa drammatica conclusione esistenziale sono giunti (dopo un paio di ricapitalizzazioni, un numero imprecisato di trasferimenti di quote sociali e svariate centinaia di migliaia di euro di perdite a fronte di zero centesimi di euro di ricavi) anche i due titolari della mia azienda “attiva nel Digital Signage”.
Il primo s'è dileguato con le prime brume d’autunno, portandosi appresso soci di capitale, partner di servizio e (in una grossa scatola di cartone) persino i robot d'acciaio con i quali aveva adornato gli scaffali (freddi e vuoti) della nostra sede operativa: gli scaffali che noi dipendenti - così, per farci un po' di compagnia e di calore - avevamo affettuosamente battezzato "le minchie" (una volgare deformazione di "le nicchie"). Mi si perdoni la divagazione romantica, ma tant'è.
Dal momento che al peggio non vi è mai fine, il secondo titolare (dopo aver ricevuto in dono dagli ex azionisti le quote della società, con annesse le perdite a cinque zeri di cui più sopra) nell'estremo tentativo di salvare la nave che cola a picco, ha pensato dunque di affidarsi a due "professionisti del marketing". Con ciò, sono diventato il responsabile operativo di una "agenzia di marketing".
Ora, un cristiano medio come me si domanda: ma che cazzo fa una agenzia di marketing?
Dopo una prima fase di smarrimento (chi siamo? dove andiamo? ci sarà vita su Marte?) ho tuttavia recuperato aplomb e dirittura metodologica, e prontamente ho convocato una riunione con i due "professionisti del marketing" ed il seguente ordine del giorno:
1) Il nuovo modello di offerta:
a. Dichiarazione formale dei servizi che sono oggetto del business aziendale,
b. Dichiarazione delle partnership di servizio in essere (specifica dei referenti e modalità di relazione).
2) La nuova strategia di marketing:
a. Formalizzazione degli obiettivi aziendali (qualitativi e quantitativi),
b. Dichiarazione delle azioni di marketing atte a raggiungere gli obiettivi aziendali,
c. Definizione degli strumenti (materiali) a supporto delle azioni di marketing.
3) I nuovi materiali istituzionali (declinazione del modello di offerta e della strategia di marketing):
a. Determinazione dei materiali da realizzare,
b. Identificazione dei responsabili (interni/esterni) del rilascio dei materiali da realizzare.
4) Le nuove linee-guida commerciali:
a. Approvazione della (mia) proposta di processo per la gestione dell’offerta commerciale,
b. Declinazione della strategia di marketing nella gestione dei prospect (quali mezzi: mail? telefonata?).
5) Reporting delle attività commerciali:
a. Approvazione del report proposto (da me) per il tracciamento dello stato avanzamento lavori,
b. Determinazione della frequenza di erogazione del report e condivisione delle modalità di feed-back.
La reazione dei due “professionisti del marketing” alla lettura dell’agenda è stata, per dirla con un eufemismo, un po' scomposta. La riunione ha avuto infatti una durata complessiva di non più di mezzora, nella prima metà della quale sono stati sommariamente smarcati i punti relativi alla mission aziendale: “vogliamo essere consulenti della comunicazione”, alla strategia di marketing: “il nostro scopo è portare a casa ordini di una prestazione di marketing” e agli obiettivi quantitativi: "1,5 milioni di euro di fatturato entro 30 giorni, 10 milioni nel 2010".
Alla mia cortese richiesta di declinare con maggiore concretezza strategie e obiettivi in azioni e strumenti, uno dei due "professionisti del marketing" abbandonava polemicamente la sala riunioni, sostenendo di non avere altro tempo da perdere. Il secondo mi accusava di essere “un sofistico” e mi congedava con l’invettiva: “Lei dovrebbe lavorare all’Eni!”.
La notte ha portato sonni disturbati.
Stamane il mio datore di lavoro mi ha convocato per comunicarmi che, stante la mia totale assenza di proattività e il disagio ambientale da me provocato con la riunione del giorno prima, devo ritenermi sollevato da tutte le responsabilità di supervisione e controllo dei processi operativi dell'azienda.
Ho tentato di argomentare sulla differenza che corre fra le mansioni attinenti i processi operativi e quelle di natura strategico-decisionale. In altre parole: questo cazzo di piano di marketing dovrà mica descriverlo il responsabile di processo??
Lo sguardo perso nell’infinito del mio interlocutore (soglia di attenzione crollata a zero dopo cinque secondi) mi ha persuaso della totale irrecuperabilità della situazione.
Da domani mi occuperò di “progetti verticali”.
Ma se rinasco, giuro che rinasco proattivo. Oppure professionista del marketing.
zioSteve (el Hombre Vertical)
16 novembre 2009
Anche la CEI disegna gli scenari futuri della politica italiana
Città del Vaticano - Dialoga con tutti gli interlocutori della politica, la Conferenza episcopale italiana di Bagnasco. Magari li pungola sui temi a cui tiene, ma rispettosamente. Non scomunica né si schiera. E, concludendo i lavori dell'assemblea generale Cei che si è svolta ad Assisi - la prima del dopo Boffo -, più che prospettare alleanze con i vari soggetti di un mondo politico in ebollizione, chiede che i cattolici "laddove sono e ovunque siano" possano esprimere "con libertà ed efficacia" le loro convinzioni. E ribadisce - dall'ora di religione islamica alla sentenza di Strasburgo sul crocifisso - che per i vescovi la fede cattolica è e rimane al centro della vita dell'Italia. Nella conferenza stampa conclusiva del 'parlamento' dei vescovi, Bagnasco evita di dare giudizi 'tranchant' su partiti e parlamento. Spiega, l'Arcivescovo di Genova: "Quello che a noi interessa e auspichiamo è che i cattolici, laddove sono e ovunque siano, possano esprimere con libertà e efficacia, nel gioco della democrazia, le loro convinzioni e i loro valori". Giudizio ben diverso da quello che, solo pochi giorni fa, aveva dato il Cardinale Camillo Ruini, auspicando - in modo neppure tanto velato - l'abbandono del Pd da parte dei parlamentari cattolici. Nella Cei è un’altra era. Se Ruini aveva trovato nel centro-destra un interlocutore privilegiato, oggi prevale una punta di equidistanza, se non di distacco, da parte della Cei quanto del Vaticano. Bagnasco, intanto, non si esprime nei confronti della futura formazione di Francesco Rutelli. Non certo per disinteresse nei confronti di un partito che potrebbe intercettare molte delle preoccupazioni ecclesiastiche, ma perché ogni benedizione sarebbe prematura. "Sui movimenti politici - risponde il porporato ad una domanda dei giornalisti - non è compito nostro dare giudizi e valutazioni di merito, perché ci sono dinamiche che sono proprie del mondo della politica". Le primarie del Pd? "Le forme di partecipazione democratica, rispettosa e civile, sono benvenute", dice. Anche nei confronti della Lega - con la quale sull'immigrazione non sono mancate le scintille nei mesi scorsi - sembra lanciare un messaggio distensivo. A un cronista che gli domanda se abbia colto nell'incontro con Bossi una disponibilità sui temi dell'unità nazionale, Bagnasco assicura, in termini generali, si aver trovato "ovunque" un "desiderio di un clima più costruttivo". Dialogo con tutti, e una punta di distacco, insomma. Le traumatiche dimissioni di Dino Boffo dalla direzione di 'Avvenire' dopo gli attacchi del 'Giornale' di Feltri, del resto, sono ancora fresche. E non solo perché i vescovi ancora non trovano la quadra per la scelta del suo successore. La Cei guarda con crescente apprensione la 'guerra di dossier' in corso. Al caso Boffo - seguito alle critiche della stampa contro le escort del premier Berlusconi a cui lo stesso Boffo si era accostato - si è aggiunto lo scandalo Marrazzo. E se già Bagnasco aveva aperto i lavori del 'parlamento' con un appello al "disarmo" della politica e dei media con un allarme sul rischio che si diffonda un "odio" che mette a rischio il paese, adesso precisa che a volte, "se le cose sono accadute", i giornali "giustamente" danno notizie, ma è inopportuna "l'insistenza": "Metterci il coltello dentro non so quanto arricchisca l’informazione", sono le sue parole Quel che interessa veramente alla Cei, Bagnasco lo dice chiaro e tondo. Più che una legge che sancisca l'obbligo del crocifisso nelle aule scolastiche - rimarca -, i vescovi si attendono un "pronunciamento" europeo "sul merito e sul metodo" della sentenza di Strasburgo sul crocifisso. Quanto all'ora di Islam, Bagnasco ripete il suo 'no'. Infine, "rammarico" e "dolore" per gli attacchi di ritorsione ai 'rom' ad Alba Adriatica. Un monito anche ai 'confratelli' vescovi: "Ben sappiamo - afferma il porporato nella Messa mattutina alla Porziuncola di Santa Maria degli Angeli - che essere liberi da se stessi è per tutti l'impresa più ardua: liberi da progetti, calcoli, ambizioni".
dal blog Petrus
dal blog Petrus
La rivincita della politica (politicante)
La fine della parabola berlusconiana si avvicina e la picconata decisiva la stanno dando due vecchi politici della prima repubblica, Fini e Casini in concerto, entrambi appartenenti allo schieramento conservatore.
Là dove non sono riusciti in 19 anni i post-comunisti, i cazzari di Di Pietro, le mortadelle assortite, la magistratura ad orologeria, riescono con una perfetta strategia politica di alta scuola due uomini ora alleati ma entrambi contendenti per la successione.
È una battaglia molto interessante che deve però scontare ancora una variante decisiva: come reagirà Berlusconi, che dalla sua ha ancora le truppe elettorali seppure afflitte?
Può darsi che gli basti una sanatoria giudiziaria oppure preferirà giocare allo sfascio, andando alle elezioni anticipate?
Quello che è certo è che il paese ha una solida maggioranza conservatrice, che l'eredità di leadership spetterà a chi sarà investito da Berlusconi stesso, che la sinistra continuerà a mangiare polvere per qualche lustro.
Là dove non sono riusciti in 19 anni i post-comunisti, i cazzari di Di Pietro, le mortadelle assortite, la magistratura ad orologeria, riescono con una perfetta strategia politica di alta scuola due uomini ora alleati ma entrambi contendenti per la successione.
È una battaglia molto interessante che deve però scontare ancora una variante decisiva: come reagirà Berlusconi, che dalla sua ha ancora le truppe elettorali seppure afflitte?
Può darsi che gli basti una sanatoria giudiziaria oppure preferirà giocare allo sfascio, andando alle elezioni anticipate?
Quello che è certo è che il paese ha una solida maggioranza conservatrice, che l'eredità di leadership spetterà a chi sarà investito da Berlusconi stesso, che la sinistra continuerà a mangiare polvere per qualche lustro.
13 novembre 2009
Pro-memoria per la sen. Finocchiaro (PD)
Processo breve.
Sei anni sono uno scandalo.
Meglio nove anni e sei mesi per due gradi di giudizio, 800.000 euro di parcella, per sentenziare che il fatto non sussiste.
Sei anni sono uno scandalo.
Meglio nove anni e sei mesi per due gradi di giudizio, 800.000 euro di parcella, per sentenziare che il fatto non sussiste.
06 novembre 2009
Sky calcio: una televisione di guitti sguaiati
Chissà, il freddo di Kiev o la pazzia dell’Inter: al secondo gol dei nerazzurri, l’immaginifico Fabio Caressa ha sciolto un dubbio che ci attanagliava: «Pensavo che c’avesse messo un vetro davanti alla porta». Non è chiaro chi fosse il vetrinista ma l’immagine è abbastanza eloquente. Il secondo tempo di Dinamo-Inter ha visto l’ingresso in campo del dodicesimo giocatore, nelle vesti di Caressa Fabio.
Ha urlato con tutto il fiato che aveva in gola, ha via via sostituito l’allenatore nel dettare i cambi, l’arbitro nell’assegnare i falli, i giocatori nel tirare in porta, i tifosi nell’incitare la squadra. Forse troppe parti in commedia per il ruolo di telecronista. Siamo stati i primi a sottolineare come le telecronache Sky avessero fatto fare un salto importante a questa singolare pratica retorica (altrove sono ancora alla tv in bianco e nero). Siamo stati i primi a tessere l’elogio di Caressa e di una formidabile squadra di «voci tecniche» (Bergomi, Marcheggiani, Di Gennaro su tutti). Ma l’impressione attuale è che a capo della redazione sportiva non ci sia più una persona in grado di indirizzare la crescita dei telecronisti, frenarne la deriva narcisistica.
La sera prima Maurizio Compagnoni non ha smesso un solo attimo di gridare ed enfatizzare anche la più scontata azione del Milan. E non parliamo della rubrica sui gol internazionali che conducono Caressa e Stefano De Grandis: sembrano due guitti da avanspettacolo. E che dire di Alessandro Bonan che ormai è una recita continua? L’impressione è che il giocattolo rischi di rompersi, che ognuno pensi soltanto a costruire il proprio personaggio (gli incipit paraletterari, i tormentoni, le frasi fatte...) e non si curi più del proprio ruolo e degli aspetti tecnici dell’evento. P.S. Ma se poi in Rai ci sono Bartoletti e Zazzeroni, Sky tutta la vita.
di Aldo Grasso, su Corrieredellasera.it
Se persino il vate dei radical-chic in materia televisiva alza la penna e lancia l'allarme sulla deriva di Sky, significa che anche i "migliori" cominciano a vergognarsi.
Per noi il vaso è colmo da tempo ed i vaffa ai commenti demenziali dei cronisti Sky si sprecano. Il marketing di prodotto più squallido e becero, i gorgoglii della voce, i "pazzesco" sprecati cretinamente, l'interismo bovino, fanno rimpiangere - caro vate Grasso - le domestiche, noiose, ma oneste telecronache Rai dei Pizzul e degli Ameri.
Sky, tribunale di Milano permettendo, ha il pallino delle dirette di serie A, ma un rimedio italico si trova sempre.
Consiglio il canale audio "altro" (schiacciare la "i" sul telecomando). Ne risulta un'atmosfera un po' rarefatta ma vengono eliminati i disturbi degli idioti.
Ps: l'unico che si salva è il vecchio, un po' svanito, Josè Altafini.
Ha urlato con tutto il fiato che aveva in gola, ha via via sostituito l’allenatore nel dettare i cambi, l’arbitro nell’assegnare i falli, i giocatori nel tirare in porta, i tifosi nell’incitare la squadra. Forse troppe parti in commedia per il ruolo di telecronista. Siamo stati i primi a sottolineare come le telecronache Sky avessero fatto fare un salto importante a questa singolare pratica retorica (altrove sono ancora alla tv in bianco e nero). Siamo stati i primi a tessere l’elogio di Caressa e di una formidabile squadra di «voci tecniche» (Bergomi, Marcheggiani, Di Gennaro su tutti). Ma l’impressione attuale è che a capo della redazione sportiva non ci sia più una persona in grado di indirizzare la crescita dei telecronisti, frenarne la deriva narcisistica.
La sera prima Maurizio Compagnoni non ha smesso un solo attimo di gridare ed enfatizzare anche la più scontata azione del Milan. E non parliamo della rubrica sui gol internazionali che conducono Caressa e Stefano De Grandis: sembrano due guitti da avanspettacolo. E che dire di Alessandro Bonan che ormai è una recita continua? L’impressione è che il giocattolo rischi di rompersi, che ognuno pensi soltanto a costruire il proprio personaggio (gli incipit paraletterari, i tormentoni, le frasi fatte...) e non si curi più del proprio ruolo e degli aspetti tecnici dell’evento. P.S. Ma se poi in Rai ci sono Bartoletti e Zazzeroni, Sky tutta la vita.
di Aldo Grasso, su Corrieredellasera.it
Se persino il vate dei radical-chic in materia televisiva alza la penna e lancia l'allarme sulla deriva di Sky, significa che anche i "migliori" cominciano a vergognarsi.
Per noi il vaso è colmo da tempo ed i vaffa ai commenti demenziali dei cronisti Sky si sprecano. Il marketing di prodotto più squallido e becero, i gorgoglii della voce, i "pazzesco" sprecati cretinamente, l'interismo bovino, fanno rimpiangere - caro vate Grasso - le domestiche, noiose, ma oneste telecronache Rai dei Pizzul e degli Ameri.
Sky, tribunale di Milano permettendo, ha il pallino delle dirette di serie A, ma un rimedio italico si trova sempre.
Consiglio il canale audio "altro" (schiacciare la "i" sul telecomando). Ne risulta un'atmosfera un po' rarefatta ma vengono eliminati i disturbi degli idioti.
Ps: l'unico che si salva è il vecchio, un po' svanito, Josè Altafini.
05 novembre 2009
Expo 2015: un fallimento annunciato
Tra liti, immobilismo e buchi di bilancio.
Expo, l'occasione (quasi) perduta.
Nell’Italia che ha altro a cui pensare, parlare di Expo e di Milano sembra quasi fuori luogo, ma il sinistro scricchiolio che arriva dal capoluogo del Nord (opere pubbliche in ritardo, finanziamenti tagliati, risse istituzionali, conti pubblici in rosso) è un brutto segnale per tutti. Se uno dei motori possibili della ripresa è già in avaria vuol dire che c’è un allarme da non sottovalutare che va oltre il silenzio del ministro del Tesoro, il disinteresse della Lega e il gelo del premier: vuol dire che Milano rischia di perdersi ancora una volta nei ritardi e nelle nebbie della bassa politica, rinunciando a quel ruolo tante volte invocato di guida, di traino dell’intero Paese.
C’è sicuramente un malessere generale, il peso di una crisi che avvolge un po’ tutti, ma se dopo il rullio di tamburi per l’Expo il risultato percepito è solo un balletto di potere, una inutile guerra tra Roma e Milano, allora vuol dire che non interessa la partecipazione, la potenzialità civica della città, il progetto di rilancio capace di dare una prospettiva al futuro di tanti giovani. Milano in questi giorni sta facendo da sola la sua parte, e male. Undici milioni di deficit all’inizio della gestione non sono una buona partenza. L’Expo 2015, nonostante il masterplan e l’orto globale dedicato ai valori della sostenibilità, dell’ambiente e della ricerca contro la fame nel mondo, resta un’incompiuta che non decolla. Doveva dare alla città più metropolitane e meno traffico, più decoro e meno degrado, un sistema di infrastrutture da capitale europea e una Grande Brera da offrire ai visitatori di tutto il mondo. Ma tra accuse, dimenticanze romane e buchi di bilancio, il grande evento sta diventando il pretesto per un regolamento di conti, una litania di occasioni perdute.
Colpiscono l’inerzia, l’immobilismo, il gioco delle parti: la Provincia senza fondi, la Regione già in campagna elettorale, il sindaco Moratti schiacciato in un angolo dai dubbi nella maggioranza sulla sua ricandidatura. Ma sorprende di più l’incapacità di coinvolgere le forze positive di Milano in un progetto importante, da presentare al mondo: la città dei talenti, dei creativi, dell’imprenditoria diffusa, delle università e della ricerca si aspettava (e meritava) molto di più.
E così si perde il senso di un’opportunità, di un futuro che con l’Expo si potrebbe inventare, come nel lontano 1881, quando Milano odorava ancora di fieno e acque stagnanti ma era una città in divenire e faceva decollare, insieme alle fabbriche, la «vitalità del sentimento » nelle arti e nella scienza. Servirebbe qualche segnale diverso da parte di chi governa questo evento, da Milano e anche da Roma, un’assunzione di responsabilità sui finanziamenti dovuti, un maggior gioco di squadra. Oggi l’Expo sembra diventata una clava per colpire l’avversario, un simbolo che mostra più inefficienze che potenzialità. Forse si può ancora rimediare, correggere la rotta, restituire a Milano l’orgoglio di fare e fare bene. L’Expo non è più una partita immobiliare, è l’occasione per mostrare le buone pratiche di un Paese e di una città. Il nuovo disegno architettonico è un’idea che va sfruttata meglio, mobilitando energie che creano consenso. Anche nell’austerità ci può essere entusiasmo. I privati pronti a dare una mano non mancano, ma oggi chiedono dove si andrà con l’Expo 2015: verso il mondo o in un ingorgo di traffico, come a una sagra di paese?
di Giangiacomo Schiavi, sul Corriere della Sera del 4 novembre 2009
Un fallimento annunciato, doloroso e rovinoso.
La scelta di un evento che ha finito di avere un senso alla fine dell'800 e che ha segnato fallimenti finanziari clamorosi nelle ultime edizioni.
Una classe politica promotrice senza radici culturali nella città e con capacità propositive appena utili per organizzare una pesca benefica.
Il sacro terrore dei finanziatori privati d'avvicinarsi al pubblico, con il rischio di ballare nei corridoi di Corso di Porta Vittoria per anni.
L'assoluta indifferenza della città, che alla propria amministrazione chiede interventi per migliorare la qualità della vita e sicurezza nelle strade piuttosto che astruserie sul mondo ecosostenibile.
Queste fra le cause di un disastro organizzativo e d'immagine epocali.
Expo, l'occasione (quasi) perduta.
Nell’Italia che ha altro a cui pensare, parlare di Expo e di Milano sembra quasi fuori luogo, ma il sinistro scricchiolio che arriva dal capoluogo del Nord (opere pubbliche in ritardo, finanziamenti tagliati, risse istituzionali, conti pubblici in rosso) è un brutto segnale per tutti. Se uno dei motori possibili della ripresa è già in avaria vuol dire che c’è un allarme da non sottovalutare che va oltre il silenzio del ministro del Tesoro, il disinteresse della Lega e il gelo del premier: vuol dire che Milano rischia di perdersi ancora una volta nei ritardi e nelle nebbie della bassa politica, rinunciando a quel ruolo tante volte invocato di guida, di traino dell’intero Paese.
C’è sicuramente un malessere generale, il peso di una crisi che avvolge un po’ tutti, ma se dopo il rullio di tamburi per l’Expo il risultato percepito è solo un balletto di potere, una inutile guerra tra Roma e Milano, allora vuol dire che non interessa la partecipazione, la potenzialità civica della città, il progetto di rilancio capace di dare una prospettiva al futuro di tanti giovani. Milano in questi giorni sta facendo da sola la sua parte, e male. Undici milioni di deficit all’inizio della gestione non sono una buona partenza. L’Expo 2015, nonostante il masterplan e l’orto globale dedicato ai valori della sostenibilità, dell’ambiente e della ricerca contro la fame nel mondo, resta un’incompiuta che non decolla. Doveva dare alla città più metropolitane e meno traffico, più decoro e meno degrado, un sistema di infrastrutture da capitale europea e una Grande Brera da offrire ai visitatori di tutto il mondo. Ma tra accuse, dimenticanze romane e buchi di bilancio, il grande evento sta diventando il pretesto per un regolamento di conti, una litania di occasioni perdute.
Colpiscono l’inerzia, l’immobilismo, il gioco delle parti: la Provincia senza fondi, la Regione già in campagna elettorale, il sindaco Moratti schiacciato in un angolo dai dubbi nella maggioranza sulla sua ricandidatura. Ma sorprende di più l’incapacità di coinvolgere le forze positive di Milano in un progetto importante, da presentare al mondo: la città dei talenti, dei creativi, dell’imprenditoria diffusa, delle università e della ricerca si aspettava (e meritava) molto di più.
E così si perde il senso di un’opportunità, di un futuro che con l’Expo si potrebbe inventare, come nel lontano 1881, quando Milano odorava ancora di fieno e acque stagnanti ma era una città in divenire e faceva decollare, insieme alle fabbriche, la «vitalità del sentimento » nelle arti e nella scienza. Servirebbe qualche segnale diverso da parte di chi governa questo evento, da Milano e anche da Roma, un’assunzione di responsabilità sui finanziamenti dovuti, un maggior gioco di squadra. Oggi l’Expo sembra diventata una clava per colpire l’avversario, un simbolo che mostra più inefficienze che potenzialità. Forse si può ancora rimediare, correggere la rotta, restituire a Milano l’orgoglio di fare e fare bene. L’Expo non è più una partita immobiliare, è l’occasione per mostrare le buone pratiche di un Paese e di una città. Il nuovo disegno architettonico è un’idea che va sfruttata meglio, mobilitando energie che creano consenso. Anche nell’austerità ci può essere entusiasmo. I privati pronti a dare una mano non mancano, ma oggi chiedono dove si andrà con l’Expo 2015: verso il mondo o in un ingorgo di traffico, come a una sagra di paese?
di Giangiacomo Schiavi, sul Corriere della Sera del 4 novembre 2009
Un fallimento annunciato, doloroso e rovinoso.
La scelta di un evento che ha finito di avere un senso alla fine dell'800 e che ha segnato fallimenti finanziari clamorosi nelle ultime edizioni.
Una classe politica promotrice senza radici culturali nella città e con capacità propositive appena utili per organizzare una pesca benefica.
Il sacro terrore dei finanziatori privati d'avvicinarsi al pubblico, con il rischio di ballare nei corridoi di Corso di Porta Vittoria per anni.
L'assoluta indifferenza della città, che alla propria amministrazione chiede interventi per migliorare la qualità della vita e sicurezza nelle strade piuttosto che astruserie sul mondo ecosostenibile.
Queste fra le cause di un disastro organizzativo e d'immagine epocali.
20 ottobre 2009
Cogestione o copartecipazione?
In attesa di leggere gli atti del convegno sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, tenutosi nei locali di Bpm alla presenza di illustri ospiti fra cui il ministro del Tesoro ed i tre segretari generali confederali, ha suscitato scalpore mediatico l'esternazione di Tremonti sulla esigenza strategica di tornare ai contratti a tempo indeterminato per porre solide basi alla vita degli individui, alla costruzione della famiglia su certezze economiche, per fidelizzare il rapporto azienda-lavoratore. Il ministro è partito da spunti di riflessione propri della dottrina sociale della Chiesa, ribaditi nell'ultima enciclica di Benedetto XVI.
Ma la cultura di sinistra ne ha invece colto una sorta di invasione di campo, tanto più fastidiosa quanto più flebili sono ormai le attenzioni verso il mondo del lavoro da parte del Pd (dei republicones non dà conto parlare perché tanto più è rilevante il loro potere di condizionamento sulla galassia della sinistra, tanto più è loro estranea l'attenzione a qualcosa di diverso dal colore delle mutande delle compagne di letto di Berlusconi).
Tremonti ha affondato la sua riflessione negli ex domini del Pci e si è posto come interlocutore diretto dei lavoratori. Mossa strategica, augurabilmente non solo furba.
Per i poveri dirigenti del Pd alle prese con i calzini color turchese, un colpo da k.o. ma non solo.
La piattaforma che va costruendo il ministro è sempre più manifestamente una identità innovativa su cui raggruppare il consenso politico e popolare del Pdl post-berlusconiano.
L'uomo è intelligente, finissimo stratega, modesto comunicatore ma con solide alleanze con la Lega, partito di popolo e coagulatore di consensi.
Seguiremo con interesse e partecipazione la sua scalata al gradino più alto.
Ma la cultura di sinistra ne ha invece colto una sorta di invasione di campo, tanto più fastidiosa quanto più flebili sono ormai le attenzioni verso il mondo del lavoro da parte del Pd (dei republicones non dà conto parlare perché tanto più è rilevante il loro potere di condizionamento sulla galassia della sinistra, tanto più è loro estranea l'attenzione a qualcosa di diverso dal colore delle mutande delle compagne di letto di Berlusconi).
Tremonti ha affondato la sua riflessione negli ex domini del Pci e si è posto come interlocutore diretto dei lavoratori. Mossa strategica, augurabilmente non solo furba.
Per i poveri dirigenti del Pd alle prese con i calzini color turchese, un colpo da k.o. ma non solo.
La piattaforma che va costruendo il ministro è sempre più manifestamente una identità innovativa su cui raggruppare il consenso politico e popolare del Pdl post-berlusconiano.
L'uomo è intelligente, finissimo stratega, modesto comunicatore ma con solide alleanze con la Lega, partito di popolo e coagulatore di consensi.
Seguiremo con interesse e partecipazione la sua scalata al gradino più alto.
16 ottobre 2009
Loro, i Democratici
"Ma santo cielo, possibile che nessuno sia in grado di ficcare una pallottola in testa a Berlusconi?!". La frase in questione non è stata pronunciata in un anonimo bar dal primo pirla che passava di lì, ma è stata pubblicata su FaceBook da tal Matteo Mezzadri (nomen omen, direbbe qualcuno), ventiduenne quasi ingegnere coordinatore del circolo del PD di Vignola e membro della segreteria provinciale dei Giovani Democratici di Modena. È finita con scuse e dimissioni, ma resta comunque in circolazione una delle tante teste bacate della sinistra. La stampa, naturalmente, ha pensato bene di dare al fatto uno scarsissimo risalto.
dal blog Ali e Radici
dal blog Ali e Radici
Il Presidente fancazzista
Lasciate perdere i sondaggi in calo, ignorate i dati sulla disoccupazione, trascurate le difficoltà sulla riforma sanitaria e sulla guerra in Afghanistan, c’è qualcos’altro a segnalare il mutamento di status di Barack Obama, da nuovo messia a uomo politico normale: i comici hanno cominciato a prenderlo in giro. Sabato scorso il più tradizionale dei programmi televisivi di satira, il Saturday night live della Nbc che in campagna elettorale ha sostenuto il candidato Obama in ogni modo possibile, ha inaugurato la nuova stagione con una devastante imitazione del presidente fatta da Fred Armisen. Nei panni di Obama, Armisen ha letto un messaggio alla nazione dallo Studio ovale della Casa Bianca: “Buona sera e congratulazioni a Rio per l’assegnazione delle Olimpiadi del 2016”, ha detto ricordando subito il clamoroso fallimento della candidatura di Chicago sostenuta con insuccesso da Obama. “L’anno scorso sono stato eletto col mandato di apportare un cambiamento credibile in questo paese – ha detto il finto presidente – Ma ora c’è gente a destra che è molto arrabbiata. Pensano che stia trasformando questo grande paese in qualcosa che somiglia all’Unione Sovietica o alla Germania nazista. Ma non è così. Se guardate bene ai primi mesi di presidenza è molto chiaro che cosa ho fatto fino a questo momento: niente, nada. E’ trascorso quasi un anno e non ho niente da mostrarvi”. Nel 2000 il Saturday night live ha preso in giro lo stile di Al Gore e Al Gore ha perso, mentre l’anno scorso la credibilità di Sarah Palin è stata sbriciolata dalla parodia di Tina Fey e il duo McCain/Palin è stato travolto da Obama. Ora il nuovo obiettivo stagionale sembra essere Obama come un “do-nothing president”, un “presidente fancazzista”, nonché leader, diremmo in Italia, di un’immaginaria fondazione “Fare niente”. I giornali americani segnalano che le battute di Snl non sono una buona notizia per la Casa Bianca. I consiglieri del presidente dovranno rendersi conto che in giro c’è molta gente convinta che Obama non abbia fatto assolutamente niente o, perlomeno, niente di diverso dal suo predecessore George W. Bush, tanto che, questa settimana, sulla copertina dello storico settimanale della sinistra britannica New Statesman campeggia il titolo “Barack W. Bush”, sotto un formidabile fotomontaggio di due immagini sovrapposte di Obama e Bush. E’ molto probabile, poi, che gli sfottò di Saturday night live continueranno, anche perché Obama ci mette qualcosina di suo. Ieri, per esempio, ha convocato alle cinque un gruppo di ministri e deputati per una partitella a basket alla Casa Bianca. Le battute di Saturday night live hanno colpito al punto che la Cnn, con scarso senso dell’umorismo, si è spinta fino a condurre una serissima inchiesta sull’accuratezza delle critiche (fact-checking) mosse al presidente dal programma satirico. “Guardate la lista delle cose fatte e non fatte”, ha detto Armisen/Obama ricordando le promesse di Obama in campagna elettorale. “Chiudere Guantanamo? Non l’ho fatto. Ritirare le truppe dall’Iraq? Non l’ho fatto. Migliorare la situazione in Afghanistan? Non l’ho fatto, anzi la situazione è peggiorata. E che dire della riforma sanitaria? Certo che no. Riforma dell’immigrazione? Ma va… Riscaldamento terrestre? Non ancora. E, ricordatevi, posso fare qualsiasi cosa voglia. Ho la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Avrei potuto rendere obbligatorio il matrimonio gay e imporre automobili alimentate a marijuana. L’ho fatto? No!”. Qualcosa, secondo gli autori di Saturday night live, però Obama l’ha realizzata: “Non ci sono soltanto brutte notizie. Posso vantate qualche risultato: gli incentivi alle rottamazioni hanno davvero stimolato l’economia, peccato fosse quella del Giappone. Fatemi vedere, cos’altro? Ah sì, ho ucciso una mosca in tv, ve lo ricordate?”, ha detto il comico riferendosi a una cosa realmente successa durante un’intervista alla Casa Bianca. “E poi ho invitato un poliziotto bianco e un professore nero a bere una birra. Chi altri avrebbero potuto fare una cosa del genere? Sì, avete ragione, anche Oprah. Nessun altro, però”.
di Cristiano Rocca, sul blog Camillo del 9 ottobre 2009
di Cristiano Rocca, sul blog Camillo del 9 ottobre 2009
Barbarossa
Spinto dalle velenose recensioni della critica di sinistra e dalla curiosità di vedere all'opera un regista italiano in un kolossal storico, ho visto il film icona dei leghisti.
Delusione profonda, non tanto per la rivisitazione storica, sostanzialmente fedele alle gloriose vicende del Carroccio e della rivolta delle città del Nord contro l'imperatore tedesco, ma per la mediocre resa drammatica, la sceneggiatura approssimativa, la scelta disastrosa degli interpreti, fatta eccezione per il sempre stupendo Rutger Hauer, ingigantito dal confronto con l'interpretazione miserrima di Raz Degan, volto di Alberto da Giussano.
Nel film gira un'aria di mediocre fiction della Rai, dilettantismi insopportabili delle interpreti femminili, un doppiaggio offensivamente sovrabbondante di esse sibilanti.
Peccato. Poteva essere una bella occasione per esaltare un raro episodio di dignità nazionale e per raccontare drammaticamente le pulsioni e la civiltà del tardo-medioevo.
Occorreva un'altra tempra di regista ed un approccio culturale più sincero e serio all'epica della civiltà comunale.
Delusione profonda, non tanto per la rivisitazione storica, sostanzialmente fedele alle gloriose vicende del Carroccio e della rivolta delle città del Nord contro l'imperatore tedesco, ma per la mediocre resa drammatica, la sceneggiatura approssimativa, la scelta disastrosa degli interpreti, fatta eccezione per il sempre stupendo Rutger Hauer, ingigantito dal confronto con l'interpretazione miserrima di Raz Degan, volto di Alberto da Giussano.
Nel film gira un'aria di mediocre fiction della Rai, dilettantismi insopportabili delle interpreti femminili, un doppiaggio offensivamente sovrabbondante di esse sibilanti.
Peccato. Poteva essere una bella occasione per esaltare un raro episodio di dignità nazionale e per raccontare drammaticamente le pulsioni e la civiltà del tardo-medioevo.
Occorreva un'altra tempra di regista ed un approccio culturale più sincero e serio all'epica della civiltà comunale.
La CGIL schiava del vetero-marxismo
"Il compito fondamentale che incombe ad ogni sindacato è quello di ottenere i più alti salari possibili in ogni azienda e in ogni settore tenendo conto che esistono limiti differenti da azienda ad azienda nello stesso settore. Il fatto che la CGIL, sottovalutando questo processo di differenziazione, abbia continuato negli ultimi anni a limitare la sua attività salariale quasi esclusivamente alle contrattazioni nazionali di categoria e generali, è stato un grave errore."
Giuseppe Di Vittorio, segretario Cgil dal 1945 al 1957
Giuseppe Di Vittorio, segretario Cgil dal 1945 al 1957
21 settembre 2009
La Londra musulmana
Week-end a Londra. Per vedere calcio su un campo della Premier League. Per noi orfani della Serie A delle 7 sorelle, ormai appiattita sul calcio muscolare e senza fantasia dell'Inter, Londra o Liverpool restano un'attrazione non solo calcistica ma anche turistico-culinaria.
Questa volta si vola per West Ham - Liverpool. Anche per la curiosità di vedere Diamanti calato nel calcio inglese e constatare come se la cava Zola, che lo scorso anno sfiorò la Uefa subentrando in panchina a metà campionato.
Detto della partita, che ha confermato l'eterna regola che in Premier chi ha più classe vince quasi sempre, anche se in extremis come il Liverpool sabato, vale la pena di raccontare la mia piccola avventura pre-partita.
Per lavori sulla linea metropolitana ci ritroviamo, io e mio figlio, scaricati a Whitechapel, East London, limite estremo della cosidetta Zona 1, a trenta minuti dallo stadio del West Ham.
Usciamo dalla stazione alla ricerca di un taxi e ci ritroviamo immersi in un'atmosfera allucinante. Scivolati indietro di cent'anni, in una città arabo-africana, sudicia, pullulante di un'umanità vestita nelle più diverse foggie del quarto mondo, femmine in burqa, velate, torme di bambini, bancarelle che espongono miserevoli articoli, negozi puzzolenti che vendono alimenti sconosciuti.
La prima preoccupazione è perdersi, la seconda è come farsi capire nella ricerca del taxi. Dopo tre tentativi andati a vuoto, mio figlio si butta sugli asiatici, che nella scala dell'evoluzione consumistica stanno un gradino sopra, e finalmente stabiliamo che qui i taxi sono macchine private e che il nostro uomo è un pakistano, che per una ragionevole cifra ci acccompagnerà alla meta.
Intanto è l'ora della preghiera e l'atmosfera viene invasa dalle nenie del muezzin, che invita al culto fra la sovrana indifferenza (la stessa colta al Cairo, per la verità) dell'umanità nera impegnata nella movida del sabato sera.
Vista la partita, alla sera torniamo nella quiete elegante del quartiere di Belgrave, ove si trova il nostro albergo.
Domenica la dedicheremo alla visita della Londra imperiale, sontuosa, pulita, fatta di stupendi parchi, quartieri eleganti e silenziosi, scorreremo fra i monumenti della storia ove tutta la popolazione multietnica del mondo si ritrova a giocare al turista. Ma la sensazione che questa Londra centrale sia in fondo un ghetto per bianchi ricchi è forte, mentre all'intorno milioni di diseredati circondano la cittadella in attesa di conquistarla, deturparla, ridurla ad immondizia, abbattere gli antichi palazzi e costruire moschee e minareti.
Presto, molto presto.
Questa volta si vola per West Ham - Liverpool. Anche per la curiosità di vedere Diamanti calato nel calcio inglese e constatare come se la cava Zola, che lo scorso anno sfiorò la Uefa subentrando in panchina a metà campionato.
Detto della partita, che ha confermato l'eterna regola che in Premier chi ha più classe vince quasi sempre, anche se in extremis come il Liverpool sabato, vale la pena di raccontare la mia piccola avventura pre-partita.
Per lavori sulla linea metropolitana ci ritroviamo, io e mio figlio, scaricati a Whitechapel, East London, limite estremo della cosidetta Zona 1, a trenta minuti dallo stadio del West Ham.
Usciamo dalla stazione alla ricerca di un taxi e ci ritroviamo immersi in un'atmosfera allucinante. Scivolati indietro di cent'anni, in una città arabo-africana, sudicia, pullulante di un'umanità vestita nelle più diverse foggie del quarto mondo, femmine in burqa, velate, torme di bambini, bancarelle che espongono miserevoli articoli, negozi puzzolenti che vendono alimenti sconosciuti.
La prima preoccupazione è perdersi, la seconda è come farsi capire nella ricerca del taxi. Dopo tre tentativi andati a vuoto, mio figlio si butta sugli asiatici, che nella scala dell'evoluzione consumistica stanno un gradino sopra, e finalmente stabiliamo che qui i taxi sono macchine private e che il nostro uomo è un pakistano, che per una ragionevole cifra ci acccompagnerà alla meta.
Intanto è l'ora della preghiera e l'atmosfera viene invasa dalle nenie del muezzin, che invita al culto fra la sovrana indifferenza (la stessa colta al Cairo, per la verità) dell'umanità nera impegnata nella movida del sabato sera.
Vista la partita, alla sera torniamo nella quiete elegante del quartiere di Belgrave, ove si trova il nostro albergo.
Domenica la dedicheremo alla visita della Londra imperiale, sontuosa, pulita, fatta di stupendi parchi, quartieri eleganti e silenziosi, scorreremo fra i monumenti della storia ove tutta la popolazione multietnica del mondo si ritrova a giocare al turista. Ma la sensazione che questa Londra centrale sia in fondo un ghetto per bianchi ricchi è forte, mentre all'intorno milioni di diseredati circondano la cittadella in attesa di conquistarla, deturparla, ridurla ad immondizia, abbattere gli antichi palazzi e costruire moschee e minareti.
Presto, molto presto.
11 settembre 2009
Se ne è andato il re del quiz televisivo
Se ne è andato il vecchio Mike Bongiorno. Quietamente, infartato in una camera d'albergo a Montecarlo.
È stato il protagonista di tante stagioni televisive. Un caposcuola del quiz, dello spot pubblicitario. Si era conquistato una credibilità popolare che gli anni non hanno minimamente scalfito, travalicando i gusti di tante generazioni.
Non ha giocato sulla brillantezza dell'eloquio o sulla simpatia personale. Tutte doti destinate al logoramento del tempo. È stato sempre e solo un tenace professionista che traspirava serietà e convinzione in quello che faceva. Ha sempre avuto il massimo rispetto verso se stesso ed il pubblico che serviva.
Un unicum molto anglosassone, qual'era la sua formazione professionale.
In morte è ora beatificato anche da coloro che lo vedevano come l'emblema della televisione cialtrona e commerciale. Tutto molto italiano, ostentato e falso. Anche patetico come la mostrina di eroe antifascista che inopinatamente il presidente della repubblica gli ha voluto dedicare.
Caro Mike, che le zolle ti siano lievi ed il senso dell'ironia che non hai mai avuto ti aiuti a sopportare il teatrino italico che si è consumato intorno alle tue spoglie.
È stato il protagonista di tante stagioni televisive. Un caposcuola del quiz, dello spot pubblicitario. Si era conquistato una credibilità popolare che gli anni non hanno minimamente scalfito, travalicando i gusti di tante generazioni.
Non ha giocato sulla brillantezza dell'eloquio o sulla simpatia personale. Tutte doti destinate al logoramento del tempo. È stato sempre e solo un tenace professionista che traspirava serietà e convinzione in quello che faceva. Ha sempre avuto il massimo rispetto verso se stesso ed il pubblico che serviva.
Un unicum molto anglosassone, qual'era la sua formazione professionale.
In morte è ora beatificato anche da coloro che lo vedevano come l'emblema della televisione cialtrona e commerciale. Tutto molto italiano, ostentato e falso. Anche patetico come la mostrina di eroe antifascista che inopinatamente il presidente della repubblica gli ha voluto dedicare.
Caro Mike, che le zolle ti siano lievi ed il senso dell'ironia che non hai mai avuto ti aiuti a sopportare il teatrino italico che si è consumato intorno alle tue spoglie.
07 settembre 2009
Non è una guerra di religione
Merita una meditazione il trambusto suscitato dal caso Boffo. E non tanto la vicenda in sè, che ricorda le farsesche trame di un film anni '60 di Alberto Sordi titolato "Il moralista"(se si pone attenzione lo si può rivedere su Sky cinema Italia) quanto per la scientifica mistificazione politico-mediatica che si è montata intorno ad esso.
Non di libertà di religione si è trattato, che per fortuna è garantita da tutti gli ordinamenti statali dopo la notte bolscevica, ma di un formidabile scontro di poteri.
Negli ultimi tre mesi, la corazzata dei republicones ha suggerito una nuova strategia antiberlusconiana: guardare sotto le coperte cogliendo un lato debolissimo del premier, che ovviamente ha avuto scarsi elementi difensivi se non il sempre efficace dirottamento sull'aggressione politica. In questo gli ha dato una mano il goffo accodamento di una dirigenza Pd sempre più incapace di fare politica antagonista.
Questo equilibrio si è rotto quando al fronte radical-chic si è aggiunto il giornale dei Vescovi, che ha colto l'opportunità per rilasciare patentini di moralismo alla Franceschini.
Qui è scattata la reazione affidata alla sagace penna di Vittorio Feltri, tornato alla guida del Giornale proprio per ridare spessore al quotidiano referente di Berlusconi.
E da quel momento lo scontro si è delineato nella sua sostanza. Da una parte la Cei, formidabile bastione di potere politico-economico (l'8 per mille), la sinistra mediatica (cioè tutti i più importanti quotidiani borghesi), il solito Pd alla ricerca di sponde tattiche, e di là il potere berlusconiano. In mezzo il Vaticano a fare difese d'ufficio, ma anche ad approfittare di una ghiotta occasione per ridisegnare gli equilibri del potere curiale.
Niente religione, morale, scelte di campo, tutte cose da lasciare agli umori dei parroci sui pulpiti domenicali. Solo riposizionamento in previsione del post-berlusconismo che, nonostante la convinzione d'immortalità dell'interessato, è molto vicino ed abbastanza indecifrabile.
La sensazione che anche questa volta la politica sia stata preceduta dai disegni strategici dei poteri mediatico-ecclesiali e che se qualcuno ne è uscito meno peggio è ancora il Pdl, giusto perché può contare sulle sette vite del vecchio Berlusconi.
Non di libertà di religione si è trattato, che per fortuna è garantita da tutti gli ordinamenti statali dopo la notte bolscevica, ma di un formidabile scontro di poteri.
Negli ultimi tre mesi, la corazzata dei republicones ha suggerito una nuova strategia antiberlusconiana: guardare sotto le coperte cogliendo un lato debolissimo del premier, che ovviamente ha avuto scarsi elementi difensivi se non il sempre efficace dirottamento sull'aggressione politica. In questo gli ha dato una mano il goffo accodamento di una dirigenza Pd sempre più incapace di fare politica antagonista.
Questo equilibrio si è rotto quando al fronte radical-chic si è aggiunto il giornale dei Vescovi, che ha colto l'opportunità per rilasciare patentini di moralismo alla Franceschini.
Qui è scattata la reazione affidata alla sagace penna di Vittorio Feltri, tornato alla guida del Giornale proprio per ridare spessore al quotidiano referente di Berlusconi.
E da quel momento lo scontro si è delineato nella sua sostanza. Da una parte la Cei, formidabile bastione di potere politico-economico (l'8 per mille), la sinistra mediatica (cioè tutti i più importanti quotidiani borghesi), il solito Pd alla ricerca di sponde tattiche, e di là il potere berlusconiano. In mezzo il Vaticano a fare difese d'ufficio, ma anche ad approfittare di una ghiotta occasione per ridisegnare gli equilibri del potere curiale.
Niente religione, morale, scelte di campo, tutte cose da lasciare agli umori dei parroci sui pulpiti domenicali. Solo riposizionamento in previsione del post-berlusconismo che, nonostante la convinzione d'immortalità dell'interessato, è molto vicino ed abbastanza indecifrabile.
La sensazione che anche questa volta la politica sia stata preceduta dai disegni strategici dei poteri mediatico-ecclesiali e che se qualcuno ne è uscito meno peggio è ancora il Pdl, giusto perché può contare sulle sette vite del vecchio Berlusconi.
31 agosto 2009
Fini è ancora una risorsa della destra?
Ormai non capisco la traiettoria del pensiero politico di Fini. Non discuto la sua riscoperta laica, né certe pulsioni pruriginose verso la sinistra. Appare evidente che il disegno tattico è quello di strappare eventuali benevolenze nella corsa al Colle, che ragionevolmente resta ormai l'unico obiettivo praticabile nel suo futuro politico. La successione del Cavaliere, semmai ci sarà, appare molto più problematica ed irta di ostacoli e concorrenti.
Le difficoltà di comprensione nascono sulla metamorfosi di questo campione della destra missina che, in anni non lontani, con sagacia ha affrancato il suo partito dal ghetto anticostituzionale siglando un formidabile patto con un creativo e ruspante Berlusconi, ma poi, improvvisamente, si è smarrito in tortuose riflessioni sull'essere destra nel terzo millennio.
Negli anni in cui doveva cogliere il frutto di una leadership ormai universalmente riconosciuta, è parso roso da infantili gelosie, da tentennamenti climaterici, da un'aspirazione alla solitudine politica con atteggiamenti snobistici verso il generone che si è raggruppato sotto le insegne del Pdl.
Nel percorso di un politico ci sta tutto, anche un clamoroso ribaltamento delle sponde, ma tutto ciò poco quaglia con le ambizioni dell'uomo che mi sembra a tutto pensi meno che ad essere solo un padre nobile della destra sociale.
Sembra, nei destini, la stessa vicenda del suo concittadino Casini, votatosi a modeste strategie da comprimario. Un Mastella del nord, peraltro suo sodale agli albori dell'Udc.
La freddezza che ha accompagnato le sue esternazioni alla festa del Pd di Genova, proprio nella schiera da cui proviene, dice che la solitudine sta trasformandosi in ermetismo per la sua gente.
Sarebbe un peccato perché Fini, che la sinistra non voterà mai presidente perché ex-fascista, è ancora oggi una risorsa molto importante per il prossimo ed agitatissimo post-Berlusconi.
Le difficoltà di comprensione nascono sulla metamorfosi di questo campione della destra missina che, in anni non lontani, con sagacia ha affrancato il suo partito dal ghetto anticostituzionale siglando un formidabile patto con un creativo e ruspante Berlusconi, ma poi, improvvisamente, si è smarrito in tortuose riflessioni sull'essere destra nel terzo millennio.
Negli anni in cui doveva cogliere il frutto di una leadership ormai universalmente riconosciuta, è parso roso da infantili gelosie, da tentennamenti climaterici, da un'aspirazione alla solitudine politica con atteggiamenti snobistici verso il generone che si è raggruppato sotto le insegne del Pdl.
Nel percorso di un politico ci sta tutto, anche un clamoroso ribaltamento delle sponde, ma tutto ciò poco quaglia con le ambizioni dell'uomo che mi sembra a tutto pensi meno che ad essere solo un padre nobile della destra sociale.
Sembra, nei destini, la stessa vicenda del suo concittadino Casini, votatosi a modeste strategie da comprimario. Un Mastella del nord, peraltro suo sodale agli albori dell'Udc.
La freddezza che ha accompagnato le sue esternazioni alla festa del Pd di Genova, proprio nella schiera da cui proviene, dice che la solitudine sta trasformandosi in ermetismo per la sua gente.
Sarebbe un peccato perché Fini, che la sinistra non voterà mai presidente perché ex-fascista, è ancora oggi una risorsa molto importante per il prossimo ed agitatissimo post-Berlusconi.
10 agosto 2009
Siamo 'merigani
Suggerisco agli amici lettori di farsi un giro sul blog Ali e Radici. Fra i tanti argomenti curiosi ed inconsueti, il sito sta sviluppando una galleria degli anglicismi più usati, a proposito e spesso a sproposito, nel mondo del lavoro. È arrivato al 38° capitoletto della guida ragionata e comparata con le alternative italiane.
Una lettura piacevole ed istruttiva, soprattutto per chi come me in qualche consiglio di amministrazione deve subire la violenza dei relatori e del loro gergo anglofono, usato per gabellare professionalità e competenze inesistenti.
Il nostro è un popolo per tradizione provinciale e servile. Abbiamo vissuto molte mode, la spagnola, la francese, un poco la tedesca, ma mai come oggi vi è stato uno sprezzante rifiuto della nostra lingua madre.
Sentivo stamane al giornaleradio un servizio sull'introduzione, come materia di apprendimento nella scuola, dei dialetti. Alcuni illustri somari discettavano sull'inutilità dell'iniziativa e sproloquiavano di cultura europea.
I medesimi non hanno invece mai alzato un sospiro sul violentamento che quotidianamente viene fatto sui media (è latino: si legge come si scrive), nella scuola, nel mondo degli affari, nel mondo del cosiddetto spettacolo, delle nostre tradizioni linguistiche e culturali.
L'importante è essere tutti imbecilmente uguali.
Una lettura piacevole ed istruttiva, soprattutto per chi come me in qualche consiglio di amministrazione deve subire la violenza dei relatori e del loro gergo anglofono, usato per gabellare professionalità e competenze inesistenti.
Il nostro è un popolo per tradizione provinciale e servile. Abbiamo vissuto molte mode, la spagnola, la francese, un poco la tedesca, ma mai come oggi vi è stato uno sprezzante rifiuto della nostra lingua madre.
Sentivo stamane al giornaleradio un servizio sull'introduzione, come materia di apprendimento nella scuola, dei dialetti. Alcuni illustri somari discettavano sull'inutilità dell'iniziativa e sproloquiavano di cultura europea.
I medesimi non hanno invece mai alzato un sospiro sul violentamento che quotidianamente viene fatto sui media (è latino: si legge come si scrive), nella scuola, nel mondo degli affari, nel mondo del cosiddetto spettacolo, delle nostre tradizioni linguistiche e culturali.
L'importante è essere tutti imbecilmente uguali.
23 luglio 2009
È l'ora delle vacanze agostane
Sono ancora vivo. Magari acciaccato ma con le meningi funzionanti.
Lo squallore della contemporaneità mi ha tolto la voglia di scrivere qualcosa.
Il privato è sempre vivace ma, per un pudore convinto, non è materia da mettere in comune sul blog, semmai da condividere con qualche strettissimo amico.
In questi giorni sto risistemando libri, masserizie, arredi della casa sul lago che io e mio figlio abbiamo venduto qualche mese addietro.
Vivo l'esigenza contrastante di selezionare per conciliare gli spazi disponibili ed il rifiuto di liberarmi di oggetti che rappresentano comunque testimonianza del mio passato.
Credo sia la contraddizione di tutti gli anziani che vorrebbero rimanere sempre circondati di ricordi simbolici della propria esistenza e l'esigenza di cominciare a fare ordine con se stessi.
Il punto di mediazione che ho raggiunto è una confusione sistemica e temporale che, nelle intenzioni, è premessa ad una successiva e definitiva selezione in un tempo che verrà.
Nel frattempo, traguardo l'agosto che ho sempre vissuto come una giocosa anticamera dell'autunno milanese che tanto è bizzarro da potersi manifestare anche sin da settembre.
Ai quattro pazienti lettori che talvolta mi guardano, l'augurio di ferie soddisfacenti ed a me il segreto auspicio di riprendere confidenza alle prime frescure con Anni Quaranta.
Lo squallore della contemporaneità mi ha tolto la voglia di scrivere qualcosa.
Il privato è sempre vivace ma, per un pudore convinto, non è materia da mettere in comune sul blog, semmai da condividere con qualche strettissimo amico.
In questi giorni sto risistemando libri, masserizie, arredi della casa sul lago che io e mio figlio abbiamo venduto qualche mese addietro.
Vivo l'esigenza contrastante di selezionare per conciliare gli spazi disponibili ed il rifiuto di liberarmi di oggetti che rappresentano comunque testimonianza del mio passato.
Credo sia la contraddizione di tutti gli anziani che vorrebbero rimanere sempre circondati di ricordi simbolici della propria esistenza e l'esigenza di cominciare a fare ordine con se stessi.
Il punto di mediazione che ho raggiunto è una confusione sistemica e temporale che, nelle intenzioni, è premessa ad una successiva e definitiva selezione in un tempo che verrà.
Nel frattempo, traguardo l'agosto che ho sempre vissuto come una giocosa anticamera dell'autunno milanese che tanto è bizzarro da potersi manifestare anche sin da settembre.
Ai quattro pazienti lettori che talvolta mi guardano, l'augurio di ferie soddisfacenti ed a me il segreto auspicio di riprendere confidenza alle prime frescure con Anni Quaranta.
21 giugno 2009
“Questo papa non mi piace”
È una frase che spesso si sente dire da chi fa un confronto tra l’attuale “Pontefice” e Giovanni Paolo II. Questo Papa “è difficile da capire!”... o forse ci chiede una minore superficialità e un maggiore sforzo intellettuale? Sicuramente Benedetto XVI è (come lo presentano i mezzi di comunicazione di massa) un conservatore... oppure lavora in profondità per creare futuro?
Lasciamoci aiutare da questo articolo di fratel Enzo Bianchi (Comunità di Bose) dal titolo “Un papa, un rabbino e un imam”, che fa riflettere sul viaggio del Papa in Terrasanta di qualche settimana fa.
Sono rare e preziose le circostanze in cui è dato di cogliere quasi fisicamente il significato di certe parole. Il viaggio di Benedetto XVI in Israele e Giordania ci ha dato la possibilità di cogliere in pienezza la portata di uno dei titoli attribuiti al papa: «Pontefice», ideatore e costruttore di ponti. Compito non facile perché, restando nella metafora, bisogna conoscere bene il terreno sulle due sponde che si vogliono congiungere, i materiali da usare, le persone da impiegare; bisogna saper attendere e osare, costruire sostegni provvisori e rimediare a difficoltà impreviste. Tutti problemi che possono solo aumentare quando, come in Medioriente, le sponde non sono solo due ma tre e quando sono da secoli, se non in conflitto, almeno in costante attrito. È stata proprio questa missione di «pontefice» a innervare le giornate, gli incontri, le parole e i gesti di Benedetto XVI in Terrasanta. Conoscenza dei problemi, ascolto attento delle realtà concrete, consapevolezza della difficoltà della missione uniti a una sapiente fermezza hanno fatto sì che il Papa non abbia ceduto a nessuna pressione politica e si sia mostrato in ogni momento autentico fautore di pace: l’agenda degli appuntamenti e le parole dei discorsi non erano dettate da pressioni esterne, anche perché il successore di Pietro non dimentica che, qualora alcune sue parole dispiacessero a qualcuno, restano sempre di consolazione le parole di Gesù: «Beati voi quando diranno male di voi!». Anche stavolta non sono mancate critiche e rimproveri nei suoi confronti, ma paiono debitrici soprattutto di un clima ormai instauratosi di incomprensioni e diffidenze che impedisce a molti di riconoscere la sincera volontà di pacificazione e riconciliazione che anima il Papa. In realtà, parole forti del Papa sui dolorosi problemi che affliggono quella regione della Terra non erano certo mancate in questi anni, ma anche le parole hanno un peso diverso a seconda del luogo e del tempo in cui vengono pronunciate. Così, il «senso tragico» di un muro lo si coglie in pienezza quando ce lo si trova di fronte, costruzione che si erge plasticamente antitetica a qualsiasi ponte, a qualsiasi strada che mette in comunicazione un uomo con il proprio fratello in umanità. E se davanti al Muro occidentale il silenzio del Papa si è fatto preghiera in solidarietà con l’Israele orante di tutti i tempi, davanti al muro eretto da mani d’uomo contro altri uomini le sue parole sono state un grido di dolore. Anche la memoria della Shoah si scolpisce indelebilmente nelle menti e nei cuori quando - come nel museo Yad Vashem - è accompagnata dalla presenza dei «nomi» che evocano le persone: «Concederò nella mia casa e dentro le mie mura - dice il Signore - un memoriale e un nome (yad vashem)... darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Isaia 56,5). Lì, con un discorso di altro tono rispetto a quello del suo predecessore Giovanni Paolo II, ma con altrettanta chiarezza e parresia ha fatto memoria di un’immane tragedia inclusiva ricordando, assieme ai «sei milioni di ebrei brutalmente sterminati», tutte le vittime della storia, «da Abele il giusto» fino all’ultimo anonimo essere umano perseguitato, torturato e ucciso. Per tutti ha fatto risuonare la consolante parola della Scrittura: «Le misericordie di Dio non sono finite, né esaurite». Ma la terra cara ai tre monoteismi è custode di una cultura millenaria che non scinde mai le parole dai gesti, dalla concretezza di un vissuto che può a sua volta essere narrato, raccontato, spiegato da una parola nuova, rivisitata e inverata dall’agire. E anche di questi gesti è stato intessuto il viaggio di Benedetto XVI, come la salita al Monte Nebo per contemplare come Mosè una terra «altra», sempre promessa e mai pienamente posseduta; o come il raccoglimento nella moschea di Amman, rispettoso di uno spazio di preghiera che non è possibile condividere ma che si può accogliere nel cuore. Anche la sosta di raccoglimento e di preghiera di fronte al Muro occidentale e a Yad Vashem sono gesti forti, ormai assunti dalla Chiesa cattolica come «luoghi» di un dialogo nella carità. Ma il gesto che forse resterà come pietra angolare del ponte gettato in questo pellegrinaggio viene ancora una volta dall’inatteso, dalla capacità di cogliere i segni di un tempo propizio e di trasformarlo in evento che si imprime negli occhi e nel cuore. Il Papa, un rabbino e un imam che si alzano in piedi, si prendono per mano e uniscono le loro voci nell’invocazione che sale a Dio da tutta l’assemblea - «Pax, Shalom, Salam!» - dice ben di più dei confronti intellettuali sui temi religiosi, dei giusti distinguo sui pericoli del sincretismo, di ogni ragionamento sul permanere di alterità inconciliabili... Ormai «la Chiesa cattolica è impegnata in modo irreversibile sul cammino scelto dal Vaticano II per una riconciliazione autentica e duratura tra cristiani ed ebrei», così come è auspicabile che si creino «luoghi, oasi di pace e di meditazione in cui la voce di Dio possa nuovamente essere ascoltata, in cui la verità possa essere scoperta al cuore della ragione universale». Anche la necessità del dialogo interreligioso è stata riaffermata in quel tenersi per mano al canto di invocazione della pace: «Cristiani e musulmani - ha affermato il Papa - devono proclamare insieme che Dio esiste, che si può conoscerlo, che la Terra è la sua creazione». Un dialogo convinto che si spinge fino a ricercare una dimensione «trilaterale», coinvolgendo ebrei, cristiani e musulmani e che diviene decisivo per perseguire la pace e permettere a ogni persona di vivere la propria fede e a ogni comunità di credenti di testimoniare la pertinenza della fede in un mondo indifferente alla presenza di un Dio creatore e salvatore: così si impedirà anche che le differenze religiose siano strumentalizzate da integralismi sempre possibili. Conversando con i giornalisti nel volo di ritorno, Benedetto XVI ha ribadito «l’impressione che in tutti gli ambienti - ebrei, cristiani e musulmani - ci sia una decisa volontà di dialogo interreligioso: non una collaborazione per motivi politici, ma dettata dalla fede. Credere che questo Dio ci vuole famiglia implica questo incontro del dialogo e della collaborazione come esigenza della fede stessa». Sì, il viaggio è apparso davvero come pellegrinaggio di fede incarnata nell’oggi della storia e la costruzione di ponti, il dialogo ne rimane la chiave interpretativa più feconda.
da L'In-formatore, del 7-21 giugno 2009
Lasciamoci aiutare da questo articolo di fratel Enzo Bianchi (Comunità di Bose) dal titolo “Un papa, un rabbino e un imam”, che fa riflettere sul viaggio del Papa in Terrasanta di qualche settimana fa.
Sono rare e preziose le circostanze in cui è dato di cogliere quasi fisicamente il significato di certe parole. Il viaggio di Benedetto XVI in Israele e Giordania ci ha dato la possibilità di cogliere in pienezza la portata di uno dei titoli attribuiti al papa: «Pontefice», ideatore e costruttore di ponti. Compito non facile perché, restando nella metafora, bisogna conoscere bene il terreno sulle due sponde che si vogliono congiungere, i materiali da usare, le persone da impiegare; bisogna saper attendere e osare, costruire sostegni provvisori e rimediare a difficoltà impreviste. Tutti problemi che possono solo aumentare quando, come in Medioriente, le sponde non sono solo due ma tre e quando sono da secoli, se non in conflitto, almeno in costante attrito. È stata proprio questa missione di «pontefice» a innervare le giornate, gli incontri, le parole e i gesti di Benedetto XVI in Terrasanta. Conoscenza dei problemi, ascolto attento delle realtà concrete, consapevolezza della difficoltà della missione uniti a una sapiente fermezza hanno fatto sì che il Papa non abbia ceduto a nessuna pressione politica e si sia mostrato in ogni momento autentico fautore di pace: l’agenda degli appuntamenti e le parole dei discorsi non erano dettate da pressioni esterne, anche perché il successore di Pietro non dimentica che, qualora alcune sue parole dispiacessero a qualcuno, restano sempre di consolazione le parole di Gesù: «Beati voi quando diranno male di voi!». Anche stavolta non sono mancate critiche e rimproveri nei suoi confronti, ma paiono debitrici soprattutto di un clima ormai instauratosi di incomprensioni e diffidenze che impedisce a molti di riconoscere la sincera volontà di pacificazione e riconciliazione che anima il Papa. In realtà, parole forti del Papa sui dolorosi problemi che affliggono quella regione della Terra non erano certo mancate in questi anni, ma anche le parole hanno un peso diverso a seconda del luogo e del tempo in cui vengono pronunciate. Così, il «senso tragico» di un muro lo si coglie in pienezza quando ce lo si trova di fronte, costruzione che si erge plasticamente antitetica a qualsiasi ponte, a qualsiasi strada che mette in comunicazione un uomo con il proprio fratello in umanità. E se davanti al Muro occidentale il silenzio del Papa si è fatto preghiera in solidarietà con l’Israele orante di tutti i tempi, davanti al muro eretto da mani d’uomo contro altri uomini le sue parole sono state un grido di dolore. Anche la memoria della Shoah si scolpisce indelebilmente nelle menti e nei cuori quando - come nel museo Yad Vashem - è accompagnata dalla presenza dei «nomi» che evocano le persone: «Concederò nella mia casa e dentro le mie mura - dice il Signore - un memoriale e un nome (yad vashem)... darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Isaia 56,5). Lì, con un discorso di altro tono rispetto a quello del suo predecessore Giovanni Paolo II, ma con altrettanta chiarezza e parresia ha fatto memoria di un’immane tragedia inclusiva ricordando, assieme ai «sei milioni di ebrei brutalmente sterminati», tutte le vittime della storia, «da Abele il giusto» fino all’ultimo anonimo essere umano perseguitato, torturato e ucciso. Per tutti ha fatto risuonare la consolante parola della Scrittura: «Le misericordie di Dio non sono finite, né esaurite». Ma la terra cara ai tre monoteismi è custode di una cultura millenaria che non scinde mai le parole dai gesti, dalla concretezza di un vissuto che può a sua volta essere narrato, raccontato, spiegato da una parola nuova, rivisitata e inverata dall’agire. E anche di questi gesti è stato intessuto il viaggio di Benedetto XVI, come la salita al Monte Nebo per contemplare come Mosè una terra «altra», sempre promessa e mai pienamente posseduta; o come il raccoglimento nella moschea di Amman, rispettoso di uno spazio di preghiera che non è possibile condividere ma che si può accogliere nel cuore. Anche la sosta di raccoglimento e di preghiera di fronte al Muro occidentale e a Yad Vashem sono gesti forti, ormai assunti dalla Chiesa cattolica come «luoghi» di un dialogo nella carità. Ma il gesto che forse resterà come pietra angolare del ponte gettato in questo pellegrinaggio viene ancora una volta dall’inatteso, dalla capacità di cogliere i segni di un tempo propizio e di trasformarlo in evento che si imprime negli occhi e nel cuore. Il Papa, un rabbino e un imam che si alzano in piedi, si prendono per mano e uniscono le loro voci nell’invocazione che sale a Dio da tutta l’assemblea - «Pax, Shalom, Salam!» - dice ben di più dei confronti intellettuali sui temi religiosi, dei giusti distinguo sui pericoli del sincretismo, di ogni ragionamento sul permanere di alterità inconciliabili... Ormai «la Chiesa cattolica è impegnata in modo irreversibile sul cammino scelto dal Vaticano II per una riconciliazione autentica e duratura tra cristiani ed ebrei», così come è auspicabile che si creino «luoghi, oasi di pace e di meditazione in cui la voce di Dio possa nuovamente essere ascoltata, in cui la verità possa essere scoperta al cuore della ragione universale». Anche la necessità del dialogo interreligioso è stata riaffermata in quel tenersi per mano al canto di invocazione della pace: «Cristiani e musulmani - ha affermato il Papa - devono proclamare insieme che Dio esiste, che si può conoscerlo, che la Terra è la sua creazione». Un dialogo convinto che si spinge fino a ricercare una dimensione «trilaterale», coinvolgendo ebrei, cristiani e musulmani e che diviene decisivo per perseguire la pace e permettere a ogni persona di vivere la propria fede e a ogni comunità di credenti di testimoniare la pertinenza della fede in un mondo indifferente alla presenza di un Dio creatore e salvatore: così si impedirà anche che le differenze religiose siano strumentalizzate da integralismi sempre possibili. Conversando con i giornalisti nel volo di ritorno, Benedetto XVI ha ribadito «l’impressione che in tutti gli ambienti - ebrei, cristiani e musulmani - ci sia una decisa volontà di dialogo interreligioso: non una collaborazione per motivi politici, ma dettata dalla fede. Credere che questo Dio ci vuole famiglia implica questo incontro del dialogo e della collaborazione come esigenza della fede stessa». Sì, il viaggio è apparso davvero come pellegrinaggio di fede incarnata nell’oggi della storia e la costruzione di ponti, il dialogo ne rimane la chiave interpretativa più feconda.
da L'In-formatore, del 7-21 giugno 2009
19 giugno 2009
Il Presidente sciupafemmine
Nella più recente storia di puttane, Berlusconi e conseguente codazzo della magistratura militante, quello che non si coglie nella canea vociante del giornalismo radical-chic sono parole di pena verso lo squallore di una vecchiaia che, invece di risplendere di saggezza ed equilibrio, si nutre di sesso guardone ed ostentazione di licenziosità.
L'immoralità è una connotazione di questa società ed in fondo anche essere il primo puttaniere d'Italia potrebbe essere, nella loro logica, una genialata di marketing.
L'immoralità è una connotazione di questa società ed in fondo anche essere il primo puttaniere d'Italia potrebbe essere, nella loro logica, una genialata di marketing.
Il 24 luglio
Caro Cav, un premier non si difende così.
Berlusconi denuncia un piano eversivo contro di lui, regista il gruppo editoriale di Repubblica e settori dell’opposizione vicini ad una magistratura sensibile alle sollecitazioni politiche più faziose. Può essere che abbia ragione, tanto più che non parla di un oscuro complotto ma del dipanarsi alla luce del sole di una campagna di feroce inimicizia, che rimesta nel privato e punta al character assasination, al più completo sputtanamento del nemico sul piano interno e internazionale. Questa rappresentazione della realtà, e chiamatela se volete "funzione di garanzia della libera stampa", nessuno la può onestamente negare. Il problema è che le armi affilate di questa campagna provengono tutte da Berlusconi in persona e del suo entourage. La prima arma è una licenziosità di comportamento difficile da classificare, con molti tratti d'innocuo divertimento che abbiamo cercato di spiegare e di difendere su queste colonne fin dove possibile, uno stile di vita esposto comunque ai noti meccanismi di condizionamento e di ricatto che, vero o falso che sia il singolo caso scandalistico, sono la eterna tentazione di coloro che frequentano in condizioni non perfettamente trasparenti gli uomini pubblici. La seconda arma è un’autodifesa spesso risibile, esposta al ludibrio della stampa italiana e internazionale, difficile da capire nella logica di uno staff compos sui, capace di fare il proprio mestiere. Quando l’avvocato Ghedini, deputato, ammette anche solo per assurdo che possa essere vero il racconto di Patrizia D’Addario, la ragazza che si è non troppo metaforicamente autodenunciata come putain de la République et du premier ministre, e aggiunge che il suo cliente e leader non potrebbe comunque essere perseguito penalmente perché "utilizzatore finale" del corpo della ragazza, non soltanto dice una bestialità culturale e civile, ma riduce la storia in cui si cerca di invischiare il suo cliente, il che è veramente grave, a qualcosa di simile a quello che capitò all’onorevole Cosimo Mele. Il presidente del Consiglio dei ministri, per quanto sfolgoranti siano le sue doti anomale di leader di un'Italia politica sburocratizzata, inventiva, orgogliosa, liberale, giocosa e un po' pazza, non può comportarsi come un deputato di provincia preso con le mani nel vasetto della marmellata. Se non vuole stendere un velo di penosa incompetenza sull'insieme del suo lavoro di uomo di stato, per molti aspetti ottimo, Berlusconi deve liberarsi della molta stupidità e inesperienza politico-istituzionale che lo circonda, e deve decidersi: o accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni. Il premier non si fa rappresentare da dichiarazioni slabbrate, non naviga per settimane tra mezze bugie che alimentano sospetti anche e soprattutto sugli aspetti più candidi del suo comportamento, non si dà per accessibile al primo che passa: un capo di governo parla al paese, agisce sulle cose che contano, evita di farsi intrappolare nello scandalismo, parla un linguaggio di verità capace di indurre il grosso della nazione, o quella parte di essa che non ha portato il cervello all'ammasso dell'antiberlusconismo più fazioso, a voltare pagina e stroncare le provocazioni. Altrimenti si andrà avanti con questo 24 luglio permanente, in un clima di sospetti di palazzo arroventato da un establishment sempre pronto a tutte le incursioni corsare e anche da una classe dirigente di maggioranza e di governo attenta alle proprie convenienze e opportunisticamente piegata, orecchio a terra, a captare i rumori e i rumors di un imminente declino. Siamo da molti anni amici politici non servili di Berlusconi, figura importante di un cambiamento italiano tuttora incompiuto e abbiamo fatto il possibile, e talvolta l'impossibile, per razionalizzare il suo comportamento e valutarlo con la fairness che gli è negata dai molti farabutti che lo avversano. Ma ora tocca a lui tirarsi su da questa incredibile condizione di minorità civile in cui si è ficcato, e reagire con scrupolo, intelligenza e forza d'animo. La situazione si è fatta grave, e perfino seria.
da Il Foglio, del 18 giugno 2009
Berlusconi denuncia un piano eversivo contro di lui, regista il gruppo editoriale di Repubblica e settori dell’opposizione vicini ad una magistratura sensibile alle sollecitazioni politiche più faziose. Può essere che abbia ragione, tanto più che non parla di un oscuro complotto ma del dipanarsi alla luce del sole di una campagna di feroce inimicizia, che rimesta nel privato e punta al character assasination, al più completo sputtanamento del nemico sul piano interno e internazionale. Questa rappresentazione della realtà, e chiamatela se volete "funzione di garanzia della libera stampa", nessuno la può onestamente negare. Il problema è che le armi affilate di questa campagna provengono tutte da Berlusconi in persona e del suo entourage. La prima arma è una licenziosità di comportamento difficile da classificare, con molti tratti d'innocuo divertimento che abbiamo cercato di spiegare e di difendere su queste colonne fin dove possibile, uno stile di vita esposto comunque ai noti meccanismi di condizionamento e di ricatto che, vero o falso che sia il singolo caso scandalistico, sono la eterna tentazione di coloro che frequentano in condizioni non perfettamente trasparenti gli uomini pubblici. La seconda arma è un’autodifesa spesso risibile, esposta al ludibrio della stampa italiana e internazionale, difficile da capire nella logica di uno staff compos sui, capace di fare il proprio mestiere. Quando l’avvocato Ghedini, deputato, ammette anche solo per assurdo che possa essere vero il racconto di Patrizia D’Addario, la ragazza che si è non troppo metaforicamente autodenunciata come putain de la République et du premier ministre, e aggiunge che il suo cliente e leader non potrebbe comunque essere perseguito penalmente perché "utilizzatore finale" del corpo della ragazza, non soltanto dice una bestialità culturale e civile, ma riduce la storia in cui si cerca di invischiare il suo cliente, il che è veramente grave, a qualcosa di simile a quello che capitò all’onorevole Cosimo Mele. Il presidente del Consiglio dei ministri, per quanto sfolgoranti siano le sue doti anomale di leader di un'Italia politica sburocratizzata, inventiva, orgogliosa, liberale, giocosa e un po' pazza, non può comportarsi come un deputato di provincia preso con le mani nel vasetto della marmellata. Se non vuole stendere un velo di penosa incompetenza sull'insieme del suo lavoro di uomo di stato, per molti aspetti ottimo, Berlusconi deve liberarsi della molta stupidità e inesperienza politico-istituzionale che lo circonda, e deve decidersi: o accetta di naufragare in un lieto fine fatto di feste e belle ragazze oppure si mette in testa di ridare, senza perdere più un solo colpo, il senso e la dignità di una grande avventura politica all’insieme della sua opera e delle sue funzioni. Il premier non si fa rappresentare da dichiarazioni slabbrate, non naviga per settimane tra mezze bugie che alimentano sospetti anche e soprattutto sugli aspetti più candidi del suo comportamento, non si dà per accessibile al primo che passa: un capo di governo parla al paese, agisce sulle cose che contano, evita di farsi intrappolare nello scandalismo, parla un linguaggio di verità capace di indurre il grosso della nazione, o quella parte di essa che non ha portato il cervello all'ammasso dell'antiberlusconismo più fazioso, a voltare pagina e stroncare le provocazioni. Altrimenti si andrà avanti con questo 24 luglio permanente, in un clima di sospetti di palazzo arroventato da un establishment sempre pronto a tutte le incursioni corsare e anche da una classe dirigente di maggioranza e di governo attenta alle proprie convenienze e opportunisticamente piegata, orecchio a terra, a captare i rumori e i rumors di un imminente declino. Siamo da molti anni amici politici non servili di Berlusconi, figura importante di un cambiamento italiano tuttora incompiuto e abbiamo fatto il possibile, e talvolta l'impossibile, per razionalizzare il suo comportamento e valutarlo con la fairness che gli è negata dai molti farabutti che lo avversano. Ma ora tocca a lui tirarsi su da questa incredibile condizione di minorità civile in cui si è ficcato, e reagire con scrupolo, intelligenza e forza d'animo. La situazione si è fatta grave, e perfino seria.
da Il Foglio, del 18 giugno 2009
04 giugno 2009
43 anni
Oggi fanno 43 anni dalla data del mio matrimonio.
Sarebbe bello poterlo festeggiare ancora in due.
Sarebbe bello poterlo festeggiare ancora in due.
Israele: una meravigliosa terra tragica
Sono tornato da Israele. Ricco di emozioni e di esperienze, come sempre viaggiando per terre straniere.
Le prime le lascio al mio intimo, non sono materia da blog ma da riflessioni personalissime.
Le esperienze sono state forti ed indimenticabili, le stesse provate in Egitto, un'altra terra culla della civiltà meditterranea.
Israele non è solo Terra Santa per ebrei, cristiani e musulmani.
È anche lo specchio di un'umanità che non riesce a convivere sebbene abbia in comune la razza, le radici territoriali e una religione monoteista. È la maledizione dell'uomo, oserei dire, che nei luoghi più sacri della sua tradizione riesce a generare i mostri insanabili dell'odio e dell'intolleranza.
La domanda che ci si pone partendo è: potranno mai convivere?
La sensazione dice no, e non solo perché gli ebrei sono proiettati nel terzo millennio con la rabbia di fare, mentre gli arabi restano figli di un medioevo non solo religioso ma anche civile e culturale.
Voglio dire che mancano gli elementi di connotazione comune che sono stati il mixer di popoli egualmente divisi e travagliati.
Leggo che Obama, come già il Papa, caldeggia una soluzione: due popoli, due stati.
È una falsa soluzione. Le due comunità sono intersecate territorialmente l'una nell'altra, sono geneticamente intolleranti (vedi la diaspora dei cristiani nei territori arabi), hanno un solo credo fondante: eliminarsi reciprocamente.
Come finirà? Io penso che l'alternativa ad un massacro finale, probabilmente degli ebrei, sia un ritorno all'inizio della vicenda moderna.
Un protettorato internazionale, possibilmente dell'Unione Europea, che elimini le frontiere ed i muri della vergogna ma che impedisca le stragi palestinesi e le ritorsioni israeliane con un regime di polizia pressante ma indipendente dalle parti in causa.
Vorrebbe dire convivere con una controllata dose di terrorismo reciproco.
Sarà possibile? Non ho abbastanza anni per verificarlo, ma credo sia l'unica alternativa ad un massacro finale che renderebbe ancora più tragica la storia di questa terra in cui tutto l'Occidente affonda le sue radici religiose e culturali.
Le prime le lascio al mio intimo, non sono materia da blog ma da riflessioni personalissime.
Le esperienze sono state forti ed indimenticabili, le stesse provate in Egitto, un'altra terra culla della civiltà meditterranea.
Israele non è solo Terra Santa per ebrei, cristiani e musulmani.
È anche lo specchio di un'umanità che non riesce a convivere sebbene abbia in comune la razza, le radici territoriali e una religione monoteista. È la maledizione dell'uomo, oserei dire, che nei luoghi più sacri della sua tradizione riesce a generare i mostri insanabili dell'odio e dell'intolleranza.
La domanda che ci si pone partendo è: potranno mai convivere?
La sensazione dice no, e non solo perché gli ebrei sono proiettati nel terzo millennio con la rabbia di fare, mentre gli arabi restano figli di un medioevo non solo religioso ma anche civile e culturale.
Voglio dire che mancano gli elementi di connotazione comune che sono stati il mixer di popoli egualmente divisi e travagliati.
Leggo che Obama, come già il Papa, caldeggia una soluzione: due popoli, due stati.
È una falsa soluzione. Le due comunità sono intersecate territorialmente l'una nell'altra, sono geneticamente intolleranti (vedi la diaspora dei cristiani nei territori arabi), hanno un solo credo fondante: eliminarsi reciprocamente.
Come finirà? Io penso che l'alternativa ad un massacro finale, probabilmente degli ebrei, sia un ritorno all'inizio della vicenda moderna.
Un protettorato internazionale, possibilmente dell'Unione Europea, che elimini le frontiere ed i muri della vergogna ma che impedisca le stragi palestinesi e le ritorsioni israeliane con un regime di polizia pressante ma indipendente dalle parti in causa.
Vorrebbe dire convivere con una controllata dose di terrorismo reciproco.
Sarà possibile? Non ho abbastanza anni per verificarlo, ma credo sia l'unica alternativa ad un massacro finale che renderebbe ancora più tragica la storia di questa terra in cui tutto l'Occidente affonda le sue radici religiose e culturali.
18 maggio 2009
Nella terra di Gesù
Fra pochi giorni partirò per Israele. Un viaggio che ho desiderato da anni e dal quale mi aspetto grandi segni spirituali.
Ci rivediamo a fine mese.
Ci rivediamo a fine mese.
11 maggio 2009
Il paradosso Bpm
Con la governance preannunciata le nuove ipotesi di aggregazione di Mazzotta avrebbero avuto facile successo, senza bisogno del sì degli “interni”. Perciò ha vinto Ponzellini.
Non mi è sembrato affatto che il recente cambio alla guida della Banca Popolare di Milano, deciso nell’assemblea del 25 aprile, avesse come segno prevalente quello invece ravvisato dalla maggior parte dei media che hanno descritto la vicenda. E cioè il fatto che il presidente uscente Roberto Mazzotta affidasse la comunicazione della propria battaglia di discontinuità a Facebook, e altrettanto facesse lo sfidante Massimo Ponzellini. Al più, quella era una nota di colore. Considerando la particolare governance delle popolari, e in primis nella Bpm che per statuto vede il voto dei soci dipendenti assai più rilevante che in altri istituti consimili, è infatti del tutto ovvio che la comunicazione passi per i nuovi strumenti offerti da internet.Piuttosto, i nodi veri mi sono sembrati altri. Ho grande stima, e da molti anni, di Roberto Mazzotta. Anche per questo non ho compreso come abbia potuto – dopo diverse ipotesi di aggregazione da lui avanzate e propugnate, alle quali in occasioni e contingenze diverse comunque i sindacati interni all’istituto hanno opposto il loro no – convincersi che, alla fine, tutto quello che non era riuscito a ottenere fino ad allora potesse invece affermarsi per una sorta di salvifica rottura in assemblea. Un’ipotesi “illuministica”, se mi si passa il termine: ma più nel senso di forzatura da eccesso di ragionevolezza presunta che di adesione al reale in nome delle scienze sperimentali.Il no alla riconferma di Mazzotta da parte dei sindacati e il convergere dei rappresentanti dei dipendenti (di tutti, compresa la Cgil) su un candidato di fatto più vicino al ministro Giulio Tremonti che a chiunque altro nella geografia complessa dei poteri italiani, è stato un fatto senza precedenti, nelle cronache bancarie. Capisco bene che Mazzotta abbia legittimamente tentato, per questo, di giocare la carta “la politica tenga giù le mani dall’indipendenza della banca”. Ma il problema è che Ponzellini “aggiunge”, per così dire, la vicinanza a Tremonti alla forza di chi l’ha sostenuto, ma si limita a questo, perché la forza vera in Bpm sta nei sindacati. E questi ultimi, a proposito di indipendenza, ravvisavano ormai proprio in Mazzotta il vero attacco all’autonomia della banca, a fronte di nuove ipotesi di aggregazione che, questa volta, con la diversa governance preannunciata avrebbero avuto maggiori possibilità di andare in porto, senza bisogno di essere sottoposte all’esame pregiudiziale degli “interni”. Per questo non mi ha stupito il risultato finale. E, tutto sommato, proprio in nome del realismo propendo per considerarlo un bene e non un male, alla luce anche di molte sconsiderate aggregazioni avvenute negli anni recenti nel mondo delle popolari tra Lombardia e Veneto, sull’asse Lodi-Verona-Novara-Vicenza-Brescia-Bergamo, aggregazioni decise più per questioni di potere o per annegare perdite patrimoniali in nuovi attivi che con un sano e coerente disegno di crescita industriale. Diverso sarebbe pensare, proprio oggi che le banche stanno operando una sana pulizia dei loro attivi, ad aggregazioni nel terzo pilastro del nostro sistema, quello che riguarda le Bcc, il credito rurale e quanto resta delle casse di risparmio, per l’equivalente di una grande Crédit Agricole italiana. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Oscar Giannino, da Tempi del 7 maggio 2009
Non mi è sembrato affatto che il recente cambio alla guida della Banca Popolare di Milano, deciso nell’assemblea del 25 aprile, avesse come segno prevalente quello invece ravvisato dalla maggior parte dei media che hanno descritto la vicenda. E cioè il fatto che il presidente uscente Roberto Mazzotta affidasse la comunicazione della propria battaglia di discontinuità a Facebook, e altrettanto facesse lo sfidante Massimo Ponzellini. Al più, quella era una nota di colore. Considerando la particolare governance delle popolari, e in primis nella Bpm che per statuto vede il voto dei soci dipendenti assai più rilevante che in altri istituti consimili, è infatti del tutto ovvio che la comunicazione passi per i nuovi strumenti offerti da internet.Piuttosto, i nodi veri mi sono sembrati altri. Ho grande stima, e da molti anni, di Roberto Mazzotta. Anche per questo non ho compreso come abbia potuto – dopo diverse ipotesi di aggregazione da lui avanzate e propugnate, alle quali in occasioni e contingenze diverse comunque i sindacati interni all’istituto hanno opposto il loro no – convincersi che, alla fine, tutto quello che non era riuscito a ottenere fino ad allora potesse invece affermarsi per una sorta di salvifica rottura in assemblea. Un’ipotesi “illuministica”, se mi si passa il termine: ma più nel senso di forzatura da eccesso di ragionevolezza presunta che di adesione al reale in nome delle scienze sperimentali.Il no alla riconferma di Mazzotta da parte dei sindacati e il convergere dei rappresentanti dei dipendenti (di tutti, compresa la Cgil) su un candidato di fatto più vicino al ministro Giulio Tremonti che a chiunque altro nella geografia complessa dei poteri italiani, è stato un fatto senza precedenti, nelle cronache bancarie. Capisco bene che Mazzotta abbia legittimamente tentato, per questo, di giocare la carta “la politica tenga giù le mani dall’indipendenza della banca”. Ma il problema è che Ponzellini “aggiunge”, per così dire, la vicinanza a Tremonti alla forza di chi l’ha sostenuto, ma si limita a questo, perché la forza vera in Bpm sta nei sindacati. E questi ultimi, a proposito di indipendenza, ravvisavano ormai proprio in Mazzotta il vero attacco all’autonomia della banca, a fronte di nuove ipotesi di aggregazione che, questa volta, con la diversa governance preannunciata avrebbero avuto maggiori possibilità di andare in porto, senza bisogno di essere sottoposte all’esame pregiudiziale degli “interni”. Per questo non mi ha stupito il risultato finale. E, tutto sommato, proprio in nome del realismo propendo per considerarlo un bene e non un male, alla luce anche di molte sconsiderate aggregazioni avvenute negli anni recenti nel mondo delle popolari tra Lombardia e Veneto, sull’asse Lodi-Verona-Novara-Vicenza-Brescia-Bergamo, aggregazioni decise più per questioni di potere o per annegare perdite patrimoniali in nuovi attivi che con un sano e coerente disegno di crescita industriale. Diverso sarebbe pensare, proprio oggi che le banche stanno operando una sana pulizia dei loro attivi, ad aggregazioni nel terzo pilastro del nostro sistema, quello che riguarda le Bcc, il credito rurale e quanto resta delle casse di risparmio, per l’equivalente di una grande Crédit Agricole italiana. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Oscar Giannino, da Tempi del 7 maggio 2009
06 maggio 2009
Teatrini televisivi e faide giornalistiche
Per caso e per insonnia mi sono ritrovato ieri sera ad ascoltare il primo ministro che a "Porta a Porta" ha, con la solita cascata di parole, dato la propria versione della separazione dalla moglie, in arte Veronica Lario.
Le separazioni a mezzo stampa e le giustificazioni nel tubo catodico bene si attagliano a questi mediocri personaggi abbarbicati alla loro parte nella commedia della vita.
In tutta questa fantasmagorica pioggia di parole false, una sola realtà emerge chiaramente, a mio modestissimo avviso.
La materia del contendere è la ripartizione del patrimonio tra figli legittimi e non. E poiché i soldi sono molti, le lame scintillano sotto la luna.
Tutto il resto: amore, tradimenti senili, ripicche politiche e ciarpame assortito è solo rappresentazione per il popolino.
Proprio come, agli inizi del novecento, quando i poveracci portavano i figli in Galleria alla domenica a guardare i sciuri che mangiavano il gelato.
Le separazioni a mezzo stampa e le giustificazioni nel tubo catodico bene si attagliano a questi mediocri personaggi abbarbicati alla loro parte nella commedia della vita.
In tutta questa fantasmagorica pioggia di parole false, una sola realtà emerge chiaramente, a mio modestissimo avviso.
La materia del contendere è la ripartizione del patrimonio tra figli legittimi e non. E poiché i soldi sono molti, le lame scintillano sotto la luna.
Tutto il resto: amore, tradimenti senili, ripicche politiche e ciarpame assortito è solo rappresentazione per il popolino.
Proprio come, agli inizi del novecento, quando i poveracci portavano i figli in Galleria alla domenica a guardare i sciuri che mangiavano il gelato.
30 aprile 2009
I ragazzi ed i silenzi degli adulti
Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza. Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere. E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società. Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa — compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge. E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti. Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene. Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai. Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri — come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione. E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente. Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno. Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani. Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti. È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise. Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani. Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto. Speranze — condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme. Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato. Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere. I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Isabella Bossi Fedigrotti, sul Corriere del 30 aprile 2009
Un interessante articolo che mi segnala l'amico Giacomo e che reputo importante riprodurre.
Dinanzi alla dilagante delinquenza minorile vien voglia di reagire dicendo che quelle sono le mele marce e che la grande maggioranza cresce sana e senza devianze. Subito dopo bisogna però ammettere che l'assenza di ideali è un male comune ai figli ed ai padri, egualmente cresciuti nel nichilismo post sessantottino. Stringe il cuore vedere un paese che va inconsapevolmente verso la deriva, stretto fra i falsi ideali di una televisione corruttrice ed i pessimi esempi di una politica senza valori.
La religione può salvarci?
Ne sono profondamente convinto, se saprà tornare al messaggio evangelico e spogliarsi della modernità che spesso si riflette non solo nei riti ma anche nell'ideologia.
L'alternativa è un mondo di disperati individualisti il cui unico collante è il consumismo degenerato. Un futuro di alcool, droga e nevrosi sarebbe già la catastrofe.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti. Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene. Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai. Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri — come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione. E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente. Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno. Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani. Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti. È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise. Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani. Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto. Speranze — condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme. Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato. Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere. I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Isabella Bossi Fedigrotti, sul Corriere del 30 aprile 2009
Un interessante articolo che mi segnala l'amico Giacomo e che reputo importante riprodurre.
Dinanzi alla dilagante delinquenza minorile vien voglia di reagire dicendo che quelle sono le mele marce e che la grande maggioranza cresce sana e senza devianze. Subito dopo bisogna però ammettere che l'assenza di ideali è un male comune ai figli ed ai padri, egualmente cresciuti nel nichilismo post sessantottino. Stringe il cuore vedere un paese che va inconsapevolmente verso la deriva, stretto fra i falsi ideali di una televisione corruttrice ed i pessimi esempi di una politica senza valori.
La religione può salvarci?
Ne sono profondamente convinto, se saprà tornare al messaggio evangelico e spogliarsi della modernità che spesso si riflette non solo nei riti ma anche nell'ideologia.
L'alternativa è un mondo di disperati individualisti il cui unico collante è il consumismo degenerato. Un futuro di alcool, droga e nevrosi sarebbe già la catastrofe.
29 aprile 2009
You'll never walk alone
Quando improvviso dai cinquantamila si alza questo canto, giusto prima che inizi la partita, le corde dell'emozione ti prendono in modo indicibile. In quel momento, anche se non lo sei mai stato, diventi un supporter dei reds e se il tuo povero inglese te lo consentisse ti uniresti a tutto lo stadio.
Questa è l'atmosfera irripetibile dell'Anfield, questo pubblico fa di ogni partita del Liverpool un evento.
Trascinato dalla creatività turistica di mio figlio, mi sono ritrovato a Liverpool per una partita di cartello, Liverpool-Arsenal, cui abbiamo associato una interessante ricognizione della città.
Mio figlio mi dice che si sentono gli influssi della fronteggiante Irlanda nelle atmosfere, nel vento oceanico ed anche nelle cadenze della lingua (qui faccio un atto di fede perché non capisco nulla, come a dicembre a Londra).
La città si è riscoperta una vocazione artistica dopo la crisi della cantieristica degli anni '80, che l'aveva prostrata.
Lo scorso anno è stata capitale della cultura europea, evento ospitato nei palazzi dei docks ora trasformati in musei, alberghi, teatri.
Il confronto con la Milano post-industriale è deprimente. Qui pulsa vita, cantieri, nuove iniziative. Qui è pulizia e ordine, seppure nel contesto di un agglomerato di mezzo milione di abitanti.
Le tante chiese cattoliche dicono che l'Irlanda è veramente vicina.
A proposito. La partita è finita 4 a 4, che per noi abituati ad un calcio stitico è sempre un bel vedere.
Questa è l'atmosfera irripetibile dell'Anfield, questo pubblico fa di ogni partita del Liverpool un evento.
Trascinato dalla creatività turistica di mio figlio, mi sono ritrovato a Liverpool per una partita di cartello, Liverpool-Arsenal, cui abbiamo associato una interessante ricognizione della città.
Mio figlio mi dice che si sentono gli influssi della fronteggiante Irlanda nelle atmosfere, nel vento oceanico ed anche nelle cadenze della lingua (qui faccio un atto di fede perché non capisco nulla, come a dicembre a Londra).
La città si è riscoperta una vocazione artistica dopo la crisi della cantieristica degli anni '80, che l'aveva prostrata.
Lo scorso anno è stata capitale della cultura europea, evento ospitato nei palazzi dei docks ora trasformati in musei, alberghi, teatri.
Il confronto con la Milano post-industriale è deprimente. Qui pulsa vita, cantieri, nuove iniziative. Qui è pulizia e ordine, seppure nel contesto di un agglomerato di mezzo milione di abitanti.
Le tante chiese cattoliche dicono che l'Irlanda è veramente vicina.
A proposito. La partita è finita 4 a 4, che per noi abituati ad un calcio stitico è sempre un bel vedere.
Consumismo umano
Le preoccupazioni della crisi globale investono anche una giusta riflessione sugli stili di vita del mondo economicamente evoluto.
Ci si può chiedere se tutto quello che riteniamo necessario alla nostra esistenza e sussistenza sia anche indispensabile. Mi sono sempre chiesto quanto incida sulla quarta settimana il costo della tv satellitare, il set dei cellulari familiari, l'happy hour, etc etc.
Quante bistecche valgono?
La pulsione verso l'inutile è probabilmente una delle dannazioni umane.
Tanto mi suggerisce la lettura delle parole di San Basilio nel lontanto 310 A.D.
"Ormai esistono infiniti pretesti per spendere: così che si va cercando ciò che è inutile, scambiandolo per ciò che è necessario, e niente mai basta a soddisfare i bisogni e le fantasie. Davvero io non posso fare a meno di ammirare sì tanta invenzione di cose inutili!".
Ci si può chiedere se tutto quello che riteniamo necessario alla nostra esistenza e sussistenza sia anche indispensabile. Mi sono sempre chiesto quanto incida sulla quarta settimana il costo della tv satellitare, il set dei cellulari familiari, l'happy hour, etc etc.
Quante bistecche valgono?
La pulsione verso l'inutile è probabilmente una delle dannazioni umane.
Tanto mi suggerisce la lettura delle parole di San Basilio nel lontanto 310 A.D.
"Ormai esistono infiniti pretesti per spendere: così che si va cercando ciò che è inutile, scambiandolo per ciò che è necessario, e niente mai basta a soddisfare i bisogni e le fantasie. Davvero io non posso fare a meno di ammirare sì tanta invenzione di cose inutili!".
Un uomo che non lascia rimpianti
L'Assemblea della Banca Popolare di Milano, fra i molti cambiamenti deliberati nella sessione del 25 Aprile e non di irrilevante portata, ha anche avvicendato nel disinteresse generale anche il prof. Marco Vitale, già vicepresidente dell'istituto milanese.
Miglior profilo del professore bresciano non riesco a trovare di quanto scritto da Lodovico Festa, a commento di una sua ennesima esternazione.
"Io temo che questo Expo possa diventare solo un grande affare immobiliare", dice Marco Vitale al Corriere della Sera il 3/04.
Questo è il primo timore. Il secondo, altrettanto impellente, è esserne escluso.
Miglior profilo del professore bresciano non riesco a trovare di quanto scritto da Lodovico Festa, a commento di una sua ennesima esternazione.
"Io temo che questo Expo possa diventare solo un grande affare immobiliare", dice Marco Vitale al Corriere della Sera il 3/04.
Questo è il primo timore. Il secondo, altrettanto impellente, è esserne escluso.
23 marzo 2009
Gran varietà Brachetti
Per la festa del Papà, mio figlio mi ha accompagnato a vedere questo incredibile spettacolo.
Brachetti è un trasformista bravissimo che in passato si è esibito da solo, reggendo magnificamente due ore di performance fantasiosa e fascinosa.
Questa volta si fa accompagnare da un selezionato gruppo di attori comici, fantasisti, ballerini, ginnasti. Mischia questi ingrediedienti con grande sapienza e ne tra uno spettacolo entusiasmante, una rivisitazione magica del varietà.
Uno spettacolo per adulti-bambini.
Fa bene al cuore, merita di essere consigliato.
Brachetti è un trasformista bravissimo che in passato si è esibito da solo, reggendo magnificamente due ore di performance fantasiosa e fascinosa.
Questa volta si fa accompagnare da un selezionato gruppo di attori comici, fantasisti, ballerini, ginnasti. Mischia questi ingrediedienti con grande sapienza e ne tra uno spettacolo entusiasmante, una rivisitazione magica del varietà.
Uno spettacolo per adulti-bambini.
Fa bene al cuore, merita di essere consigliato.
11 marzo 2009
Un libro da non perdere: "Lo Stato canaglia"
Non è un’espressione generica, usata per definire in generale l’organizzazione tipica degli stati moderni: intitolando il suo ultimo libro “Lo Stato canaglia” l’editorialista ed ex direttore del Corriere della Sera Piero Ostellino ha voluto proprio riferirsi all’Italia, e in particolare a quell’Italia politica ed organizzativa che è uscita dalla nostra incensatissima Carta costituzionale. Ne esce un quadro impietoso di un Paese imbrigliato da norme e divieti, frutto di un accordo (quello costituzionale, appunto) fin da subito superato dagli eventi, e dalle scelte del popolo italiano.
Ostellino, “Stato canaglia” è un’espressione forte: perché ha deciso di usarla, e cosa significa?
L’ho usata per significare una cosa fondamentale: lo Stato è nato per proteggere i cittadini dalle minacce esterne e interne; oggi invece il nostro Stato fagocita i cittadini, senza difenderli né da minacce esterne (basti vedere l’invasione da immigrazione non regolata), né da minacce interne, dato che molta parte del Paese è in mano alla criminalità organizzata. Quindi è uno Stato che chiede moltissimo ai cittadini dando loro in cambio ben poco, e anzi subissandoli di divieti. Nei Paesi liberi tutto è consentito, tranne ciò che è espressamente vietato per legge; da noi, viceversa, tutto è vietato, tranne ciò che è consentito. Oltre a questo, come ben sappiamo, il nostro è uno Stato che fa pagare tasse ben al di là dei servizi che fornisce. È “canaglia” proprio nella misura in cui sottopone il cittadino a vessazioni proprie di un Paese privo di cultura democratica e liberale.
Nel suo libro dedica ampio spazio alla Costituzione, e senza porsi problemi di “correttezza” politica ne mette in luce i limiti, soprattutto per quanto riguarda l’assenza di un impianto liberale: perché la nostra Carta ha questo difetto così grave?
Perché è frutto di un compromesso tra due Resistenze. In Italia c’è il mito di un’unica Resistenza, mentre in realtà sono state due: una democratica (i cattolici, i liberali, i repubblicani, i socialisti, gli azionisti); l’altra totalitaria (i comunisti). Si è cercato un compromesso tra queste due, ed è venuto fuori un “papocchio”, una Costituzione che riconosce i diritti individuali, ma li subordina all’utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere giuridico. In altri termini, nel ’47 non è stato possibile alle forze totalitarie fare la rivoluzione, e allora sono riusciti a fare per lo meno una Carta costituzionale nella prospettiva di una rivoluzione.
E in che senso la Costituzione conterrebbe la prospettiva della rivoluzione?
Facciamo un esempio: anche nell’ex Unione Sovietica l’impianto giuridico prevedeva i diritti dell’individuo, ma questi erano subordinati all’edificazione del socialismo. Quindi era sufficiente che un giudice ordinario decidesse che un quadro non era dipinto nella prospettiva rivoluzionaria per rinchiudere nel Gulag il pittore. Da noi, se avesse vinto il Partito Comunista nel ’48, sarebbe stato sufficiente a un giudice ordinario dire che la fabbrica di un tale non contribuiva all’utilità sociale per farla requisire. C’erano quindi tutte le condizioni perché il nostro Paese diventasse un Paese sovietico.
Eppure oggi sembra quasi impossibile criticare la Costituzione, e non sono pochi i casi di reverenza quasi religiosa nei confronti della Carta (se ne è parlato come di una “Bibbia”, come qualcosa di fronte al quale “inchinarsi”). Qual è il rischio di questo atteggiamento sacralizzante?
In effetti la nostra Carta costituzionale è diventata un feticcio: chi parla della Costituzione e ne auspica il cambiamento – ovviamente in senso democratico e liberale – viene comunque demonizzato come un nemico della democrazia. Il linguaggio religioso viene utilizzato proprio perché non si è liberali, e non si separa la retorica di impronta religiosa dalla politica. Anche il laicismo, infatti, può essere una religione. Non dimentichiamo poi che è opinione di alcuni costituzionalisti che l’Italia non sia stata quella che si voleva nella Costituzione: e questa è proprio l’idea di Rousseau, e dei giacobini, che dicono che se le leggi non funzionano si cambia il popolo. Il problema invece è il contrario: l’Italia nel ’48 ha fatto una scelta, e la Costituzione è rimasta indietro rispetto a questa scelta.
C’è chi dice che in realtà il vero problema stia nel fatto che la Costituzione materiale ha tradito quella formale.
Innanzitutto io respingo anche il concetto stesso di Costituzione materiale: nei paesi liberali le costituzioni sono o quelle scritte, o quelle tramandate dalla tradizione, come in Inghilterra. La sola Costituzione italiana quindi è quella formale, quella scritta. Detto questo, poiché in Italia non si vuole toccare la Costituzione, allora si inventa il concetto di Costituzione materiale. Ma se le leggi non sono formali, allora vuol dire che il principe è legibus solutus, cioè obbedisce a una Costituzione materiale che si è dato lui stesso ma che non esiste da nessuna parte.
Uno Stato “canaglia” come il nostro non schiaccia solo l’individuo, ma anche (e soprattutto) le aggregazioni di individui, cioè i cosiddetti corpi intermedi: in che modo questi sono ostacolati dalla nostra struttura statale?
I corpi intermedi sono schiacciati da una concezione collettivistica della società, per cui la società stessa esiste solo come generalità: non si percepisce l’individuo né come soggetto singolo, né come soggetto che si associa ad altri individui e entra in rapporto o anche in competizione con altri, associatisi per altre ragioni e sulla base di altri valori. Nelle democrazie liberali come quella americana i corpi intermedi sono invece il sale della democrazia, perché consentono alla democrazia di svilupparsi attraverso la logica della costruzione “dal basso”. I corpi intermedi, in altri termini, sono quelli che trasmettono le domande della società civile alla società politica. Da noi tutto questo manca, tanto più ora che sono entrati in crisi anche i partiti. Questo è il motivo principale del vuoto tra la società e la politica.
In una precedente intervista a Ilsussidiario.net lei lamentava il fatto che il cattolicesimo liberale sia stato un grande assente nella nostra storia repubblicana: che cos’è e da chi è stato rappresentato il cattolicesimo liberale, e che apporto avrebbe potuto dare all’edificazione di uno Stato meno “canaglia”?
Io innanzitutto sono un grande ammiratore del cattolicesimo liberale lombardo, a partire da Manzoni. È il cattolicesimo che ha assunto la solidarietà come moto dello spirito, come tensione morale; la borghesia cattolica lombarda ha fatto cose straordinarie in termini di solidarietà, e non perché erano imposte per legge, ma perché sentite come un moto dell’animo. Questo cattolicesimo nella storia repubblicana è stato in qualche modo sostituito dal cosiddetto cattolicesimo democratico, che ha sempre voluto piegare la Chiesa alle proprie esigenze politiche. È il cattolicesimo delle grandi critiche: la Chiesa è in ritardo, la Chiesa non è sufficientemente progressista e democratica, il Papa è un reazionario. Tutto questo senza capire che la Chiesa da duemila anni è quella che è proprio perché ha una sua autonomia rispetto alla politica, una sua identità così forte che non può essere piegata alle esigenze particolari di partiti o di schieramenti. Chi crede, o accetta la Chiesa e il suo magistero in toto, oppure è un cattolico a metà, di comodo. Ritengo dunque che sia stato un danno per tutti il fatto che cattolicesimo democratico abbia prevalso sul cattolicesimo liberale di don Sturzo e di De Gasperi.
Ora con questo suo libro lei getta un sasso nel dibattito pubblico: che cosa si aspetta che accada, e come vorrebbe che il suo volume incidesse, magari anche sulle decisioni politiche?
Non so quanto inciderà. Però mi aspetto che il nostro mondo politico prenda almeno atto di quanto il nostro ordinamento giuridico e la nostra organizzazione sociale siano proprie di uno Stato “canaglia”. Quindi vorrei che si cominciasse a capire, ad esempio, che il nostro Paese ha un eccesso di legislazione: troppe leggi, troppi regolamenti, troppi divieti. Cominciamo a produrre una radicale semplificazione riducendo drasticamente il numero di leggi (non sappiamo nemmeno quante siano!). Se il mondo politico incominciasse a capire che non è facendo leggi su leggi che si crea uno Stato libero, questo sarebbe già un buon risultato.
Intervista pubblicata da IlSussidiario.it
Ostellino, “Stato canaglia” è un’espressione forte: perché ha deciso di usarla, e cosa significa?
L’ho usata per significare una cosa fondamentale: lo Stato è nato per proteggere i cittadini dalle minacce esterne e interne; oggi invece il nostro Stato fagocita i cittadini, senza difenderli né da minacce esterne (basti vedere l’invasione da immigrazione non regolata), né da minacce interne, dato che molta parte del Paese è in mano alla criminalità organizzata. Quindi è uno Stato che chiede moltissimo ai cittadini dando loro in cambio ben poco, e anzi subissandoli di divieti. Nei Paesi liberi tutto è consentito, tranne ciò che è espressamente vietato per legge; da noi, viceversa, tutto è vietato, tranne ciò che è consentito. Oltre a questo, come ben sappiamo, il nostro è uno Stato che fa pagare tasse ben al di là dei servizi che fornisce. È “canaglia” proprio nella misura in cui sottopone il cittadino a vessazioni proprie di un Paese privo di cultura democratica e liberale.
Nel suo libro dedica ampio spazio alla Costituzione, e senza porsi problemi di “correttezza” politica ne mette in luce i limiti, soprattutto per quanto riguarda l’assenza di un impianto liberale: perché la nostra Carta ha questo difetto così grave?
Perché è frutto di un compromesso tra due Resistenze. In Italia c’è il mito di un’unica Resistenza, mentre in realtà sono state due: una democratica (i cattolici, i liberali, i repubblicani, i socialisti, gli azionisti); l’altra totalitaria (i comunisti). Si è cercato un compromesso tra queste due, ed è venuto fuori un “papocchio”, una Costituzione che riconosce i diritti individuali, ma li subordina all’utilità sociale, al benessere collettivo, cioè a una serie di astrazioni ideologiche che non sono nemmeno affermazioni di carattere giuridico. In altri termini, nel ’47 non è stato possibile alle forze totalitarie fare la rivoluzione, e allora sono riusciti a fare per lo meno una Carta costituzionale nella prospettiva di una rivoluzione.
E in che senso la Costituzione conterrebbe la prospettiva della rivoluzione?
Facciamo un esempio: anche nell’ex Unione Sovietica l’impianto giuridico prevedeva i diritti dell’individuo, ma questi erano subordinati all’edificazione del socialismo. Quindi era sufficiente che un giudice ordinario decidesse che un quadro non era dipinto nella prospettiva rivoluzionaria per rinchiudere nel Gulag il pittore. Da noi, se avesse vinto il Partito Comunista nel ’48, sarebbe stato sufficiente a un giudice ordinario dire che la fabbrica di un tale non contribuiva all’utilità sociale per farla requisire. C’erano quindi tutte le condizioni perché il nostro Paese diventasse un Paese sovietico.
Eppure oggi sembra quasi impossibile criticare la Costituzione, e non sono pochi i casi di reverenza quasi religiosa nei confronti della Carta (se ne è parlato come di una “Bibbia”, come qualcosa di fronte al quale “inchinarsi”). Qual è il rischio di questo atteggiamento sacralizzante?
In effetti la nostra Carta costituzionale è diventata un feticcio: chi parla della Costituzione e ne auspica il cambiamento – ovviamente in senso democratico e liberale – viene comunque demonizzato come un nemico della democrazia. Il linguaggio religioso viene utilizzato proprio perché non si è liberali, e non si separa la retorica di impronta religiosa dalla politica. Anche il laicismo, infatti, può essere una religione. Non dimentichiamo poi che è opinione di alcuni costituzionalisti che l’Italia non sia stata quella che si voleva nella Costituzione: e questa è proprio l’idea di Rousseau, e dei giacobini, che dicono che se le leggi non funzionano si cambia il popolo. Il problema invece è il contrario: l’Italia nel ’48 ha fatto una scelta, e la Costituzione è rimasta indietro rispetto a questa scelta.
C’è chi dice che in realtà il vero problema stia nel fatto che la Costituzione materiale ha tradito quella formale.
Innanzitutto io respingo anche il concetto stesso di Costituzione materiale: nei paesi liberali le costituzioni sono o quelle scritte, o quelle tramandate dalla tradizione, come in Inghilterra. La sola Costituzione italiana quindi è quella formale, quella scritta. Detto questo, poiché in Italia non si vuole toccare la Costituzione, allora si inventa il concetto di Costituzione materiale. Ma se le leggi non sono formali, allora vuol dire che il principe è legibus solutus, cioè obbedisce a una Costituzione materiale che si è dato lui stesso ma che non esiste da nessuna parte.
Uno Stato “canaglia” come il nostro non schiaccia solo l’individuo, ma anche (e soprattutto) le aggregazioni di individui, cioè i cosiddetti corpi intermedi: in che modo questi sono ostacolati dalla nostra struttura statale?
I corpi intermedi sono schiacciati da una concezione collettivistica della società, per cui la società stessa esiste solo come generalità: non si percepisce l’individuo né come soggetto singolo, né come soggetto che si associa ad altri individui e entra in rapporto o anche in competizione con altri, associatisi per altre ragioni e sulla base di altri valori. Nelle democrazie liberali come quella americana i corpi intermedi sono invece il sale della democrazia, perché consentono alla democrazia di svilupparsi attraverso la logica della costruzione “dal basso”. I corpi intermedi, in altri termini, sono quelli che trasmettono le domande della società civile alla società politica. Da noi tutto questo manca, tanto più ora che sono entrati in crisi anche i partiti. Questo è il motivo principale del vuoto tra la società e la politica.
In una precedente intervista a Ilsussidiario.net lei lamentava il fatto che il cattolicesimo liberale sia stato un grande assente nella nostra storia repubblicana: che cos’è e da chi è stato rappresentato il cattolicesimo liberale, e che apporto avrebbe potuto dare all’edificazione di uno Stato meno “canaglia”?
Io innanzitutto sono un grande ammiratore del cattolicesimo liberale lombardo, a partire da Manzoni. È il cattolicesimo che ha assunto la solidarietà come moto dello spirito, come tensione morale; la borghesia cattolica lombarda ha fatto cose straordinarie in termini di solidarietà, e non perché erano imposte per legge, ma perché sentite come un moto dell’animo. Questo cattolicesimo nella storia repubblicana è stato in qualche modo sostituito dal cosiddetto cattolicesimo democratico, che ha sempre voluto piegare la Chiesa alle proprie esigenze politiche. È il cattolicesimo delle grandi critiche: la Chiesa è in ritardo, la Chiesa non è sufficientemente progressista e democratica, il Papa è un reazionario. Tutto questo senza capire che la Chiesa da duemila anni è quella che è proprio perché ha una sua autonomia rispetto alla politica, una sua identità così forte che non può essere piegata alle esigenze particolari di partiti o di schieramenti. Chi crede, o accetta la Chiesa e il suo magistero in toto, oppure è un cattolico a metà, di comodo. Ritengo dunque che sia stato un danno per tutti il fatto che cattolicesimo democratico abbia prevalso sul cattolicesimo liberale di don Sturzo e di De Gasperi.
Ora con questo suo libro lei getta un sasso nel dibattito pubblico: che cosa si aspetta che accada, e come vorrebbe che il suo volume incidesse, magari anche sulle decisioni politiche?
Non so quanto inciderà. Però mi aspetto che il nostro mondo politico prenda almeno atto di quanto il nostro ordinamento giuridico e la nostra organizzazione sociale siano proprie di uno Stato “canaglia”. Quindi vorrei che si cominciasse a capire, ad esempio, che il nostro Paese ha un eccesso di legislazione: troppe leggi, troppi regolamenti, troppi divieti. Cominciamo a produrre una radicale semplificazione riducendo drasticamente il numero di leggi (non sappiamo nemmeno quante siano!). Se il mondo politico incominciasse a capire che non è facendo leggi su leggi che si crea uno Stato libero, questo sarebbe già un buon risultato.
Intervista pubblicata da IlSussidiario.it
04 marzo 2009
È ora che la borghesia milanese ricominci ad avere il "suo" ruolo
La borghesia milanese nella sua parte industriale, ha sempre avuto molteplici volti come è tipico di una città assai repubblicana, che rifiuta gli eccessi di uniformità. Riformista e fattiva in grande misura nelle prime fasi dell’Unità d’Italia, impegnata anche direttamente nella “gestione” della città (costruendo università e istituzioni culturali, regalando sindaci e assessori efficienti), la borghesia milanese non manca, almeno in una sua vasta frazione, poi di dare un suo appoggio al fascismo nascente e di mantenere una collaborazione intensa col regime.
Nella Resistenza si registrano, però, esponenti del mondo industriale (al di là dei commenti dei cinici che dicevano come le famiglie industriali inviassero uno dei loro pargoli con le camice nere e uno con i partigiani). Né nella fase della ricostruzione sono assenti industriali anche di fama che si impegnano nel consiglio comunale.
Poi Milano e la sua Assolombarda diventano il punto di riferimento di alcune delle posizioni più chiuse, non solo contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica – posizione forse meno sbagliata di quel che si pensava anche se l’oligopolio delle società elettriche dell’epoca strozzava l’economia italiana - ma anche, per esempio, contro il Mercato comune, su posizioni arcaicamente protezioniste.
Naturalmente Milano, appunto città repubblicana, aveva anche industriali di grandissimo peso di segno completamente diverso come Leopoldo Pirelli che svolse un importante ruolo riformatore anche in Confidustria. Una certa mancanza di equilibrio della borghesia milanese, unito a un processo di incombente deindustrializzazione di cui forse non si aveva tutta la necessaria consapevolezza, però la sbalestrarono determinando tra l’altro lo squilibrio definitivo del Corriere della Sera come suo giornale di riferimento. Perdita solo attenuata dalla nascita del Giornale di Indro Montanelli.
Nonostante la leadership di un milanese come Bettino Craxi, la borghesia cittadina non assunse alcun fondamentale ruolo nazionale nei dinamici anni Ottanta. Anzi per qualche verso fu colonizzata dai torinesi della Fiat. Con il semi colpo di stato del 1992, si accucciò, molto intimidata dallo stato di cose prevalenti, producendo leader come Benito Benedini, presidente di Assolombarda e Aldo Fumagalli, presidente dei “giovani” e candidato del centrosinistra per il comune di Milano. Una generazione in sintonia con i pasticci di Luigi Abete in Confindustria, con una certo logica concertativa subalterna alla Cgil e alla sinistra.
A cambiare le cose furono “i piccoli” con Gabriele Albertini prima presidente di Federmeccanica, poi sindaco di Milano, e Michele Perini presidente di Assolombarda. Dopo un’altra fase di pasticci filoprodiani nella Confindustria nazionale con Luca Cordero di Montezemolo, quando a Milano pesava in un ruolo non dominante ma significativo Marco Tronchetti Provera (che si pentirà molto del suo prodismo iniziale), è emersa la generazione del cosiddetto quarto capitalismo.
Leader di imprese di grande sviluppo e successo, come la Bracco e la Mapei, da Diana Bracco a Giorgio Squinzi, presidente dei Federchimica. Meno estroversi dei piccoli, ma lontani dai giochi di potere legati alla Fiat conservatrice, i quartocapitalisti oggi sono centrali nel sistema confindustriale milanese e nazionale. Animati da un forte spirito riformista, convergente con la Confidustria marcegagliana, non sempre riescono a esercitare quel ruolo più generale di cui ci sarebbe bisogno (oltre che sui temi nazionali anche su quelli territoriali ma decisivi come l’Expo o la Malpensa). Dovrebbero riflettere bene sulla lezione dei loro predecessori e cercare di essere più classe dirigente cittadina e nazionale, aiutando anche Letizia Moratti, esponente di una famiglia di peso del capitalismo lombardo, a disincagliarsi dagli errori compiuti innanzi tutto nella costruzione di una classe dirigente locale. Molto del futuro italiano sarà determinato dalla borghesia milanese e dalla sua capacità o meno di avere una visione generale, propositiva e nazionale.
di Lodovico Festa, su L'Occidentale
Tema stimolante che merita un confronto fra gli amici.
Ho una perplessità propedeutica. Esiste più una borghesia industriale a Milano?
La drammatica crisi di leadership di Milano è cominciata con lo smantellamento delle fabbriche e la riconversione dei salotti buoni prima in tagliacedole poi in finanzieri all'italiana.
Difficile con questo mutamento antropologico avere ancora lo spirito milanese dei loro antenati, l'istinto imitativo del nuovo che il modernismo offriva, la voglia di un liberalismo che aveva il sapore dell'Europa, anche nei momenti più bui della dittatura nera.
Ma il tema è ampio, i perché di un degrado sono tanti.
Attendo contributi.
Nella Resistenza si registrano, però, esponenti del mondo industriale (al di là dei commenti dei cinici che dicevano come le famiglie industriali inviassero uno dei loro pargoli con le camice nere e uno con i partigiani). Né nella fase della ricostruzione sono assenti industriali anche di fama che si impegnano nel consiglio comunale.
Poi Milano e la sua Assolombarda diventano il punto di riferimento di alcune delle posizioni più chiuse, non solo contro la nazionalizzazione dell’energia elettrica – posizione forse meno sbagliata di quel che si pensava anche se l’oligopolio delle società elettriche dell’epoca strozzava l’economia italiana - ma anche, per esempio, contro il Mercato comune, su posizioni arcaicamente protezioniste.
Naturalmente Milano, appunto città repubblicana, aveva anche industriali di grandissimo peso di segno completamente diverso come Leopoldo Pirelli che svolse un importante ruolo riformatore anche in Confidustria. Una certa mancanza di equilibrio della borghesia milanese, unito a un processo di incombente deindustrializzazione di cui forse non si aveva tutta la necessaria consapevolezza, però la sbalestrarono determinando tra l’altro lo squilibrio definitivo del Corriere della Sera come suo giornale di riferimento. Perdita solo attenuata dalla nascita del Giornale di Indro Montanelli.
Nonostante la leadership di un milanese come Bettino Craxi, la borghesia cittadina non assunse alcun fondamentale ruolo nazionale nei dinamici anni Ottanta. Anzi per qualche verso fu colonizzata dai torinesi della Fiat. Con il semi colpo di stato del 1992, si accucciò, molto intimidata dallo stato di cose prevalenti, producendo leader come Benito Benedini, presidente di Assolombarda e Aldo Fumagalli, presidente dei “giovani” e candidato del centrosinistra per il comune di Milano. Una generazione in sintonia con i pasticci di Luigi Abete in Confindustria, con una certo logica concertativa subalterna alla Cgil e alla sinistra.
A cambiare le cose furono “i piccoli” con Gabriele Albertini prima presidente di Federmeccanica, poi sindaco di Milano, e Michele Perini presidente di Assolombarda. Dopo un’altra fase di pasticci filoprodiani nella Confindustria nazionale con Luca Cordero di Montezemolo, quando a Milano pesava in un ruolo non dominante ma significativo Marco Tronchetti Provera (che si pentirà molto del suo prodismo iniziale), è emersa la generazione del cosiddetto quarto capitalismo.
Leader di imprese di grande sviluppo e successo, come la Bracco e la Mapei, da Diana Bracco a Giorgio Squinzi, presidente dei Federchimica. Meno estroversi dei piccoli, ma lontani dai giochi di potere legati alla Fiat conservatrice, i quartocapitalisti oggi sono centrali nel sistema confindustriale milanese e nazionale. Animati da un forte spirito riformista, convergente con la Confidustria marcegagliana, non sempre riescono a esercitare quel ruolo più generale di cui ci sarebbe bisogno (oltre che sui temi nazionali anche su quelli territoriali ma decisivi come l’Expo o la Malpensa). Dovrebbero riflettere bene sulla lezione dei loro predecessori e cercare di essere più classe dirigente cittadina e nazionale, aiutando anche Letizia Moratti, esponente di una famiglia di peso del capitalismo lombardo, a disincagliarsi dagli errori compiuti innanzi tutto nella costruzione di una classe dirigente locale. Molto del futuro italiano sarà determinato dalla borghesia milanese e dalla sua capacità o meno di avere una visione generale, propositiva e nazionale.
di Lodovico Festa, su L'Occidentale
Tema stimolante che merita un confronto fra gli amici.
Ho una perplessità propedeutica. Esiste più una borghesia industriale a Milano?
La drammatica crisi di leadership di Milano è cominciata con lo smantellamento delle fabbriche e la riconversione dei salotti buoni prima in tagliacedole poi in finanzieri all'italiana.
Difficile con questo mutamento antropologico avere ancora lo spirito milanese dei loro antenati, l'istinto imitativo del nuovo che il modernismo offriva, la voglia di un liberalismo che aveva il sapore dell'Europa, anche nei momenti più bui della dittatura nera.
Ma il tema è ampio, i perché di un degrado sono tanti.
Attendo contributi.
27 febbraio 2009
Epitaffio
Non vedo e non scrivo di Milan da molti mesi. Da quando il rifiuto della conduzione societaria e della guida tecnica mi ha indotto ad interrompere 50 anni filati di abbonamento allo stadio.
Ieri sera ho visto in televisione l'ingloriosa e vergognosa eliminazione dalla Coppetta Uefa.
Finalmente siamo arrivati alla fine di una storia che pure ha dato momenti di grande gioia.
Galliani, Ancelotti ed un gruppo di ex-calciatori ci hanno accompagnati in questa decadenza che tutti i milanisti onesti avevavo avvertito incombente sin da tre anni fa.
Ora vediamo cosa farà il Berlusconi nella mossa decisiva di imprenditore sportivo.
La logica direbbe andarsene con tutta la compagnia da operette che ha messo in piedi negli ultimi anni.
Ma forse, in mezzo a tante distrazioni, gli è rimasto un briciolo di affetto per queste maglie.
In tal caso, via con la rifondazione con giovani di belle speranze, veri atleti con la fame di vittorie. Perderà i favori di una tribuna fighetta ed esibizionista ma incompetente, smetterà di finanziare la curva dei calabresi e tanti altri parassiti, da MilanLab sino alle decine di markettari che hanno trasformato una gloriosa società di calcio in un'agenzia per eventi speciali. Ma ritroverà la veemente passione dei cacciaviti di tutte le generazioni.
Ieri sera ho visto in televisione l'ingloriosa e vergognosa eliminazione dalla Coppetta Uefa.
Finalmente siamo arrivati alla fine di una storia che pure ha dato momenti di grande gioia.
Galliani, Ancelotti ed un gruppo di ex-calciatori ci hanno accompagnati in questa decadenza che tutti i milanisti onesti avevavo avvertito incombente sin da tre anni fa.
Ora vediamo cosa farà il Berlusconi nella mossa decisiva di imprenditore sportivo.
La logica direbbe andarsene con tutta la compagnia da operette che ha messo in piedi negli ultimi anni.
Ma forse, in mezzo a tante distrazioni, gli è rimasto un briciolo di affetto per queste maglie.
In tal caso, via con la rifondazione con giovani di belle speranze, veri atleti con la fame di vittorie. Perderà i favori di una tribuna fighetta ed esibizionista ma incompetente, smetterà di finanziare la curva dei calabresi e tanti altri parassiti, da MilanLab sino alle decine di markettari che hanno trasformato una gloriosa società di calcio in un'agenzia per eventi speciali. Ma ritroverà la veemente passione dei cacciaviti di tutte le generazioni.
25 febbraio 2009
Una fiera già vecchia
Il giro alla BIT di domenica scorsa è stata anche l'occasione per "ammirare" la nuova fiera di Milano. Per chi è stato a Valencia è praticamente impossibile trattenersi dal fare un confronto con la Ciudad de las Artes y la Ciencias. Quest'ultima con soluzioni interessanti, innovative, funzionali, esteticamente belle e soprattutto pulita; la prima è invece tutt'altro che ardita, sembra già vecchia e impressiona immediatamente per la sporcizia che si è accumulata sulle grandi superfici di copertura in vetro. Certo che un architetto che a Milano, una delle zone più inquinate d'Europa, progetta coperture di vetro perfettamente orizzontali (probabilmente con vetrate non autopulenti) una cosa del genere avrebbe dovuto prevederla! Un'altra grande e dolorosa delusione. E a questo punto comincio a temere per l'Expo del 2015. A ridosso della fiera va segnalato un sistema di viabilità incredibilmente complicato (con un'assurda successione di rotonde) e una cartellonistatica paradossale: è eccessiva in quanto a segnalazioni ma carente quanto a contenuti.
dal blog Ali e Radici
Non ho ancora visitato il nuovo polo fieristico, né sono ormai stimolato a farlo, ma non dubito che la testimonianza di Nautilus sia puntuale e credibile.
Per queste ulteriori ragioni, per la sostanziale incapacità della decadente Milano di organizzare eventi che non siano passerelle modaiole, io mi auguro che la rissa su Expo 2015 porti ad una rinuncia a questo folle progetto.
Risparmieremmo palate di soldi che in tempi di crisi epocale potrebbero meglio essere utilizzati, eviteremmo di fare boiate architettoniche come ormai da trent'anni succede, toglieremmo ai soliti noti una ghiotta opportunità da combinare affari per le loro tasche ed infine la smetteremmo con questa fuffa terzomondista che la sindachessa del clan Moratti tenta pervicacimente di propinarci.
PS: lo scandalo delle rotonde (vedi comune di Rozzano), quando porterà ad una fragorosa rotondopoli?
dal blog Ali e Radici
Non ho ancora visitato il nuovo polo fieristico, né sono ormai stimolato a farlo, ma non dubito che la testimonianza di Nautilus sia puntuale e credibile.
Per queste ulteriori ragioni, per la sostanziale incapacità della decadente Milano di organizzare eventi che non siano passerelle modaiole, io mi auguro che la rissa su Expo 2015 porti ad una rinuncia a questo folle progetto.
Risparmieremmo palate di soldi che in tempi di crisi epocale potrebbero meglio essere utilizzati, eviteremmo di fare boiate architettoniche come ormai da trent'anni succede, toglieremmo ai soliti noti una ghiotta opportunità da combinare affari per le loro tasche ed infine la smetteremmo con questa fuffa terzomondista che la sindachessa del clan Moratti tenta pervicacimente di propinarci.
PS: lo scandalo delle rotonde (vedi comune di Rozzano), quando porterà ad una fragorosa rotondopoli?
20 febbraio 2009
Il teorema dello scorpione
Alla cerimonia degli addii di Walter Veltroni, Massimo D'Alema non c'era: né alcuno ha pensato di evocare il suo nome. C'era però il suo fantasma, avvistato dai più competenti osservatori politici e sottopolitici. I quali ricordano che un giorno dei primi anni Novanta D'Alema venne alle mani con Achille Occhetto, insieme al quale aveva defenestrato a suo tempo Alessandro Natta. Il litigio lasciò una scia di risentimenti che dura da circa diciotto anni. Poi fu la gara per la segreteria con Veltroni: furono consultati i militanti. Dissero Veltroni, segretario diventò D'Alema: nuovo risentimento. In quel tempo fui richiesto di dire chi avrei votato nella consultazione: D'Alema dissi, perché non conviene fare il segretario di alcunché con un D'Alema al proprio fianco (il teorema dello scorpione). Poi D'Alema inventò, in collaborazione con Beniamino Andreatta e pochi altri, il professor Prodi come alfiere politico dell'Ulivo. Ma ottenuta la vittoria, nel giro di due anni e mezzo lo sostituì di brutto a Palazzo Chigi, insieme con Veltroni che era il suo numero due nel governo. Nuovi risentimenti. Considerato chissà perché pericoloso, D'Alema fu a sua volta fatto fuori dopo un annetto e qualcosa a Palazzo Chigi. Vince Berlusconi nel 2001, subito dopo, e D'alema cucina a fuoco vivo Cofferati, che era uscito indenne dalla legislatura litigiosa dell'Ulivo e in nome della coesione sociale voleva guidare una specie di Labour Party non si sa bene dove. Cofferati va in Pirelli, poi a Bologna: nuovi risentimenti. In quel periodo il prof. Salvati propone sul Foglio un "partito democratico", specificando chissà perché una clausola di salvaguardia: non deve esserci di mezzo D'Alema. D'Alema fa spallucce, reiventa Prodi, Prodi 2, pareggiano nel 2006 con Berlusconi, e dopo un anno D'Alema lancia Veltroni come leader del PD, ciò che Prodi prende come un tradimento meritevole del suo risentimento. Perdono le elezioni l'anno scorso, e D'Alema organizza un partito nel partito, con tanto di tessere, sedi, televisione e giornale. Fa fuori Veltroni aiutato da un rovescio elettorale dieto l'altro.
Niente di illegittimo. D'Alema è personalità politica robusta, al Quirinale avrebbe fatto faville, la sua intelligenza & supponenza ci ha spesso protetto dal tedio. In politica si può essere scorpioni, e mordere la rana in mezzo al guado con il rischio di affogare insieme a lei. Ma che addirittura il suo nome non sia citato nella cerimonia degli addii, e nessuno scriva che D'Alema ha liquidato con magnifica arte sicaria, e sempre personalmente, una mezza dozzina di capi del suo partito, ogni volta affettando lealtà e fraternità, questo forse è bizzarro.
di Giuliano Ferrara, editoriale del Foglio del 19 febbraio 2009
Niente di illegittimo. D'Alema è personalità politica robusta, al Quirinale avrebbe fatto faville, la sua intelligenza & supponenza ci ha spesso protetto dal tedio. In politica si può essere scorpioni, e mordere la rana in mezzo al guado con il rischio di affogare insieme a lei. Ma che addirittura il suo nome non sia citato nella cerimonia degli addii, e nessuno scriva che D'Alema ha liquidato con magnifica arte sicaria, e sempre personalmente, una mezza dozzina di capi del suo partito, ogni volta affettando lealtà e fraternità, questo forse è bizzarro.
di Giuliano Ferrara, editoriale del Foglio del 19 febbraio 2009
Povero Silvio, è finita la festa
Uolter si è dimesso da segretario del PD dopo l'ennesima batosta elettorale, questa volta in Sardegna, terra di solide radici di sinistra.
Nella conferenza di addio davanti alle truppe ha sostanzialmente detto che il partito è afflitto da personalismi e divisioni, la linea politica è dettata dalla frangia salottiera, giustizialista e conservatrice, che le interferenze dei media condizionano l'azione del partito. Ha infine proposto alla dirigenza di amarsi cristianamente, di farsi capire dalla società metro per metro, ma anche che non si deve tornare indietro, ieri non è migliore di oggi, al nuovo leader date il tempo di realizzare il progetto.
Uno così Berlusconi non lo troverà più e da oggi dovrà sforzarsi di fare politica propositiva.
Se poi il nuovo segretario dei cattocomunisti sarà Franceschini, per le Europee ed amministrative di primavera la vedo molto ma molto dura per il PDL.
Nella conferenza di addio davanti alle truppe ha sostanzialmente detto che il partito è afflitto da personalismi e divisioni, la linea politica è dettata dalla frangia salottiera, giustizialista e conservatrice, che le interferenze dei media condizionano l'azione del partito. Ha infine proposto alla dirigenza di amarsi cristianamente, di farsi capire dalla società metro per metro, ma anche che non si deve tornare indietro, ieri non è migliore di oggi, al nuovo leader date il tempo di realizzare il progetto.
Uno così Berlusconi non lo troverà più e da oggi dovrà sforzarsi di fare politica propositiva.
Se poi il nuovo segretario dei cattocomunisti sarà Franceschini, per le Europee ed amministrative di primavera la vedo molto ma molto dura per il PDL.
13 febbraio 2009
Andrea's versions
In presenza della manifestazione promossa per oggi dal Partito Democratico in difesa della costituzione e contro gli inammissibili attacchi a un presidente della Repubblica. Al cospetto della nobile frase del segretario Veltroni, secondo cui mai si può sfiorare, nemmeno con un dito, un presidente della Repubblica, "rappresentando egli l'espressione più alta dell'unità della Nazione".
E senza volere offndere nessuno, come direbbe il senatore Gasparri. Riteniamo d'altronde che la nobile frase, all'origine della nobile manifestazione odierna, possa essere verificata alla luce dei ricordi seguenti.
A) Il presidente Gronchi venne impalato per via di un certo Tambroni.
B) Il presidente Segni (papà dello sciagurato Mariotto) venne impalato da vivo, poi reimpalato da morto, per via delle note vicende.
C) Il presidente Saragat, "servo del capitalismo e traditore della classe operaia", eseguiva ogni mattina al Quirinale, questo almeno scriveva Fortebraccio, l'alzabarbera.
D) Il presidente Leone, basta la parola.
E) Il presidente Cossiga, ne avanza mezza.
Dopodiché, ma questo è ovvio, massimo rispetto per l'espressione più alta dell'unità della Fazione.
da Il Foglio, del 12 febbraio 2009
E senza volere offndere nessuno, come direbbe il senatore Gasparri. Riteniamo d'altronde che la nobile frase, all'origine della nobile manifestazione odierna, possa essere verificata alla luce dei ricordi seguenti.
A) Il presidente Gronchi venne impalato per via di un certo Tambroni.
B) Il presidente Segni (papà dello sciagurato Mariotto) venne impalato da vivo, poi reimpalato da morto, per via delle note vicende.
C) Il presidente Saragat, "servo del capitalismo e traditore della classe operaia", eseguiva ogni mattina al Quirinale, questo almeno scriveva Fortebraccio, l'alzabarbera.
D) Il presidente Leone, basta la parola.
E) Il presidente Cossiga, ne avanza mezza.
Dopodiché, ma questo è ovvio, massimo rispetto per l'espressione più alta dell'unità della Fazione.
da Il Foglio, del 12 febbraio 2009
27 gennaio 2009
Vivace contrattacco
Le Forze Oscure della Correttezza Ideologica in Agguato devono essersi date convegno di questi tempi, e fischia un forte vento di restaurazione. Andiamo a vele spiegate verso l'introduzione dell'eutanasia in Italia, una sentenza dopo l'altra, e in nome della libertà individuale per la morte che presto sarà certificata da un lugubre testamento. La pillola Ru486 farà calare il sipario su ogni possibile tentativo di combattere l'aborto e difendere la vita prenatale salvando l'autonomia e la salute delle donne. L'islam europeo militante si è affacciato sui sagrati del Duomo di Milano e della Cattedrale di San Petronio di Bologna con tutta la forza della sua nozione dura, combattente, della fede coranica, e con tutto il prestigio derivante da una mancata, visibile risposta. Vivace si muove l'attacco verso un Papa che ha sfidato il monopolio dei razionalisti sulla ragione e dei fideisti sulla fede. Poggiando su potenti gaffe curiali, e sull'evidente incompetenza di chi consiglia il Papa in affari decisivi come il rapporto con gli ebrei, il ritratto di Benedetto XVI viene ridipinto a tinte fosche nel palcoscenico mondiale. L'obiettivo è distruggere la connessione tra ellenismo, giudaismo e cristianesimo ristabilita con sottigliezza teologica e pastorale dal successore di Giovanni Paolo II. E infrangere la sua pretesa di definire un nuovo illuminismo cristiano basato sulla convivenza concorde di ragione e fede. Dalla bioetica alla convivenza multiculturale, dal dialogo con gli ebrei, che dopo il Concilio Vaticano II è fondativo della fede cristiana, alla riflessione sui temini nuovi della laicità, su tutto l'orizzonte infuria la libecciata progressista.
Editoriale de Il Foglio, del 27 gennaio 2009
Editoriale de Il Foglio, del 27 gennaio 2009
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