Col pretesto dei diritti degli utenti si creano solo burocrazie e censure.
Stefano Rodotà, in un torrenziale intervento su Repubblica, sostiene che debbono essere meglio garantiti i diritti degli utenti di Internet, sottoposti alle vessazioni della pubblicità molesta. E’ vero che l’uso spregiudicato dei dati personali da parte di varie agenzie che vendono elenchi di indirizzi e-mail è la fonte di fastidiose intromissioni nella posta elettronica personale. Ma, in realtà, quando si parla di diritti nella comunicazione informatica è evidente che il vero problema è rappresentato da quei governi che agiscono per censurare la libera espressione del pensiero, a cominciare da quello di Pechino, che ha persino indotto o costretto a collaborare grandi compagnie di comunicazione informatica come Google. Rodotà sostiene che i codici di autoregolamentazione affiderebbero ai privati la tutela di un diritto “pubblico”. Per la verità gli interventi statali o sovranazionali in tutela della privacy, finora, si sono solo tradotti in un carico burocratico supplettivo, mentre non hanno per nulla protetto la privacy, evitando ad esempio che le intercettazioni delle conversazioni private venissero pubblicate integralmente sui giornali. Infine l’idea che ad amministrare la protezione dei diritti in Internet sia una specie di Spektre giudiziaria mondiale che Rodotà chiama “global community of courts” fa venire i brividi. Chissà che non ne facciano parte anche gli zelanti sostenitori della sharia al potere in Iran. Qualcuno è disposto ad affidare loro la tutela dei suoi diritti? D’altra parte l’irritazione degli utenti Internet per lo spam ha già spinto le principali compagnie a stilare regole per contrastare il fenomeno, la tecnologia sta elaborando nuovi sistemi di difesa. La felice anarchia degli internauti, nata senza intromissioni statali, è cresciuta a dismisura fino a oggi. Vuol dire che la libertà si espande, e non ha bisogno di tutori burocratici o istituzionali, che come dimostrano i precedenti, sanno solo creare nuove pastoie.
da Il Foglio di oggi
21 novembre 2007
20 novembre 2007
Il maoismo di Berlusconi
La svolta movimentista sistema molte pendenze salvo una: l’alternanza.
Berlusconi aveva preso per tempo la decisione di bombardare il quartier generale del centro destra, compresa la sua Forza Italia, e alla fine ha varcato la linea rossa. Faccio un nuovo partito, ha spiegato dettando la svolta a un megafono, lo legittimo nel rapporto personale con il popolo elettore che chiamo a raccolta per mandare a casa Prodi, mi emancipo dalle costrizioni della mia vecchia alleanza rimettendo a posto rivali insidiosi, e discuto una legge proporzionale con il Partito democratico anche per correre da solo. Nell’annuncio di domenica al gazebo c’era lo sbocco di un progetto che avevamo raccontato ai lettori nella primavera scorsa, quando emerse alla luce in modo credibile il fenomeno-spia di una Michela Vittoria Brambilla, la giovane leader dei Circoli della libertà che aveva ricevuto dal Cav. un mandato analogo a quello delle guardie rosse sotto Mao, violenza esclusa, e imponenti risorse per assolverlo. Con una mobilitazione di successo, paragonabile nei numeri della partecipazione alle primarie del Pd, e una correzione di rotta di 180 gradi, realizzata nelle forme tipiche dello showman che conosciamo, Berlusconi non ha solo dato soddisfazione alla sua impazienza verso alleati malmostosi e infidi, ha anche determinato una situazione politica integralmente nuova. In simmetria perfetta con la nascita del Pd leggero e leaderista, che aveva mutuato dal berlusconismo l’essenza della propria forma e la vocazione maggioritaria autosufficiente, il Cav. ha sancito la fine degli unionismi, dei coalizionismi forzati, sia a destra sia a sinistra. Nella lettura delle novità e dei sondaggi, quell’imprenditore della politica, all’origine di una delle più straordinarie avventure del potere europeo e occidentale da molti decenni a questa parte, è secondo a nessuno. Nel nuovo schema berlusconiano c’è spazio per negoziare il sistema tedesco, fondato su un solido sbarramento contro le formazioni minori; qualche diffidenza verso la correzione blandamente maggioritaria della riforma Veltroni-Vassallo, che offre un diritto di tribuna consistente ai partiti radicati in un territorio circoscritto; qualche possibile apertura verso il referendum, che come tutti sanno porterebbe sulla carta a un maggioritario bipartitico in cui il premio è secco e spetta a chi arriva primo, al partito di maggioranza relativa non apparentato ad alcun altro. Ma al di là dei tecnicismi, il senso della svolta è semplice, dal punto di vista di Berlusconi: Prodi ha fallito, l’Unione è in smantellamento, Veltroni ha bisogno di una prova elettorale a breve, penso di poterla sostenere vittoriosamente, e comunque in casa mia comando io in stretta relazione con un’opinione popolare che padroneggio senza fatica e non i leader di centrodestra che ho salvato dalla marginalità e coltivano smodate ambizioni alle mie spalle, infliggendomi colpi traversi sia quando sono al governo sia quando sono all’opposizione. Oltretutto, nel nuovo sistema, soprattutto se riportato a rapporti di forza proporzionali tra i partiti, vincere e perdere diventa un concetto relativo, e la posizione centrale di un partito del popolo e delle libertà garantisce comunque lunga vita e larga influenza a chi ha i voti, cioè a Berlusconi in persona. L’ironia della storia è buffa e anche spietata: si sta ricostruendo nella sostanza la Prima Repubblica, e si sta smantellando il bipolarismo composito e fazioso della lunga transizione, mentre le querce e le margherite e le forze italie si trasformano ribattezzandosi come partiti, ma il tutto avviene nel segno dell’appello al popolo e alla democrazia dei cittadini, tra primarie e gazebo che tagliano la testa alle vecchie nomenclature delle tessere e degli apparati. Quanto all’alternanza alla guida dello stato e al famoso diritto elettorale di scegliere il governo nelle urne, li salvi chi può.
da Il Foglio di oggi
Berlusconi aveva preso per tempo la decisione di bombardare il quartier generale del centro destra, compresa la sua Forza Italia, e alla fine ha varcato la linea rossa. Faccio un nuovo partito, ha spiegato dettando la svolta a un megafono, lo legittimo nel rapporto personale con il popolo elettore che chiamo a raccolta per mandare a casa Prodi, mi emancipo dalle costrizioni della mia vecchia alleanza rimettendo a posto rivali insidiosi, e discuto una legge proporzionale con il Partito democratico anche per correre da solo. Nell’annuncio di domenica al gazebo c’era lo sbocco di un progetto che avevamo raccontato ai lettori nella primavera scorsa, quando emerse alla luce in modo credibile il fenomeno-spia di una Michela Vittoria Brambilla, la giovane leader dei Circoli della libertà che aveva ricevuto dal Cav. un mandato analogo a quello delle guardie rosse sotto Mao, violenza esclusa, e imponenti risorse per assolverlo. Con una mobilitazione di successo, paragonabile nei numeri della partecipazione alle primarie del Pd, e una correzione di rotta di 180 gradi, realizzata nelle forme tipiche dello showman che conosciamo, Berlusconi non ha solo dato soddisfazione alla sua impazienza verso alleati malmostosi e infidi, ha anche determinato una situazione politica integralmente nuova. In simmetria perfetta con la nascita del Pd leggero e leaderista, che aveva mutuato dal berlusconismo l’essenza della propria forma e la vocazione maggioritaria autosufficiente, il Cav. ha sancito la fine degli unionismi, dei coalizionismi forzati, sia a destra sia a sinistra. Nella lettura delle novità e dei sondaggi, quell’imprenditore della politica, all’origine di una delle più straordinarie avventure del potere europeo e occidentale da molti decenni a questa parte, è secondo a nessuno. Nel nuovo schema berlusconiano c’è spazio per negoziare il sistema tedesco, fondato su un solido sbarramento contro le formazioni minori; qualche diffidenza verso la correzione blandamente maggioritaria della riforma Veltroni-Vassallo, che offre un diritto di tribuna consistente ai partiti radicati in un territorio circoscritto; qualche possibile apertura verso il referendum, che come tutti sanno porterebbe sulla carta a un maggioritario bipartitico in cui il premio è secco e spetta a chi arriva primo, al partito di maggioranza relativa non apparentato ad alcun altro. Ma al di là dei tecnicismi, il senso della svolta è semplice, dal punto di vista di Berlusconi: Prodi ha fallito, l’Unione è in smantellamento, Veltroni ha bisogno di una prova elettorale a breve, penso di poterla sostenere vittoriosamente, e comunque in casa mia comando io in stretta relazione con un’opinione popolare che padroneggio senza fatica e non i leader di centrodestra che ho salvato dalla marginalità e coltivano smodate ambizioni alle mie spalle, infliggendomi colpi traversi sia quando sono al governo sia quando sono all’opposizione. Oltretutto, nel nuovo sistema, soprattutto se riportato a rapporti di forza proporzionali tra i partiti, vincere e perdere diventa un concetto relativo, e la posizione centrale di un partito del popolo e delle libertà garantisce comunque lunga vita e larga influenza a chi ha i voti, cioè a Berlusconi in persona. L’ironia della storia è buffa e anche spietata: si sta ricostruendo nella sostanza la Prima Repubblica, e si sta smantellando il bipolarismo composito e fazioso della lunga transizione, mentre le querce e le margherite e le forze italie si trasformano ribattezzandosi come partiti, ma il tutto avviene nel segno dell’appello al popolo e alla democrazia dei cittadini, tra primarie e gazebo che tagliano la testa alle vecchie nomenclature delle tessere e degli apparati. Quanto all’alternanza alla guida dello stato e al famoso diritto elettorale di scegliere il governo nelle urne, li salvi chi può.
da Il Foglio di oggi
08 novembre 2007
Roma chiama Italia, modello Veltroni
Oggi, alle 15.50 su Rai Uno, nel corso di una trasmissione dedicata alla sicurezza sulle due ruote, lo speaker ha comunicato che la Honda esperimenta le proprie innovazioni sulle moto a Roma, considerata la città con il peggiore manto stradale al mondo a causa dello stato dell'asfalto, buche, sanpietrini e morfologia collinare. Fatta eccezione per l'ultima connotazione, tutto il resto è ascrivibile a merito della giunta Veltroni. Siamo in fremente attesa di potere godere degli stessi privilegi in tutto il resto della penisola.
06 novembre 2007
Li come Liedholm
Sapeva allenare con lo sguardo, con l’accento e con lo stile. Campione che inventava campioni.
Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Francesco Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 –. Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.
“Non lo vedevi ma lo sentivi”.
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabbiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma. Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevamo come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Ancelotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
di Claudio Cerasa, su Il Foglio di oggi
Avremmo voluto che non morisse mai, magari acciaccato nella sua bella casa di Cuccaro, ma vivo a dispensare barlumi di saggezza ed ironia. Il vecchio caro Lidas è stato uno dei maestri del calcio Italiano, giocatore tatticamente fondamentale sia da mezzala del Grenoli che mediano di spinta all'arrivo del Pepe Schiaffino. Ho ancora negli occhi giovincelli, in un settembre del '54 , all'avvio di campionato, un Milan-Triestina 4 a 0 con l'esordio dell'ufo uruguagio ed il Barone per la prima volta mediano, un giovanotto arrivato da Trieste, Cesarino Maldini, un argentino cedutoci dalla Juve, Ricagni, genialoide goleador. Calcio paradisiaco, geometrie disegnate con il compasso, naturalmente campioni d'Italia a fine anno. Presidente Andrea Rizzoli, allenatore Testina Puricelli. Anni di godimento degli occhi e della mente, con il Barone a predicare calcio razionale, puntuale, elegante, sempre a testa alta a ricevere palla dai compagni come una cassaforte e redistribuirla per le volate vincenti. Smise oltre i 40, sempre in maglia rossonera. Poi fece di mestiere quello che la natura gli aveva dato in dote naturale: il maestro-allenatore. Inventò la zona all'italiana. Gran possesso di palla, tecnica sopraffina, difesa impenetrabile, estro in attacco. Spezzò il pane della scienza nella sua Milano, a Verona, Firenze e soprattutto a Roma con il suo Aladino Falcao e con quel genio sulla fascia che di nome faceva Bruno Conti. Tornò a Milano per vincere la stella e poi, ormai vecchio, nel primo Milan berlusconiano, ove si trovò ad operare con le scelte di mercato italiane del Cavaliere, invero mediocri. Finì con un grave gesto di intimidazione, una bomba carta contro la sua panchina lanciata dal parterre, dopo una sconfitta interna con l'Avellino. Esonerato dal Berlusca e sostituito da un giovanotto con i denti aguzzi: Capello. Una brutta pagina finale per una gloria milanista che non cancella lustri di ammirazione, rispetto, godimento per gli occhi e per la mente, innovazione tattica, capacità di insegnamento a decine di giovani che hanno calcato con profitto i campi della Serie A.
Grazie Lidas, incomparabile maestro di vita.
E che le zolle ti siano lievi.
Gre, No, Li, e poi Rivera, Ancelotti, Pruzzo, Capello, Baresi, Maldini, Conti e ora Totti. Era naturale, quasi automatico: la squadra saliva, quattro rimanevano indietro, quattro si fermavano al centro e due lì, che aspettavano davanti. Era la Roma, il Milan, la Fiorentina, il Varese, il Monza, il Verona, erano gli ottantacinque anni di Nils Liedholm, il maestro, morto ieri, con cui il Milan vinse lo scudetto della Stella: il decimo, quello con il rosso del diavolo e quello con gli occhi del Barone. Era la maglietta giallo, rosso e Barilla di Bruno Conti, quella della Roma del 1983, del primo anno dopo il Mondiale spagnolo e dell’anno della Coppa Campioni all’Olimpico persa sul dischetto con i diavoli del Liverpool; quella Roma con cui Liedholm vinse lo scudetto e che l’allenatore svedese avrebbe ritrovato nel 1996 con i vent’anni e i capelli corti di Francesco Totti. Era Nils Liedholm, era la zona disegnata senza lavagne, senza gessetti, senza uomo da seguire, era la rivoluzione con quel dribbling che non era mai un peccato, con il fantasista che doveva fare il quarto in difesa e che Liedholm invece no, prima della partita lo fermava, lo prendeva e gli diceva sì, tu giochi al centro, giochi un po’ più avanti. E lo faceva con Di Bartolomei (alla Roma) e lo avrebbe fatto, oggi, anche con Andrea Pirlo, al Milan. “Lo guardavi e tremavi. Poi però sorrideva – dice Roberto Pruzzo, bomber della Roma di Liedholm dal 1980 al 1984 –. Ero io che la sera lo riaccompagnavo a casa in macchina: e lui era sincero, ti difendeva sempre, aveva un grande ascendente sulla stampa, si divertiva molto con quel suo accento che sembrava sempre così poco italiano. Era il suo stile, aveva cambiato il calcio con la qualità e senza catenacci. Era anglosassone, scopriva i talenti. Scoprì Falcao, scoprì Cerezo, e ne scoprì tanti, scoprì anche me; ed era bello, perché allenava semplicemente con lo sguardo”.
“Non lo vedevi ma lo sentivi”.
Diceva così, diceva ancora forza Roma, forza Milan il “Li” del Gre-No-Li; era arrivato in Italia dalla Svezia, era arrivato al Milan con Gunnar Gren, Gunnar Nordahl, erano loro i Tre; tre come gli olandesi Gullit, Van Basten e Rijkaard, tre come quei capitani del Milan passati accanto al Barone Nils: quindi Rivera, Baresi e Paolo Maldini. Sembrava qualcosa di più però, Nils. “Era impressionante. Lo guardavi e aveva qualcosa di più. Era il grande capitano del Milan, era il fenomeno con quella fascia grande grande, era il campione che inventava campioni, era quello che tu guardavi e lui non parlava, ma ti dava sicurezza; non lo vedevi ma lo sentivi. E tu crescevi, e lui ti spiegava. Dolce, non duro. Sembrava un vescovo. Allenava, insegnava. Nils giocava con noi, scendeva in campo con i giocatori: si allenava, tirava in porta, poi esultava. Eravamo il Milan, eravamo una squadra: allenatore e giocatore. Tutti insieme. Era così anche a Firenze. E lui non era come qualcun altro oggi: non era uno che metteva un terzino a centrocampo, o un’ala in difesa. Lui conosceva i ruoli, e li rispettava. Al massimo li inventava, i ruoli. Perché il libero vero è quello che fu fatto da Liedholm: ed è vero, con lui c’era anche molta libertà: se c’era un dribbling si sorrideva, non ci si arrabbiava. E poi mai un errore, mai un problema, mai uno scandalo, lui. Era la zona, quella di Nils, ma sembrava la rivoluzione”, dice al Foglio Nevio Scala, scoperto a Milanello nel maggio del 1963 proprio da Liedholm e suo grande allievo in quegli indimenticabili sei anni passati da Scala come allenatore del Parma. Il vescovo. Il maestro. Entrava così, con il pallone sotto braccio, con i capelli tirati indietro, con la testa alta, gli occhi giù in basso, le gambe lunghe, il sorriso, la maglia col collo a V. Funzionava così, in campo con Nils. “Sapevamo come muoverci, ma dovevamo decidere noi in campo. Perché noi eravamo diventati professionisti per scelta, non per obbligo. E Nils voleva i piedi buoni, i passaggi, le marcature non fisse, il possesso palla. Ma soprattutto, in campo, voleva allenatori”, scrive Gianni Rivera nell’introduzione del libro “Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio”. Perché Liedholm ha attraversato la prima e la seconda repubblica del pallone rimanendo sempre l’allenatore più antico: quello che ha inventato un calcio quasi impossibile, con quindici tocchi a centrocampo, con i passaggi fitti fittti e con un calcio con cui – da allenatore – ha vinto in fondo solo uno scudetto a Milano e uno a Roma. Ma è questo il calcio poi ereditato da Arrigo Sacchi, da Capello, da Ancelotti. Il calcio veloce, quasi impossibile di Zeman, il calcio con la squadra che saliva, i quattro indietro, i quattro al centro e quei due lì davanti e con quella rivoluzione così antica che anche ora che è scomparso, Nils continuerà a inventare il pallone del futuro, ancora per un po’.
di Claudio Cerasa, su Il Foglio di oggi
Avremmo voluto che non morisse mai, magari acciaccato nella sua bella casa di Cuccaro, ma vivo a dispensare barlumi di saggezza ed ironia. Il vecchio caro Lidas è stato uno dei maestri del calcio Italiano, giocatore tatticamente fondamentale sia da mezzala del Grenoli che mediano di spinta all'arrivo del Pepe Schiaffino. Ho ancora negli occhi giovincelli, in un settembre del '54 , all'avvio di campionato, un Milan-Triestina 4 a 0 con l'esordio dell'ufo uruguagio ed il Barone per la prima volta mediano, un giovanotto arrivato da Trieste, Cesarino Maldini, un argentino cedutoci dalla Juve, Ricagni, genialoide goleador. Calcio paradisiaco, geometrie disegnate con il compasso, naturalmente campioni d'Italia a fine anno. Presidente Andrea Rizzoli, allenatore Testina Puricelli. Anni di godimento degli occhi e della mente, con il Barone a predicare calcio razionale, puntuale, elegante, sempre a testa alta a ricevere palla dai compagni come una cassaforte e redistribuirla per le volate vincenti. Smise oltre i 40, sempre in maglia rossonera. Poi fece di mestiere quello che la natura gli aveva dato in dote naturale: il maestro-allenatore. Inventò la zona all'italiana. Gran possesso di palla, tecnica sopraffina, difesa impenetrabile, estro in attacco. Spezzò il pane della scienza nella sua Milano, a Verona, Firenze e soprattutto a Roma con il suo Aladino Falcao e con quel genio sulla fascia che di nome faceva Bruno Conti. Tornò a Milano per vincere la stella e poi, ormai vecchio, nel primo Milan berlusconiano, ove si trovò ad operare con le scelte di mercato italiane del Cavaliere, invero mediocri. Finì con un grave gesto di intimidazione, una bomba carta contro la sua panchina lanciata dal parterre, dopo una sconfitta interna con l'Avellino. Esonerato dal Berlusca e sostituito da un giovanotto con i denti aguzzi: Capello. Una brutta pagina finale per una gloria milanista che non cancella lustri di ammirazione, rispetto, godimento per gli occhi e per la mente, innovazione tattica, capacità di insegnamento a decine di giovani che hanno calcato con profitto i campi della Serie A.
Grazie Lidas, incomparabile maestro di vita.
E che le zolle ti siano lievi.
05 novembre 2007
Di Rom si muore
Una donna a Roma è stata barbaramente trucidata da uno zingaro, forse pazzo, forse ubriaco.
Le anime belle, dopo centinaia di episodi simili, di ruberie metodiche nelle periferie delle metropoli, di degrado come scelta di vita di queste comunità, hanno deciso che è il momento di dire basta.
Su ordine di Veltroni, attento all'immagine patinata della Roma che governa, si è scatenata una campagna mediatica contenente minacce di espulsioni immediate, processi-lampo, detenzioni sicure. Il governo ha provveduto con esemplare rapidità, con un decreto di nanetto Amato. Esecutori del giro di vite questori, e qui mi fido, e magistrati (aspettiamoci severe condanne ad anni di residence vista mare).
La beffa è sentire che la Romania, patria della più numerosa comunità di zingari itineranti, è uno dei paesi più sicuri d'Europa, mentre l'Italia è il ventre molle d'Europa dove chiunque, malintenzionato, si può stabilire liberamente, delinquere e farla franca.
Ogni qualche mese, dopo una catena di crimini odiosi e di sopraffazioni al diritto di vivere in pace degli Italiani, esce con un grande tramestio un decreto "facite la faccia feroce".
Nessun sollievo per il paese e nessun problema per i delinquenti. Gli antidoti sono ovunque: burocrazia, magistratura, sinistra radicale, cattocomunisti perbenisti.
Questa è la storia della presenza Rom in Italia, così come degli islamici e dell'umanità varia cacciata dalla Germania, Francia e persino Spagna.
Si controbatte che gli immigrati sono una risorsa. Vero. Ma parliamo, a titolo di esempio, di filippini, polacchi, ucraini, sudamericani, fra le cui fila i delinquenti sono l'eccezione statistica di tutte le comunità umane. Gli altri, per ragioni diverse, sono una minaccia perché rifiutano l'integrazione nel paese che li ospita, perché della loro cultura fanno una corazza impenetrabile.
Quando le cose stanno così, un Paese ha il diritto di difendersi con il rifiuto dell'ospitalità.
Da noi invece solo chiacchiere ed una falso solidarismo.
Possiamo giusto aspettarci di essere integrati da loro, o un rigurgito di razzismo violento.
In tutti i casi, sintomi di una incapacità di governare i fenomeni di mobilità del terzo millennio.
PS: Leggo che in Sicilia non ci sono che sporadiche comunità di Rom. È più efficace la malavita dello stato?
Le anime belle, dopo centinaia di episodi simili, di ruberie metodiche nelle periferie delle metropoli, di degrado come scelta di vita di queste comunità, hanno deciso che è il momento di dire basta.
Su ordine di Veltroni, attento all'immagine patinata della Roma che governa, si è scatenata una campagna mediatica contenente minacce di espulsioni immediate, processi-lampo, detenzioni sicure. Il governo ha provveduto con esemplare rapidità, con un decreto di nanetto Amato. Esecutori del giro di vite questori, e qui mi fido, e magistrati (aspettiamoci severe condanne ad anni di residence vista mare).
La beffa è sentire che la Romania, patria della più numerosa comunità di zingari itineranti, è uno dei paesi più sicuri d'Europa, mentre l'Italia è il ventre molle d'Europa dove chiunque, malintenzionato, si può stabilire liberamente, delinquere e farla franca.
Ogni qualche mese, dopo una catena di crimini odiosi e di sopraffazioni al diritto di vivere in pace degli Italiani, esce con un grande tramestio un decreto "facite la faccia feroce".
Nessun sollievo per il paese e nessun problema per i delinquenti. Gli antidoti sono ovunque: burocrazia, magistratura, sinistra radicale, cattocomunisti perbenisti.
Questa è la storia della presenza Rom in Italia, così come degli islamici e dell'umanità varia cacciata dalla Germania, Francia e persino Spagna.
Si controbatte che gli immigrati sono una risorsa. Vero. Ma parliamo, a titolo di esempio, di filippini, polacchi, ucraini, sudamericani, fra le cui fila i delinquenti sono l'eccezione statistica di tutte le comunità umane. Gli altri, per ragioni diverse, sono una minaccia perché rifiutano l'integrazione nel paese che li ospita, perché della loro cultura fanno una corazza impenetrabile.
Quando le cose stanno così, un Paese ha il diritto di difendersi con il rifiuto dell'ospitalità.
Da noi invece solo chiacchiere ed una falso solidarismo.
Possiamo giusto aspettarci di essere integrati da loro, o un rigurgito di razzismo violento.
In tutti i casi, sintomi di una incapacità di governare i fenomeni di mobilità del terzo millennio.
PS: Leggo che in Sicilia non ci sono che sporadiche comunità di Rom. È più efficace la malavita dello stato?
Il cosiddetto Derby d'Italia
Viene chiamata con una definizione del genio Breriano la partita fra bianconeri e nerocelesti. Una volta era decisiva per lo scudetto ma, da almeno vent'anni, per cause diverse (era morattiana ante commissario Rossi e scandalo di Lucianone) conta solo per le botte che si scambiano generosamente in campo i contendenti ed i veleni dello spogliatoio.
Ieri sera è finita pari, 1-1. Partita bruttina, gioco paesano, botte quanto basta per tenere alta la tradizione.
Eppure la partita ha detto qualche cosa di importante.
La Juve ha recuperato grazie ai suoi vecchi fuoriclasse, quelli salvatisi dallo scippo morattiano-iberico e da qualche giovanotto pescato in quel meraviglioso vivaio che Lucianone aveva costruito.
I nuovi, voluti dalla dirigenza post-moggiana, non valgono il prezzo del biglietto del tram. Dimostrazione lampante che nel calcio non bastano i soldi (vero Galliani?) ma occorrono competenze, conoscenze, ma anche cellulari ed arbitri amici.
L'Inter ha mostrato crepe sorprendenti. La difesa, se aggredita con rabbia, va pericolosamente in affanno e si rifugia nel pestaggio scientifico. Il proboscidone bosniaco è un fenomeno quando ha un metro di spazio. Marcato a uomo, si trasforma in un fantasmino insolente.
Un'ultima considerazione ed una rivalutazione dell'intuito di Galliani. Suazo è un brocco veloce. Solo la bulimia di Moratti poteva strapparcelo per 30 miliardi.
PS: Da ieri il piazzale di San Siro si chiama Angelo Moratti.
È ora di costruirci un nuovo stadio.
Analisi sentimentale di una partita di calcio, di Er Go’ de Turone
Niente da fare, alla fine la sento anch’io, come se fosse una partita speciale. Sarà la voglia di rivincita, il desiderio di dimostrarci ancora vivi. La vivo anch’io come un’attesa diversa dalle altre. Forse, a pensarci bene, sarà anche per quei 3 dati che ho letto nel pomeriggio su un giornale (bianco, ovviamente). Le statistiche erano queste. Ultimo scudetto conteso tra le 2: 2005, Juve sul campo, Inter a tavolino. Ultima vittoria dell’Inter in quello stadio: 1983, 3-3 sul campo, 0-2 a tavolino. Vittoria con maggior scarto: 9-1 Juve, Inter in campo con i primavera. Cosa c’entra quest’ultima? Beh, facile. Perchè l’Inter era scesa in campo con i giovani? Per protesta, perchè volevano la vittoria a tavolino, e invece era stata ordinata la ripetizione di una partita sospesa per invasione. Allora si’, guardo quei dati e un po’ rido, un po’ comincia a salire la tensione. Arrivo al pub, qui a Bruxelles, alle 20. Sono il primo. Il grande schermo è occupato dal football americano, da non crederci. Ma forse hanno ragione loro, Juve-Inter non ha motivo per essere una partita speciale: in Europa l’Inter non ha lasciato grandi ricordi negli ultimi 40 anni, e di signori anziani che possano ricordare Mazzola e Corso, nel pub ce ne sono proprio pochi. Vado in una delle sale dove trasmetteranno la partita, ovviamente sono il primo. Pian piano arriva gente, con uno sguardo cerco di capire che tipi sono, per chi tiferanno. Più juventini, direi. La vediamo con sky, quindi ho modo di vedere l’abbraccio dei tifosi al pullman bianconero, l’augurio della curva (Montero torna per Ibra!), i cori, i fischi. Sale, la tensione, sale. Il pullman dell’Inter, bloccato dai tifosi juventini, è in ritardo, cosi dicono. La partita comincia in ritardo. Ecco qua, penso io. Vincono a tavolino. La partita è equilibrata, il fuorigioco è utile ma pericoloso, ed ecco che ne fanno uno, che rischiano di farne un altro. Ma Ibra, troppo tifoso nerazzurro, si emoziona e si fa anticipare a porta vuota. Secondo tempo, la Juve è calata, quasi assente. Loro rischiano di dilagare in contropiede. Esce Cruz, uno lento, ma che segna ogni 2 occasioni. Entra Suazo, uno velocissimo, ma che non segna neanche a porta vuota. Meglio cosi. Altra grande intuizione di Mancini. Fuori Figo, dentro Burdisso. Bravo, l’uomo che vince sempre. Da noi, invece, entra Camoranesi, unico fuoriclasse in campo tra tutte e due le squadre, fa 3 dribbling in un minuto, cambia la partita. Palladino, che tanti juventini criticano e io davvero non capisco perchè, da tutta la partita salta Maicon senza problemi, lo frega un’altra volta e mette al centro, poi Iaquinta, Camoranesi… Gol. Gol, si. Abbiamo segnato. Un anno e mezzo dopo, riecco quella scena. Si abbracciano tutti. E’ giusto cosi, visto che loro non hanno allenatore, mentre noi abbiamo meno qualità, ma una tonnellata di carattere in più. Sono felice. mi spiace solo per Bergomi, lo sento un po’ giù e proprio non capisco perchè. L’Inter è più forte, niente da dire. Non ha un briciolo del carattere della Juve capelliana, ma è forte. Prova a vincere nonostante il suo allenatore, il che è comunque lodevole. Sono felice per un pareggio contro l’Inter, e qui chi ha il compito di rifare grande la nostra Juve si fermi magari a leggere queste due righe. Facciano il possibile, al più presto, per riportare le cose al proprio posto. Perchè Juve-Inter ieri per noi era una partita speciale, mentre nei 100 anni precedenti speciale lo era stata solo per loro, perchè quella domenica affrontavano i più forti. Perchè ieri, dopo un pareggio in casa, eravamo a festeggiare per un punto guadagnato. Mentre da quando esiste il calcio, un pareggio in casa contro l’Inter vuol dire solo due punti persi. Poche chiacchiere, allora, e al lavoro. Sin da gennaio. Per ora, accontentiamoci di Moratti e dei suoi arbitri "eccessivamente bravi", del "pareggio ingiusto" di Mancini, delle mani sulla testa di Cambiasso scandalizzato per una decisione arbitrale, ovviamente del tutto corretta. E teniamoci Ranieri e Molinaro, che non saranno Lippi e Zambrotta, ma hanno fatto togliere un ammonizione a un avversario. E ci hanno aiutato a ricordare, in una serata dove tutto sembrava essere invertito, che la Juve in fondo è sempre la Juve, e l’Inter è sempre l’Inter. Al di là del risultato, e di quel punto guadagnato in una partita speciale, che dall’anno prossimo deve tornare ad essere solo due punti persi, in una partita normale. Forza Juve. I love football.
dal blog Camillo, di Christian Rocca
Ieri sera è finita pari, 1-1. Partita bruttina, gioco paesano, botte quanto basta per tenere alta la tradizione.
Eppure la partita ha detto qualche cosa di importante.
La Juve ha recuperato grazie ai suoi vecchi fuoriclasse, quelli salvatisi dallo scippo morattiano-iberico e da qualche giovanotto pescato in quel meraviglioso vivaio che Lucianone aveva costruito.
I nuovi, voluti dalla dirigenza post-moggiana, non valgono il prezzo del biglietto del tram. Dimostrazione lampante che nel calcio non bastano i soldi (vero Galliani?) ma occorrono competenze, conoscenze, ma anche cellulari ed arbitri amici.
L'Inter ha mostrato crepe sorprendenti. La difesa, se aggredita con rabbia, va pericolosamente in affanno e si rifugia nel pestaggio scientifico. Il proboscidone bosniaco è un fenomeno quando ha un metro di spazio. Marcato a uomo, si trasforma in un fantasmino insolente.
Un'ultima considerazione ed una rivalutazione dell'intuito di Galliani. Suazo è un brocco veloce. Solo la bulimia di Moratti poteva strapparcelo per 30 miliardi.
PS: Da ieri il piazzale di San Siro si chiama Angelo Moratti.
È ora di costruirci un nuovo stadio.
Analisi sentimentale di una partita di calcio, di Er Go’ de Turone
Niente da fare, alla fine la sento anch’io, come se fosse una partita speciale. Sarà la voglia di rivincita, il desiderio di dimostrarci ancora vivi. La vivo anch’io come un’attesa diversa dalle altre. Forse, a pensarci bene, sarà anche per quei 3 dati che ho letto nel pomeriggio su un giornale (bianco, ovviamente). Le statistiche erano queste. Ultimo scudetto conteso tra le 2: 2005, Juve sul campo, Inter a tavolino. Ultima vittoria dell’Inter in quello stadio: 1983, 3-3 sul campo, 0-2 a tavolino. Vittoria con maggior scarto: 9-1 Juve, Inter in campo con i primavera. Cosa c’entra quest’ultima? Beh, facile. Perchè l’Inter era scesa in campo con i giovani? Per protesta, perchè volevano la vittoria a tavolino, e invece era stata ordinata la ripetizione di una partita sospesa per invasione. Allora si’, guardo quei dati e un po’ rido, un po’ comincia a salire la tensione. Arrivo al pub, qui a Bruxelles, alle 20. Sono il primo. Il grande schermo è occupato dal football americano, da non crederci. Ma forse hanno ragione loro, Juve-Inter non ha motivo per essere una partita speciale: in Europa l’Inter non ha lasciato grandi ricordi negli ultimi 40 anni, e di signori anziani che possano ricordare Mazzola e Corso, nel pub ce ne sono proprio pochi. Vado in una delle sale dove trasmetteranno la partita, ovviamente sono il primo. Pian piano arriva gente, con uno sguardo cerco di capire che tipi sono, per chi tiferanno. Più juventini, direi. La vediamo con sky, quindi ho modo di vedere l’abbraccio dei tifosi al pullman bianconero, l’augurio della curva (Montero torna per Ibra!), i cori, i fischi. Sale, la tensione, sale. Il pullman dell’Inter, bloccato dai tifosi juventini, è in ritardo, cosi dicono. La partita comincia in ritardo. Ecco qua, penso io. Vincono a tavolino. La partita è equilibrata, il fuorigioco è utile ma pericoloso, ed ecco che ne fanno uno, che rischiano di farne un altro. Ma Ibra, troppo tifoso nerazzurro, si emoziona e si fa anticipare a porta vuota. Secondo tempo, la Juve è calata, quasi assente. Loro rischiano di dilagare in contropiede. Esce Cruz, uno lento, ma che segna ogni 2 occasioni. Entra Suazo, uno velocissimo, ma che non segna neanche a porta vuota. Meglio cosi. Altra grande intuizione di Mancini. Fuori Figo, dentro Burdisso. Bravo, l’uomo che vince sempre. Da noi, invece, entra Camoranesi, unico fuoriclasse in campo tra tutte e due le squadre, fa 3 dribbling in un minuto, cambia la partita. Palladino, che tanti juventini criticano e io davvero non capisco perchè, da tutta la partita salta Maicon senza problemi, lo frega un’altra volta e mette al centro, poi Iaquinta, Camoranesi… Gol. Gol, si. Abbiamo segnato. Un anno e mezzo dopo, riecco quella scena. Si abbracciano tutti. E’ giusto cosi, visto che loro non hanno allenatore, mentre noi abbiamo meno qualità, ma una tonnellata di carattere in più. Sono felice. mi spiace solo per Bergomi, lo sento un po’ giù e proprio non capisco perchè. L’Inter è più forte, niente da dire. Non ha un briciolo del carattere della Juve capelliana, ma è forte. Prova a vincere nonostante il suo allenatore, il che è comunque lodevole. Sono felice per un pareggio contro l’Inter, e qui chi ha il compito di rifare grande la nostra Juve si fermi magari a leggere queste due righe. Facciano il possibile, al più presto, per riportare le cose al proprio posto. Perchè Juve-Inter ieri per noi era una partita speciale, mentre nei 100 anni precedenti speciale lo era stata solo per loro, perchè quella domenica affrontavano i più forti. Perchè ieri, dopo un pareggio in casa, eravamo a festeggiare per un punto guadagnato. Mentre da quando esiste il calcio, un pareggio in casa contro l’Inter vuol dire solo due punti persi. Poche chiacchiere, allora, e al lavoro. Sin da gennaio. Per ora, accontentiamoci di Moratti e dei suoi arbitri "eccessivamente bravi", del "pareggio ingiusto" di Mancini, delle mani sulla testa di Cambiasso scandalizzato per una decisione arbitrale, ovviamente del tutto corretta. E teniamoci Ranieri e Molinaro, che non saranno Lippi e Zambrotta, ma hanno fatto togliere un ammonizione a un avversario. E ci hanno aiutato a ricordare, in una serata dove tutto sembrava essere invertito, che la Juve in fondo è sempre la Juve, e l’Inter è sempre l’Inter. Al di là del risultato, e di quel punto guadagnato in una partita speciale, che dall’anno prossimo deve tornare ad essere solo due punti persi, in una partita normale. Forza Juve. I love football.
dal blog Camillo, di Christian Rocca
29 ottobre 2007
Alla fine della corsa (parte seconda)
Ipotesi: i rossoneri sono già a fine corsa.
Sta evolvendosi in modo abbastanza paradossale la crisi del Milan, battuto in casa anche dalla Roma sempre con il solito 1-0. La spiegazione attuale di Berlusconi-Galliani è che non ci sono spiegazioni e proprio questo deve portare serenità. Se non ci sono cause non c'è nemmeno malattia, questo è il senso che il Milan racconta al proprio capezzale. Una situazione quasi surreale che conferma la difficoltà a capire la fine di una grande epoca da parte di chi l'ha costruita. Galliani dice ancora adesso di non saper trovare in Europa un giocatore migliore dei suoi undici titolari. Il problema non è nemmeno se ha ragione oppure no. Il problema del Milan non sono infatti gli uomini, è la squadra. Il Milan gioca con una lentezza paralizzante. Non può essere sempre colpa degli avversari che si chiudono. Loro si chiudono, ma il Milan gira intorno al muro con una riluttanza e una mancanza di risultati da far pensare allo snobismo. La partita con la Roma è stata equilibrata solo nel punteggio. Nel gioco la Roma ha avuto per trequarti gara una superiorità evidente. Non solo, ma ha mostrato anche come una squadra possa avere più soluzioni offensive indipendentemente dal modulo degli avversari. Eppure non era una Roma stellare, come non era stato straordinario il piccolo Empoli otto giorni fa. È il Milan che in questo momento non c'è più. Ma davvero è sorprendente avere difficoltà quando si hanno sulle fasce giocatori di 37 e 39 anni come Cafu e Maldini, quest'ultimo sostituito addirittura da Serginho? Davvero è sorprendente se Seedorf e Pirlo non sono sempre brillanti dal momento che non possono più saltare una partita? Il Milan non fa più turnover perché non ha più riserve. E non ne ha perché non sono all'altezza. Forse non tocca a Berlusconi e Galliani capire i problemi del Milan. Dall'interno è più difficile, si finisce per avere punti di riferimento sbagliati e si è condizionati dai sentimenti. Ma il Milan adesso gioca a una velocità non italiana. Che lo facciano grandi giocatori è certamente consolante, ma non risolve il problema.
di Mario Sconcerti, su Corriere.it
Sta evolvendosi in modo abbastanza paradossale la crisi del Milan, battuto in casa anche dalla Roma sempre con il solito 1-0. La spiegazione attuale di Berlusconi-Galliani è che non ci sono spiegazioni e proprio questo deve portare serenità. Se non ci sono cause non c'è nemmeno malattia, questo è il senso che il Milan racconta al proprio capezzale. Una situazione quasi surreale che conferma la difficoltà a capire la fine di una grande epoca da parte di chi l'ha costruita. Galliani dice ancora adesso di non saper trovare in Europa un giocatore migliore dei suoi undici titolari. Il problema non è nemmeno se ha ragione oppure no. Il problema del Milan non sono infatti gli uomini, è la squadra. Il Milan gioca con una lentezza paralizzante. Non può essere sempre colpa degli avversari che si chiudono. Loro si chiudono, ma il Milan gira intorno al muro con una riluttanza e una mancanza di risultati da far pensare allo snobismo. La partita con la Roma è stata equilibrata solo nel punteggio. Nel gioco la Roma ha avuto per trequarti gara una superiorità evidente. Non solo, ma ha mostrato anche come una squadra possa avere più soluzioni offensive indipendentemente dal modulo degli avversari. Eppure non era una Roma stellare, come non era stato straordinario il piccolo Empoli otto giorni fa. È il Milan che in questo momento non c'è più. Ma davvero è sorprendente avere difficoltà quando si hanno sulle fasce giocatori di 37 e 39 anni come Cafu e Maldini, quest'ultimo sostituito addirittura da Serginho? Davvero è sorprendente se Seedorf e Pirlo non sono sempre brillanti dal momento che non possono più saltare una partita? Il Milan non fa più turnover perché non ha più riserve. E non ne ha perché non sono all'altezza. Forse non tocca a Berlusconi e Galliani capire i problemi del Milan. Dall'interno è più difficile, si finisce per avere punti di riferimento sbagliati e si è condizionati dai sentimenti. Ma il Milan adesso gioca a una velocità non italiana. Che lo facciano grandi giocatori è certamente consolante, ma non risolve il problema.
di Mario Sconcerti, su Corriere.it
27 ottobre 2007
Letizia Moratti e la sua giunta
L'Ultimissima Cena.
Invoco un secolo di tregua per il Cenacolo di Leonardo. Da quando Dan Brown lo ha posto al centro del suo complotto planetario, per l’affresco milanese non c’è più stata pace. La polemica sull’identità del personaggio alla destra di Gesù - Giovanni o la Maddalena - ha attirato addosso al dipinto ancora più turisti. E i turisti hanno attirato ancora più smog. Circostanza smentita ieri dall’assessore alla cultura Vittorio Sgarbi, che ha addossato tutte le colpe del logorio all’improvvido pennello di Leonardo: «Quella cagata di affresco non si può danneggiare più di così». Sgarbi va capito. E’ inconcepibile che gli studiosi internazionali non abbiano neppure contemplato l’ipotesi che la figura alla destra di Gesù nell’Ultima Cena possa essere lui. Inoltre, avendo egli esaurito la lista di persone da insultare, era abbastanza prevedibile che prima o poi avrebbe cominciato ad attaccar briga con gli oggetti inanimati. Prossimamente prenderà a schiaffi un obelisco egizio e querelerà l’Everest per eccesso di freddezza nei suoi confronti. Passare in quindici anni dagli improperi a Di Pietro a quelli contro Leonardo rappresenta anche per Sgarbi un bel salto esistenziale. Ora che il più è stato fatto, avrà meno remore a definire «cagata» un canto di Dante, una sonata di Mozart o un gol di Maradona. Purtroppo non basta seppellire di letame i capolavori per passare alla storia. Fra un secolo la «cagata» di Leonardo avrà ancora torme di visitatori. Quelle di Sgarbi, invece, non interessano più a nessuno già adesso.
Massimo Gramellini, su La Stampa di oggi
Una recente indagine promossa dal Giornale ha testimoniato che il livello di gradimento del sindaco Moratti e della sua giunta è basso quasi quanto quello di Prodi. Chiunque la abbia votata rimane sempre più perplesso per le iniziative pseudoambientaliste della nuora dell'Onestone, non capendone la concreta utilità. Sporcizia crescente, microcriminalità, degrado edilizio, sono il contrappasso di una candidatura per l'Expo del 2015 di cui nessuno capisce l'importanza e la rilevanza se non i diretti interessati all'"affaire".
A tutto ciò si aggiunga il capriccio della nomina di Sgarbi all'assessorato alla cultura. L'uomo è certamente intelligente, volitivo, può vantare molti crediti (leggi condanne per querele che gli sono costate una marea di risarcimenti) nei confronti del regnante di Arcore ma, oggi, come dicono i milanesi di domani sui maleodoranti tram che talvolta devo usare, è completamente sclerato.
Se la nostra città ha qualcosa di universalmente noto ed ammirato è la leonardesca ultima cena. E' del tutto naturale che l'uomo della cultura della giunta Moratti la definisca una cagata.
Vuoi mettere i graffitari del Leonka?
Concludo con una piccola preghierina al Cavaliere, impegnato in una silenziosa ed improbabile campagna acquisti (comprare uno con il Dna democristiano è più costoso e defatigante che portare Ronaldinho a Milano). Con gli acquisti non può provvedere d'urgenza a qualche taglio a Milano? Se non proprio la Moratti almeno Sgarbi ce lo deve (come milanista aggiungo Galliani).
Invoco un secolo di tregua per il Cenacolo di Leonardo. Da quando Dan Brown lo ha posto al centro del suo complotto planetario, per l’affresco milanese non c’è più stata pace. La polemica sull’identità del personaggio alla destra di Gesù - Giovanni o la Maddalena - ha attirato addosso al dipinto ancora più turisti. E i turisti hanno attirato ancora più smog. Circostanza smentita ieri dall’assessore alla cultura Vittorio Sgarbi, che ha addossato tutte le colpe del logorio all’improvvido pennello di Leonardo: «Quella cagata di affresco non si può danneggiare più di così». Sgarbi va capito. E’ inconcepibile che gli studiosi internazionali non abbiano neppure contemplato l’ipotesi che la figura alla destra di Gesù nell’Ultima Cena possa essere lui. Inoltre, avendo egli esaurito la lista di persone da insultare, era abbastanza prevedibile che prima o poi avrebbe cominciato ad attaccar briga con gli oggetti inanimati. Prossimamente prenderà a schiaffi un obelisco egizio e querelerà l’Everest per eccesso di freddezza nei suoi confronti. Passare in quindici anni dagli improperi a Di Pietro a quelli contro Leonardo rappresenta anche per Sgarbi un bel salto esistenziale. Ora che il più è stato fatto, avrà meno remore a definire «cagata» un canto di Dante, una sonata di Mozart o un gol di Maradona. Purtroppo non basta seppellire di letame i capolavori per passare alla storia. Fra un secolo la «cagata» di Leonardo avrà ancora torme di visitatori. Quelle di Sgarbi, invece, non interessano più a nessuno già adesso.
Massimo Gramellini, su La Stampa di oggi
Una recente indagine promossa dal Giornale ha testimoniato che il livello di gradimento del sindaco Moratti e della sua giunta è basso quasi quanto quello di Prodi. Chiunque la abbia votata rimane sempre più perplesso per le iniziative pseudoambientaliste della nuora dell'Onestone, non capendone la concreta utilità. Sporcizia crescente, microcriminalità, degrado edilizio, sono il contrappasso di una candidatura per l'Expo del 2015 di cui nessuno capisce l'importanza e la rilevanza se non i diretti interessati all'"affaire".
A tutto ciò si aggiunga il capriccio della nomina di Sgarbi all'assessorato alla cultura. L'uomo è certamente intelligente, volitivo, può vantare molti crediti (leggi condanne per querele che gli sono costate una marea di risarcimenti) nei confronti del regnante di Arcore ma, oggi, come dicono i milanesi di domani sui maleodoranti tram che talvolta devo usare, è completamente sclerato.
Se la nostra città ha qualcosa di universalmente noto ed ammirato è la leonardesca ultima cena. E' del tutto naturale che l'uomo della cultura della giunta Moratti la definisca una cagata.
Vuoi mettere i graffitari del Leonka?
Concludo con una piccola preghierina al Cavaliere, impegnato in una silenziosa ed improbabile campagna acquisti (comprare uno con il Dna democristiano è più costoso e defatigante che portare Ronaldinho a Milano). Con gli acquisti non può provvedere d'urgenza a qualche taglio a Milano? Se non proprio la Moratti almeno Sgarbi ce lo deve (come milanista aggiungo Galliani).
26 ottobre 2007
El nost Milan: Baia del Re
Nasci alla Baia del Re, e nemmeno sai che significa... Quante volte ho sentito ripetermi questa frase? Nemmeno una, quasi nessuno sa che il quadrato compreso tra le vie Montegani, Palmieri, Barrili e Neera e Naviglio Pavese si chiama così, tranne qualche simpatico vecchietto o vecchietta, che forse avrebbe anche fatto carte false per andarsene, di tanto in tanto, ma dove poi non si sa, e quindi è meglio rimanere qui, che mi sono affezionato.
Ci nasci, e basta. E non ti fai nemmeno tante menate pseudo sociologiche sulla zona degradata, sulla delinquenza che domina incontrastata, sulla povertà e sull'emarginazione. E' la tua zona, sono i tuoi amici, la tua scuola materna e elementare, ma la scuola media e quella superiore non è che siano tanto distanti, questione di metri.
E' il tuo oratorio, dove giochi a pallone tutte le volte che puoi, con tutti quelli che passano di lì: partite memorabili, anche due contro due. Partite che hanno creato legami che durano, anche se non frequenti più. Pomeriggi interi a giocare a calcio balilla, bevendo le spume nere della signora T, primo ed unico esempio di autorità costituita e riconosciuta alla Baia del Re.
Sono molti dei tuoi amici, che magari rivedi dopo vent'anni e ti rimetti a parlare con loro come se avessi smesso il pomeriggio precedente: Giacobbe, diventato pugile, orgoglio della zona e non solo, per sua fortuna; Max, icona della Fossa dei Leoni, portiere imbattibile cresciuto a pane e Milan, solo un po' miope; Moreno, il sosia del conte Oliver del gruppo TNT, però migliore dell'originale negli affari; Fabrizio e quelli come lui, accasati ma ricchi di vita e di cose da raccontare.
Ci nasci, e magari ci fai il rilevatore per il censimento, perché nessuno ha il coraggio di andare in quelle case, in quei cortili. Ci vai, e non che tu sia coraggioso o incosciente. Ci vai e basta. E vedi cose indegne di un paese civile, muri ammuffiti e vecchiette barricate in casa per paura di tutto, ma anche malavitosi che si sono creati una reggia abusiva che sembra di stare in un altro mondo. Ci vai e vedi egiziani ingegneri, avvocati e fisici che sono qui a fare i sottocuochi perché si guadagna di più così e mandiamo a casa la metà dei soldi e a casa ci torneremo presto, perché qui ti trattano di merda.
Ci nasci e vadi dal balcone retate della polizia degne di un film americano, elicotteri che sorvolano la zona, strade bloccate da mezzi blindati, uomini col passamontagna che entrano dalle finestre delle case.
Ci nasci e ci vivi in strada, quando sei piccolo, in bici magari, col rischio che se sbagli strada, o ora, la bici vola via. Ma si sa, adesso è molto più pericoloso, una volta invece sì che si viveva bene.
Ci nasci e magari temi gli immigrati, ma all'epoca erano della "bassa Italia", mentre adesso sono nordafricani, cinesi, cingalesi, russi.
Ci nasci e ci fai la guerra partigiana, combatti per la libertà, e magari ci muori.
Ci nasci e la convivenza è sempre difficile, ma non te ne vai. Non puoi. Non riesci. Adesso poi che il quartiere è stato ristrutturato... O no?
Dedicato alla Baia del Re, nome attribuito alle case popolari costruite nella periferia sud di Milano in onore al comandante Umberto Nobile, che alla guida del dirigibile Italia raggiunse il polo nord con una sfortunata spedizione nel 1928, partendo proprio da qua.
di Marco Accorsi
Ci nasci, e basta. E non ti fai nemmeno tante menate pseudo sociologiche sulla zona degradata, sulla delinquenza che domina incontrastata, sulla povertà e sull'emarginazione. E' la tua zona, sono i tuoi amici, la tua scuola materna e elementare, ma la scuola media e quella superiore non è che siano tanto distanti, questione di metri.
E' il tuo oratorio, dove giochi a pallone tutte le volte che puoi, con tutti quelli che passano di lì: partite memorabili, anche due contro due. Partite che hanno creato legami che durano, anche se non frequenti più. Pomeriggi interi a giocare a calcio balilla, bevendo le spume nere della signora T, primo ed unico esempio di autorità costituita e riconosciuta alla Baia del Re.
Sono molti dei tuoi amici, che magari rivedi dopo vent'anni e ti rimetti a parlare con loro come se avessi smesso il pomeriggio precedente: Giacobbe, diventato pugile, orgoglio della zona e non solo, per sua fortuna; Max, icona della Fossa dei Leoni, portiere imbattibile cresciuto a pane e Milan, solo un po' miope; Moreno, il sosia del conte Oliver del gruppo TNT, però migliore dell'originale negli affari; Fabrizio e quelli come lui, accasati ma ricchi di vita e di cose da raccontare.
Ci nasci, e magari ci fai il rilevatore per il censimento, perché nessuno ha il coraggio di andare in quelle case, in quei cortili. Ci vai, e non che tu sia coraggioso o incosciente. Ci vai e basta. E vedi cose indegne di un paese civile, muri ammuffiti e vecchiette barricate in casa per paura di tutto, ma anche malavitosi che si sono creati una reggia abusiva che sembra di stare in un altro mondo. Ci vai e vedi egiziani ingegneri, avvocati e fisici che sono qui a fare i sottocuochi perché si guadagna di più così e mandiamo a casa la metà dei soldi e a casa ci torneremo presto, perché qui ti trattano di merda.
Ci nasci e vadi dal balcone retate della polizia degne di un film americano, elicotteri che sorvolano la zona, strade bloccate da mezzi blindati, uomini col passamontagna che entrano dalle finestre delle case.
Ci nasci e ci vivi in strada, quando sei piccolo, in bici magari, col rischio che se sbagli strada, o ora, la bici vola via. Ma si sa, adesso è molto più pericoloso, una volta invece sì che si viveva bene.
Ci nasci e magari temi gli immigrati, ma all'epoca erano della "bassa Italia", mentre adesso sono nordafricani, cinesi, cingalesi, russi.
Ci nasci e ci fai la guerra partigiana, combatti per la libertà, e magari ci muori.
Ci nasci e la convivenza è sempre difficile, ma non te ne vai. Non puoi. Non riesci. Adesso poi che il quartiere è stato ristrutturato... O no?
Dedicato alla Baia del Re, nome attribuito alle case popolari costruite nella periferia sud di Milano in onore al comandante Umberto Nobile, che alla guida del dirigibile Italia raggiunse il polo nord con una sfortunata spedizione nel 1928, partendo proprio da qua.
di Marco Accorsi
Non ci credo ancora, ma forse se ne vanno
Esigo, voce del verbo perdere: declinazione di una conferenza stampa di un premier aggrappato all’uscio.
Esigo, voce del verbo perdere. Anzi aver già perduto. C’era la profonda verità dell’epilogo nel lessico e nel volto sfinito di Prodi, mentre davanti ai microfoni esigeva, appunto, rispetto da una maggioranza che non lo regge più. In bocca a un premier nelle condizioni prodiane, esigere è una forma verbale che perde autonomia e tracima nello smarrimento. Come dire lei non sa chi sono io, come dire lei mi deve rendere conto, come promettere che ti aspetto fuori. Di regola, se non si tratta di tasse, l’esattore certifica la propria sconfitta e il rifiuto di ammetterla. Si esige la spiegazione dall’adultero, si esige la risposta a una domanda retorica. Con questo suo cedimento solitario alla rabbia indotta dalla durezza della realtà, Prodi entra una volta in più nella galleria troppo italiana in cui soggiornano quelli che non ci vogliono stare. E’ un moto scontato con una screziatura tenera, perché oggi Prodi ha il caratteristico torto del perdente ma pure delle ragioni. Ha stampato la propria faccia su un prodotto politico a scadenza ravvicinata. Ma quelli che glielo avevano fornito, i contraenti della cooperativa chiamata Unione, un contratto con lui l’avevano firmato. Generico, verboso, paralogico e incapacitante. Però il programma c’era, è stato rimpannucciato una seconda volta dopo la sfiducia del febbraio scorso. Poi è finita che nel centrosinistra ognuno s’è preso una parte di verità per smerciarla appena possibile al proprio elettore. Il Pd ha raccolto il meglio che poteva e ha già eletto il dopo Prodi senza esigere nulla.
da Il Foglio di oggi
Esigo, voce del verbo perdere. Anzi aver già perduto. C’era la profonda verità dell’epilogo nel lessico e nel volto sfinito di Prodi, mentre davanti ai microfoni esigeva, appunto, rispetto da una maggioranza che non lo regge più. In bocca a un premier nelle condizioni prodiane, esigere è una forma verbale che perde autonomia e tracima nello smarrimento. Come dire lei non sa chi sono io, come dire lei mi deve rendere conto, come promettere che ti aspetto fuori. Di regola, se non si tratta di tasse, l’esattore certifica la propria sconfitta e il rifiuto di ammetterla. Si esige la spiegazione dall’adultero, si esige la risposta a una domanda retorica. Con questo suo cedimento solitario alla rabbia indotta dalla durezza della realtà, Prodi entra una volta in più nella galleria troppo italiana in cui soggiornano quelli che non ci vogliono stare. E’ un moto scontato con una screziatura tenera, perché oggi Prodi ha il caratteristico torto del perdente ma pure delle ragioni. Ha stampato la propria faccia su un prodotto politico a scadenza ravvicinata. Ma quelli che glielo avevano fornito, i contraenti della cooperativa chiamata Unione, un contratto con lui l’avevano firmato. Generico, verboso, paralogico e incapacitante. Però il programma c’era, è stato rimpannucciato una seconda volta dopo la sfiducia del febbraio scorso. Poi è finita che nel centrosinistra ognuno s’è preso una parte di verità per smerciarla appena possibile al proprio elettore. Il Pd ha raccolto il meglio che poteva e ha già eletto il dopo Prodi senza esigere nulla.
da Il Foglio di oggi
22 ottobre 2007
Alla fine della corsa
Stop. Basta. Con il ritardo di un anno, inframezzato da una fortunosa e sviante notte magica ad Atene, la carovana Milan ieri ha alzato bandiera bianca.
Una sconfitta in casa, sebbene con una delle ultime, l'Empoli, non è una tragedia, come dice il commediante Mauro Suma. Un inizio di stagione disastroso come quello di Radice, presidenza Farina, è invece il referto di una diagnosi impietosa. La squadra è finita con i suoi ex-fuoriclasse ormai affannatti dagli anni, con il caravanserraglio di brocchi e brocchetti comprati nell'ultimo triennio, con le turbe mentali di un portiere da psicanalista, con un allenatore incapace di inventare non dico un gioco ma un semplice schema. La società è finita in una marmellata di marketing paesano, sempre più lontana dal core business sportivo, sempre più vicina allo sputannamento commerciale, al bla-bla televisivo cucito con il nulla, alle millanterie patetiche di un pelato strappato alle antenne televisive.
Quando si butta ai maiali la perla di una squadra che sino ad Ankara ha incantato il mondo, quando ci si fa trovare con il dito impiastrato di marmellata nel tentativo infantile di imitare un genio della truffa come Moggi, quando si tenta di trasformare un'impresa sportiva, che deve rispondere a puntuali dinamiche di rinnovamento, nell'album Panini delle vecchie glorie, succede tutto quello che ci ha propinato l'estate /primo autunno dell'anno di grazia 2007.
Se il fato ci fosse benevolo, ora sarebbe bene uscire dalla Coppa Europea ed andare a vedere la volontà di rifondazione della proprietà, della real casa di Arcore.
Perché la sensazione è che in villa ora comandi la figlia, che poco apprezza le dissolutezze senili del padre, specie quando queste intaccano il portafoglio ereditario.
Leggiamo le carte e se futuro gramo ha da essere, pazienza.
In fondo anche con Farina abbiamo visto in B il meraviglioso Milan di Castagner dare spettacolo.
Va tutto bene, tutto meglio di questa spocchiosa accozzaglia di indolenti ex-atleti.
Una sconfitta in casa, sebbene con una delle ultime, l'Empoli, non è una tragedia, come dice il commediante Mauro Suma. Un inizio di stagione disastroso come quello di Radice, presidenza Farina, è invece il referto di una diagnosi impietosa. La squadra è finita con i suoi ex-fuoriclasse ormai affannatti dagli anni, con il caravanserraglio di brocchi e brocchetti comprati nell'ultimo triennio, con le turbe mentali di un portiere da psicanalista, con un allenatore incapace di inventare non dico un gioco ma un semplice schema. La società è finita in una marmellata di marketing paesano, sempre più lontana dal core business sportivo, sempre più vicina allo sputannamento commerciale, al bla-bla televisivo cucito con il nulla, alle millanterie patetiche di un pelato strappato alle antenne televisive.
Quando si butta ai maiali la perla di una squadra che sino ad Ankara ha incantato il mondo, quando ci si fa trovare con il dito impiastrato di marmellata nel tentativo infantile di imitare un genio della truffa come Moggi, quando si tenta di trasformare un'impresa sportiva, che deve rispondere a puntuali dinamiche di rinnovamento, nell'album Panini delle vecchie glorie, succede tutto quello che ci ha propinato l'estate /primo autunno dell'anno di grazia 2007.
Se il fato ci fosse benevolo, ora sarebbe bene uscire dalla Coppa Europea ed andare a vedere la volontà di rifondazione della proprietà, della real casa di Arcore.
Perché la sensazione è che in villa ora comandi la figlia, che poco apprezza le dissolutezze senili del padre, specie quando queste intaccano il portafoglio ereditario.
Leggiamo le carte e se futuro gramo ha da essere, pazienza.
In fondo anche con Farina abbiamo visto in B il meraviglioso Milan di Castagner dare spettacolo.
Va tutto bene, tutto meglio di questa spocchiosa accozzaglia di indolenti ex-atleti.
18 ottobre 2007
El nost Milan: Barona
La Barona, un Bronx milanese.
Sentivo il bisogno, una volta tanto, di pubblicare il rovescio della medaglia (tutte le medaglie hanno un rovescio), le realtà scomode. Questo è un lembo di città al sud ovest di Milano, di nuova edificazione, strappando campo per campo alla campagna e demolendo le vecchie cascine (Boffalora, Barona, Moncucco, Battivacco, Cantalupa). Qui vivono più di 50.000 persone (come una piccola città di provincia), qui fino a 30 anni fa c'erano le marcite (ci sono ancora) e pascolavano le pecore. La nostra amministrazione prima ha fatto costruire le case, poi le strade (mi pare logico), poi qualche sparuto negozio, infine un paio di scuole e dopo molto tempo un ospedale. Null'altro. Cioè il nulla, un quartiere dormitorio di vecchi, di giovani disadattati, di extra comunitari. Una normale squallida solitudine urbana. Per fortuna da qualche anno sono finite le sparatorie, .... ed è comparsa la droga. Dimenticavo, buon'ultima hanno costruito anche una caserma dei Carabinieri (peccato solo che non si vedano mai in giro). Una cattedrale in un deserto. Non è ora, dopo tante promesse, di garantirci una miglior qualità della vita?
Il nostro nuovo Sindaco Letizia Moratti, appena insediato, ha dichiarato che concentrerà le sue energie per prima cosa sulle tematiche sociali, iniziando dalla Barona per fronteggiare il disagio minorile. Grazie, era ora.
dal sito di Umberto Pini, www.pbase.com/ugpini
Sentivo il bisogno, una volta tanto, di pubblicare il rovescio della medaglia (tutte le medaglie hanno un rovescio), le realtà scomode. Questo è un lembo di città al sud ovest di Milano, di nuova edificazione, strappando campo per campo alla campagna e demolendo le vecchie cascine (Boffalora, Barona, Moncucco, Battivacco, Cantalupa). Qui vivono più di 50.000 persone (come una piccola città di provincia), qui fino a 30 anni fa c'erano le marcite (ci sono ancora) e pascolavano le pecore. La nostra amministrazione prima ha fatto costruire le case, poi le strade (mi pare logico), poi qualche sparuto negozio, infine un paio di scuole e dopo molto tempo un ospedale. Null'altro. Cioè il nulla, un quartiere dormitorio di vecchi, di giovani disadattati, di extra comunitari. Una normale squallida solitudine urbana. Per fortuna da qualche anno sono finite le sparatorie, .... ed è comparsa la droga. Dimenticavo, buon'ultima hanno costruito anche una caserma dei Carabinieri (peccato solo che non si vedano mai in giro). Una cattedrale in un deserto. Non è ora, dopo tante promesse, di garantirci una miglior qualità della vita?
Il nostro nuovo Sindaco Letizia Moratti, appena insediato, ha dichiarato che concentrerà le sue energie per prima cosa sulle tematiche sociali, iniziando dalla Barona per fronteggiare il disagio minorile. Grazie, era ora.
dal sito di Umberto Pini, www.pbase.com/ugpini
17 ottobre 2007
Questa estate ho letto
La calura ispira letture leggere, divertenti, ottimiste. Non mi sono sottratto al clichè con tre libri della mia nuova fresca passione.
Andrea Vitali: Il segreto di Ortelia, Un amore di zitella, Una finestra vista lago.
Confermo un convincimento. Trattasi di un grande affabulatore, con spunti di genialità e una padronanza ritmica non frequente. Non tutto il materiale è di prima mano e l'inventiva talvolta si fa affannosa, ma per chi ama il piccolo mondo della provincia, le sue passioni, i vezzi, le crudeltà, l'opera di Vitali è irrinunciabile.
Georges Simenon: Lettera al mio giudice.
La storia cruda ed ansiosa di un assassinio-suicidio. Il meglio delle atmosfere e della filosofia di vita di Simenon. Le sue opere sembrano tutte varianti intorno al fallimento esistenziale di un uomo eppure si leggono, ognuna, con l'ansia della scoperta di una nuova vicenda diversa dalle precedenti. Forse perchè l'uomo è sempre diverso nel percorrere il suo destino già disegnato.
Alicia Gimenez-Bartlett: Nido vuoto.
Giallista anglo-spagnola di Barcellona, ha un suo folto stuolo di ammiratori. Si fa fatica ad accettare un personaggio così essenzialmente femminile, ma superata la diffidenza maschilista non si può non rimanere attratti dall'arguzia e dall'ironia di questo commissario di polizia e dai contrappassi con il suo vice Garzon, una summa dei difetti del maschio. Bella la trama che non delude i giallisti.
Sebastiano Vassalli: L'italiano.
Non posso mancare un libro di Vassalli, che purtroppo ormai non si cimenta più nei romanzi. Anche quest'opera sono racconti che ambiscono rappresentare, in un arco temporale plurisecolare, il carattere della gente italica. Non sono convinto che ci sia riuscito pienamente ma alcune pagine sono cammei imperdibili. Suggerisco: Chi, io?, Il trasformista, Si. Tu?
Andrea Vitali: Il segreto di Ortelia, Un amore di zitella, Una finestra vista lago.
Confermo un convincimento. Trattasi di un grande affabulatore, con spunti di genialità e una padronanza ritmica non frequente. Non tutto il materiale è di prima mano e l'inventiva talvolta si fa affannosa, ma per chi ama il piccolo mondo della provincia, le sue passioni, i vezzi, le crudeltà, l'opera di Vitali è irrinunciabile.
Georges Simenon: Lettera al mio giudice.
La storia cruda ed ansiosa di un assassinio-suicidio. Il meglio delle atmosfere e della filosofia di vita di Simenon. Le sue opere sembrano tutte varianti intorno al fallimento esistenziale di un uomo eppure si leggono, ognuna, con l'ansia della scoperta di una nuova vicenda diversa dalle precedenti. Forse perchè l'uomo è sempre diverso nel percorrere il suo destino già disegnato.
Alicia Gimenez-Bartlett: Nido vuoto.
Giallista anglo-spagnola di Barcellona, ha un suo folto stuolo di ammiratori. Si fa fatica ad accettare un personaggio così essenzialmente femminile, ma superata la diffidenza maschilista non si può non rimanere attratti dall'arguzia e dall'ironia di questo commissario di polizia e dai contrappassi con il suo vice Garzon, una summa dei difetti del maschio. Bella la trama che non delude i giallisti.
Sebastiano Vassalli: L'italiano.
Non posso mancare un libro di Vassalli, che purtroppo ormai non si cimenta più nei romanzi. Anche quest'opera sono racconti che ambiscono rappresentare, in un arco temporale plurisecolare, il carattere della gente italica. Non sono convinto che ci sia riuscito pienamente ma alcune pagine sono cammei imperdibili. Suggerisco: Chi, io?, Il trasformista, Si. Tu?
Walter facci dormire
Mi è venuto il prurito di commentare l'elezione di Veltroni segretario del neonato Partito Democratico ma mi è subito passato. L'uomo è talmente evanescente nella sua finta ed eucumenica bontà da non stimolare i mie istinti polemici. Per una volta mi sento d'accordo con sclero Silvio. Veltroni segretario? E chi se ne frega.
10 ottobre 2007
Ritorniamo
Causa un maldestro uso del computer, il trappolone si è quasi fuso. Qualche amico dirà immediatamente che era il minimo che ci si potesse aspettare da me.
Ora mi è stato reso incerottato, senza memorie che un'equipe italo-inglese sta tentendo di riesumare, ma funzionante.
Sfortunatamente in queste settimane non è successo nulla di bene e quindi ricominciamo da dove ci siamo lasciati.
Prodi resiste tra lazzi e frizzi, Veltroni si appresta a diventare segretario del Partito democratico, rospo Dini, stufo di astinenza, fonda un nuovo partito, la Mussolini torna in An, la Brambilla celebra in un bagno di folla la nascita ufficiale dei Circoli ma non sa a cosa servano.
Ditemi voi se questo è un paese serio!
PS: Il Milan prosegue il suo declino inesorabile in campionato e coppe. Il patron è impegnato nella preparazione di un nuovo disco e manda avanti l'ineffabile antennista brianzolo, ora insultato anche dai suoi dipendenti della curva sud.
Almeno una volta mi appoggiavo al Milan. Ora mi resta solo questo pezzo di ferro smemorato!
Ora mi è stato reso incerottato, senza memorie che un'equipe italo-inglese sta tentendo di riesumare, ma funzionante.
Sfortunatamente in queste settimane non è successo nulla di bene e quindi ricominciamo da dove ci siamo lasciati.
Prodi resiste tra lazzi e frizzi, Veltroni si appresta a diventare segretario del Partito democratico, rospo Dini, stufo di astinenza, fonda un nuovo partito, la Mussolini torna in An, la Brambilla celebra in un bagno di folla la nascita ufficiale dei Circoli ma non sa a cosa servano.
Ditemi voi se questo è un paese serio!
PS: Il Milan prosegue il suo declino inesorabile in campionato e coppe. Il patron è impegnato nella preparazione di un nuovo disco e manda avanti l'ineffabile antennista brianzolo, ora insultato anche dai suoi dipendenti della curva sud.
Almeno una volta mi appoggiavo al Milan. Ora mi resta solo questo pezzo di ferro smemorato!
26 settembre 2007
Un bel capitano
Maldini non li deve incontrare.
Il Milan batte il Benfica senza l'apporto della curva e pareggia contro il Parma con gli ultras scatenati. Giustizia è fatta. Ancora una volta si dimostra che il discorso del pubblico, soprattutto della curva vicina alla squadra, dodicesimo uomo e altre amenità, è solo una delle tante ipocrisie, tenuta in piedi da giocatori e dirigenti, perché non possono fare altrimenti, e anche dei giornalisti perché temono per la propria incolumità. Le curve sono una tassa da pagare per tutti, è evidente. Insomma, per farla breve, se i tifosi avessero davvero un ruolo decisivo, allora le squadre turche e greche dovrebbero vincere sempre la Champions. Ci risulta escano sempre al primo turno e gli avversari manco se ne accorgono dei 50.000 scalmanati; ma forse ci sbagliamo.
È diventato un luogo comune, quello dell'aiuto del pubblico. La Roma gioca divinamente e vince in casa come in trasferta; nessuna differenza di rendimento. Così come tre anni fa perdeva sempre con Bruno Conti in panchina, nonostante i 70.000; l'incitamento era lo stesso. A proposito di ex giallorossi, l'unico italiano che non è riuscito a fare carriera come allenatore in Romania è Giuseppe Giannini, cacciato dal FC Arges, squadra retrocessa grazie a lui. Bergodi invece è sempre più amato, Zenga è tornato e Pedrazzini, che faceva il vice di Walter e poi di Hagi, si prepara di esordire in Champions contro l'Arsenal, sulla panchina dello Steaua. A proposito di Romania: là i media difendono la polizia, non gli ultras. D'altronde solo in Italia potrebbe accadere una cosa del genere, con cronisti semianalfabeti che si improvvisano sociologi e cercano di giustificare tutto e tutti.
Ma torniamo alla favola della curva che ti spinge verso la vittoria: perché se Gilardino avesse segnato negli ultimi minuti avrebbe ringraziato loro; i giornali comici, o fanzine, come preferite, avrebbero scritto che senza l'apporto dei tifosi si sarebbe rimasti sul 1-1. Invece si è rimasti per davvero sull'1-1: come la mettiamo? Semplice, 35.000 oppure 65.000 fa lo stesso. Zitti oppure rumorosi, ancor di più. Se ricordiamo bene in Champions l'Inter ha otenuto un anno tre vittorie su tre senza spettatori, mentre l'anno dopo ha vinto solo due volte.
Chi davvero ci ha delusi è Maldini. Quando abbiamo letto che giovedì i giocatori rossoneri, il capitano per primo, hanno ricevuto la delegazione dei tifosi a Milanello, ci sono cadute le braccia. Ci sono giornalisti che aspettano mesi per un'intervista con un giocatore (rossonero, giallorosso, nerazzurro, non importa), invece gli scalmanati e gli sfaccendati vengono ricevuti. Bah. Quello che non capiamo è perché capitan Maldini, oppure Galliani, non abbiano detto semplicemente "Fatte quello che vi pare, noi siamo il Milan, deve essere un onore tifare per noi e starci accanto, se non vi va state a casa". Cosa cambia per una società come il Milan avere oppure no uno striscione pro Dida e Gilardino? Perché non si mette mai in difficoltà gente che si spara e si ammazza per cento biglietti gratis?
In Italia si diceva che sono rimasti tabù soltanto due argomenti, Garibaldi ed i sindacati. Sbagliato, ce ne sono tre: il terzo sono le curve. Dove sono i giornalisti coraggiosi? O si può manifestare il coraggio solo in pizzeria con gli amici? Un noto cronista é stato picchiato dagli ultras in una caldissima piazza, dovendo cambiare città. Il suo giornale, così (finto) battagliero contro la Juve che non rinnova a Del Piero (che ha 33 anni, cosa potrà mai dare a 35?), non ha scritto una riga. Su un proprio dipendente picchiato per aver fatto il suo dovere. Cosa ci possiamo allora aspettare dai dirigenti, che devono solo regalare cento biglietti, senza rimetterci il timpano, come il giornalista? Ovviamente nulla. Avanti così, facciamoci del male.
Dominique Antognoni, su La Settimana Sportiva
Il Milan batte il Benfica senza l'apporto della curva e pareggia contro il Parma con gli ultras scatenati. Giustizia è fatta. Ancora una volta si dimostra che il discorso del pubblico, soprattutto della curva vicina alla squadra, dodicesimo uomo e altre amenità, è solo una delle tante ipocrisie, tenuta in piedi da giocatori e dirigenti, perché non possono fare altrimenti, e anche dei giornalisti perché temono per la propria incolumità. Le curve sono una tassa da pagare per tutti, è evidente. Insomma, per farla breve, se i tifosi avessero davvero un ruolo decisivo, allora le squadre turche e greche dovrebbero vincere sempre la Champions. Ci risulta escano sempre al primo turno e gli avversari manco se ne accorgono dei 50.000 scalmanati; ma forse ci sbagliamo.
È diventato un luogo comune, quello dell'aiuto del pubblico. La Roma gioca divinamente e vince in casa come in trasferta; nessuna differenza di rendimento. Così come tre anni fa perdeva sempre con Bruno Conti in panchina, nonostante i 70.000; l'incitamento era lo stesso. A proposito di ex giallorossi, l'unico italiano che non è riuscito a fare carriera come allenatore in Romania è Giuseppe Giannini, cacciato dal FC Arges, squadra retrocessa grazie a lui. Bergodi invece è sempre più amato, Zenga è tornato e Pedrazzini, che faceva il vice di Walter e poi di Hagi, si prepara di esordire in Champions contro l'Arsenal, sulla panchina dello Steaua. A proposito di Romania: là i media difendono la polizia, non gli ultras. D'altronde solo in Italia potrebbe accadere una cosa del genere, con cronisti semianalfabeti che si improvvisano sociologi e cercano di giustificare tutto e tutti.
Ma torniamo alla favola della curva che ti spinge verso la vittoria: perché se Gilardino avesse segnato negli ultimi minuti avrebbe ringraziato loro; i giornali comici, o fanzine, come preferite, avrebbero scritto che senza l'apporto dei tifosi si sarebbe rimasti sul 1-1. Invece si è rimasti per davvero sull'1-1: come la mettiamo? Semplice, 35.000 oppure 65.000 fa lo stesso. Zitti oppure rumorosi, ancor di più. Se ricordiamo bene in Champions l'Inter ha otenuto un anno tre vittorie su tre senza spettatori, mentre l'anno dopo ha vinto solo due volte.
Chi davvero ci ha delusi è Maldini. Quando abbiamo letto che giovedì i giocatori rossoneri, il capitano per primo, hanno ricevuto la delegazione dei tifosi a Milanello, ci sono cadute le braccia. Ci sono giornalisti che aspettano mesi per un'intervista con un giocatore (rossonero, giallorosso, nerazzurro, non importa), invece gli scalmanati e gli sfaccendati vengono ricevuti. Bah. Quello che non capiamo è perché capitan Maldini, oppure Galliani, non abbiano detto semplicemente "Fatte quello che vi pare, noi siamo il Milan, deve essere un onore tifare per noi e starci accanto, se non vi va state a casa". Cosa cambia per una società come il Milan avere oppure no uno striscione pro Dida e Gilardino? Perché non si mette mai in difficoltà gente che si spara e si ammazza per cento biglietti gratis?
In Italia si diceva che sono rimasti tabù soltanto due argomenti, Garibaldi ed i sindacati. Sbagliato, ce ne sono tre: il terzo sono le curve. Dove sono i giornalisti coraggiosi? O si può manifestare il coraggio solo in pizzeria con gli amici? Un noto cronista é stato picchiato dagli ultras in una caldissima piazza, dovendo cambiare città. Il suo giornale, così (finto) battagliero contro la Juve che non rinnova a Del Piero (che ha 33 anni, cosa potrà mai dare a 35?), non ha scritto una riga. Su un proprio dipendente picchiato per aver fatto il suo dovere. Cosa ci possiamo allora aspettare dai dirigenti, che devono solo regalare cento biglietti, senza rimetterci il timpano, come il giornalista? Ovviamente nulla. Avanti così, facciamoci del male.
Dominique Antognoni, su La Settimana Sportiva
25 settembre 2007
Il riformismo borbonico
I preposti al nulla.
Perfino nel nome c'è un che di surreale, di Kafkiano, oltre che di ammuffitamente burocratico: "il dirigente preposto".
E' il personaggio che, in tutte le società quotate e a proprietà pubblica, a partire dai bilanci del 2007, dovrà controfirmare i conti aziendali, assumendosene la corresponsabilità penale insieme con l'amministratore delegato e prima dei semplici consiglieri di Amministrazione.
E' il tipico "ipercorrettismo" nominalistico all'italiana, buono solo a moltiplicare i moduli da riempire e le firme da apporre ma del tutto inefficace rispetto alle finalità perseguite.
Come il "responsabile della sicurezza" istituito nel '94 dalla legge 626 non ha ridotto di un millimetro l'incidenza degli infortuni sul lavoro (che ha continuato a muoversi in linea con le medie UE) ed ha solo costretto le aziende a "chiedere un favore" a qualche dirigente più disponibile o ricattabile degli altri, così il dirigente preposto non aggiungerà un lumen alla visibilità sui bilanci societari.
Cosa si vuole che ne sappia e ne capisca il "dirigente preposto", dei conti societari, più di colui che ne porta la pagatissima responsabilità? Niente.
Quegli stessi conti che beffardamente Enrico Cuccia, uno competente, parlando un giorno con un pm, definì "tutti falsi". Ma tant'è: il dirigente non serve a niente, ma la "culla del diritto", l'Italia, si è messa all'occhiello un altro fiore dell'assurdo.
da Economy di questa settimana
Perfino nel nome c'è un che di surreale, di Kafkiano, oltre che di ammuffitamente burocratico: "il dirigente preposto".
E' il personaggio che, in tutte le società quotate e a proprietà pubblica, a partire dai bilanci del 2007, dovrà controfirmare i conti aziendali, assumendosene la corresponsabilità penale insieme con l'amministratore delegato e prima dei semplici consiglieri di Amministrazione.
E' il tipico "ipercorrettismo" nominalistico all'italiana, buono solo a moltiplicare i moduli da riempire e le firme da apporre ma del tutto inefficace rispetto alle finalità perseguite.
Come il "responsabile della sicurezza" istituito nel '94 dalla legge 626 non ha ridotto di un millimetro l'incidenza degli infortuni sul lavoro (che ha continuato a muoversi in linea con le medie UE) ed ha solo costretto le aziende a "chiedere un favore" a qualche dirigente più disponibile o ricattabile degli altri, così il dirigente preposto non aggiungerà un lumen alla visibilità sui bilanci societari.
Cosa si vuole che ne sappia e ne capisca il "dirigente preposto", dei conti societari, più di colui che ne porta la pagatissima responsabilità? Niente.
Quegli stessi conti che beffardamente Enrico Cuccia, uno competente, parlando un giorno con un pm, definì "tutti falsi". Ma tant'è: il dirigente non serve a niente, ma la "culla del diritto", l'Italia, si è messa all'occhiello un altro fiore dell'assurdo.
da Economy di questa settimana
23 settembre 2007
Capire e darsi una mossa
Un paese cambiato più in fretta dei suoi leader.
Una risata vi seppellirà: il vecchio tormentone è l’incubo peggiore dei politici, e Beppe Grillo lo impersona alla perfezione. Da che mondo è mondo, il potere si regge sulla tradizione, sulla legge e sul carisma, e la classe politica italiana ha dei problemi con tutti e tre. Orfana della prima Repubblica e in perenne attesa della terza, oscilla spericolatamente tra condoni e indulti, s’indigna se un terrorista, dopo 26 anni di latitanza, viene arrestato, insulta chi è stato ucciso dalle Br, chiede il trasferimento dei magistrati scomodi, caccia i finanzieri che non obbediscono
ai ministri e quando s’avvede che i cittadini non ne possono più dello "stile italiano" si traveste da Rudolph Giuliani. Ma nella New York della tolleranza zero i governatori che vanno contromano
in autostrada finiscono dentro, mica cercano di fare i furbi fingendosi parlamentari, e quelli che lo sono non dirottano le autoambulanze per andarsene a spasso.
L’impopolarità bipartisan della nostra classe politica, da cui scaturisce il fenomeno Grillo, non apparirebbe tanto maiuscola se l’Italia non fosse così clamorosamente migliore di chi la rappresenta. Quel che i politici sembrano scordare, e ciò li porta a sottovalutare le "grillate", è che gli italiani non vivono sull’Isola dei famosi ma tirano ugualmente la cinghia; senza attendersi alcun premio si sono caricati in spalla l’euro e il deficit pubblico e ora accettano di lavorare più dei loro padri "soltanto" per pesare un po’ meno sui propri figli.
Questi cittadini sanno bene che le invettive di Grillo sono di pancia e che difficilmente quel che passa per la pancia arriva alla testa, ma una sapienza antica non deve essere scambiata per
dabbenaggine. Il comico-tribuno è il catalizzatore di un pensiero fortemente critico nei confronti del sistema politico e questo orientamento preesisteva al V-Day. Grillo, grande animale da
palcoscenico, l’ha fiutato, braccato, azzannato. Enfatizzato. La vera sorpresa di questi giorni - purtroppo, tardano ad avvedersene proprio i politici - è che i trecentomila e più che applaudono Grillo e i moltissimi cittadini che, pur non amando il comico, condividono la stessa inquietudine di fondo, sono i veri protagonisti di una commedia il cui finale è tutt’altro che scritto.
Questo movimento d’opinione, infatti, non assomiglia tanto all’Uomo qualunque perché richiama piuttosto altri fenomeni tipici della stagnazione. L’odierna speranza degli italiani, diffusa quanto giustificatamente impaziente, che la politica abbia un sussulto assomiglia piuttosto a quella che proruppe nel primo referendum Segni. Oggi come allora, e dopo tante attese deluse, la sfiducia nella classe politica è alta, le invettive dei guitti altisonanti e la sordità del Palazzo preoccupante. Eppure, oggi come allora, il senso critico con cui la società contesta l’andazzo politico è degno del massimo rispetto, perché a esprimerlo è un Paese che paga ogni giorno un prezzo molto alto per coltivare la comune appartenenza a una società umana, una nazione, uno stato.
Si pone, dunque, il problema di interpretare con sapienza questo sentimento critico, ma ancora costruttivo, degli italiani senza indulgere al nichilismo dei guitti. L’ex presidente Ciampi, quando lo invita a fondare un partito, sa bene che Grillo non ha né gli strumenti né la voglia di intraprendere una simile strada. E sa che, se la sua è una risposta antisistemica, non deve necessariamente diventarlo quella di chi, applaudendolo, mostra il desiderio di dare un’anima nuova al Paese. A questi italiani guarda Napolitano quando ammonisce i politici a far meno passerella in tv e si può ben dire che il capo dello Stato invochi una politica nuova per un Paese che è cambiato più in fretta dei suoi leader. Gli italiani, infatti, non vanno contromano in autostrada.
Paolo Viana, su Avvenire di oggi
Una risata vi seppellirà: il vecchio tormentone è l’incubo peggiore dei politici, e Beppe Grillo lo impersona alla perfezione. Da che mondo è mondo, il potere si regge sulla tradizione, sulla legge e sul carisma, e la classe politica italiana ha dei problemi con tutti e tre. Orfana della prima Repubblica e in perenne attesa della terza, oscilla spericolatamente tra condoni e indulti, s’indigna se un terrorista, dopo 26 anni di latitanza, viene arrestato, insulta chi è stato ucciso dalle Br, chiede il trasferimento dei magistrati scomodi, caccia i finanzieri che non obbediscono
ai ministri e quando s’avvede che i cittadini non ne possono più dello "stile italiano" si traveste da Rudolph Giuliani. Ma nella New York della tolleranza zero i governatori che vanno contromano
in autostrada finiscono dentro, mica cercano di fare i furbi fingendosi parlamentari, e quelli che lo sono non dirottano le autoambulanze per andarsene a spasso.
L’impopolarità bipartisan della nostra classe politica, da cui scaturisce il fenomeno Grillo, non apparirebbe tanto maiuscola se l’Italia non fosse così clamorosamente migliore di chi la rappresenta. Quel che i politici sembrano scordare, e ciò li porta a sottovalutare le "grillate", è che gli italiani non vivono sull’Isola dei famosi ma tirano ugualmente la cinghia; senza attendersi alcun premio si sono caricati in spalla l’euro e il deficit pubblico e ora accettano di lavorare più dei loro padri "soltanto" per pesare un po’ meno sui propri figli.
Questi cittadini sanno bene che le invettive di Grillo sono di pancia e che difficilmente quel che passa per la pancia arriva alla testa, ma una sapienza antica non deve essere scambiata per
dabbenaggine. Il comico-tribuno è il catalizzatore di un pensiero fortemente critico nei confronti del sistema politico e questo orientamento preesisteva al V-Day. Grillo, grande animale da
palcoscenico, l’ha fiutato, braccato, azzannato. Enfatizzato. La vera sorpresa di questi giorni - purtroppo, tardano ad avvedersene proprio i politici - è che i trecentomila e più che applaudono Grillo e i moltissimi cittadini che, pur non amando il comico, condividono la stessa inquietudine di fondo, sono i veri protagonisti di una commedia il cui finale è tutt’altro che scritto.
Questo movimento d’opinione, infatti, non assomiglia tanto all’Uomo qualunque perché richiama piuttosto altri fenomeni tipici della stagnazione. L’odierna speranza degli italiani, diffusa quanto giustificatamente impaziente, che la politica abbia un sussulto assomiglia piuttosto a quella che proruppe nel primo referendum Segni. Oggi come allora, e dopo tante attese deluse, la sfiducia nella classe politica è alta, le invettive dei guitti altisonanti e la sordità del Palazzo preoccupante. Eppure, oggi come allora, il senso critico con cui la società contesta l’andazzo politico è degno del massimo rispetto, perché a esprimerlo è un Paese che paga ogni giorno un prezzo molto alto per coltivare la comune appartenenza a una società umana, una nazione, uno stato.
Si pone, dunque, il problema di interpretare con sapienza questo sentimento critico, ma ancora costruttivo, degli italiani senza indulgere al nichilismo dei guitti. L’ex presidente Ciampi, quando lo invita a fondare un partito, sa bene che Grillo non ha né gli strumenti né la voglia di intraprendere una simile strada. E sa che, se la sua è una risposta antisistemica, non deve necessariamente diventarlo quella di chi, applaudendolo, mostra il desiderio di dare un’anima nuova al Paese. A questi italiani guarda Napolitano quando ammonisce i politici a far meno passerella in tv e si può ben dire che il capo dello Stato invochi una politica nuova per un Paese che è cambiato più in fretta dei suoi leader. Gli italiani, infatti, non vanno contromano in autostrada.
Paolo Viana, su Avvenire di oggi
19 settembre 2007
Il paese dei Pulcinella
In questo paese allo sfascio, governato dalla peggiore coalizione del dopoguerra e con l'opposizione più farlocca della storia, a portare un raggio di speranza è arrivato un ex-comico, tale Beppe Grillo, ora blogger professionista, pseudo difensore dei diritti degli oppressi. Per non sembrare al popolo un alieno ha intitolato le sue oceaniche adunate di piazza "Vaffa.. day", indirizzando il suo perentorio invito al governo, all'eterno nemico Berlusconi, ai deputati, ai burocrati, ai nullafacenti d'Italia. Tutte genie che erano là sotto il palco ad applaudirlo freneticamente ed a chiamarlo uomo della provvidenza. E' successo dieci giorni fa e già la sinistra ne ha fatto un possibile alleato, le voci contrarie lo demonizzano ma con il timore di essere le prime vittime della sua rivoluzione. Il babà Veltroni non ha ancora detto la sua banalità, ma quando aprirà le labbra, ispirato, ci sarà sicuramente da rotolarsi per terra. Naturalmente in questa operazione di deificazione-demonizzazione nessuno si chiede da dove venga questo obeso quasi sessantenne che odia i settantenni, come abbia costruito il suo impero economico, quali ombre (e che ombre!) macchino la sua bella vita di intemerato ambientalista, di italiano puro al servizio permanente della verità e dell'onestà fiscale. Ma non disperiamo. Se fonderà un partito, se disturberà il potere e la sinistra di governo, se raccoglierà troppi voti, il suo giudice a Berlino è già pronto ad intervenire.
17 settembre 2007
Il Sindaco
Gattuso conquista la Spagna
El Pais lo intervista, ma soprattutto cancella un'etichetta: quella dell'atleta tipico del calcio italiano brutto e senza classe. Il rossonero parla a ruota libera: di se stesso, del Milan e di una gaffe sulla Regina...
MADRID (Spagna), 17 settembre 2007 - In Spagna Rino Gattuso viene costantemente citato come modello del calcio italiano: duro, ruvido, brutto da vedere, senza classe. Viene trattato male, Rino, malissimo. Come la serie A, la nostra Nazionale, i nostri club (salvo qualche eccezione per il Milan). Tifosi e commentatori locali soffrono terribilmente a veder l'Italia vincere, e se la prendono con lui, uomo-immagine di un calcio speculativo, barbaro. Dopo tanti anni di trionfi con il Milan e la Nazionale, il centrocampista viene ancora chiamato 'Gatusso', evidentemente l'invidia e il pregiudizio condizionano anche lo spelling. Ma, come nel suo stile, Gattuso si sta lentamente prendendo la rivincita: la sua tenacia, il suo persistere al fianco di giocatori stimati anche in Spagna come Kakà, Pirlo e Seedorf, stanno facendo breccia nei cuori dei puristi spagnoli. Giovedì scorso El Pais è andato a inte rvistarlo. Il colloquio è stato pubblicato oggi, con un titolo che non ha bisogno di traduzione, "Tengo dentro un animal".
LA TECNICA - Un'intervista franca, aperta, divertente, con tante domande sulle scarse qualità tecniche del giocatore calabrese, che però non si scompone. Anzi, stoppa l'avversario e rilancia: "A volte mi guardo i piedi e penso: 'Maledetti, mai che mi diate una gioia...'. Ad Ancelotti glielo dico sempre: 'Immagina se avessi i piedi buoni, non sapremmo dove mettere le coppe...'. C'è gente come Kakà che nasce fenomeno e gente come me che deve costruirsi, lavorare con passione, passione e ancora passione".
GATTUSO - "Io non sono cambiato. Il mercato fa sì che io guadagni in un mese ciò che mio padre ha guadagnato in una vita, ma l'unica differenza rispetto a quando ho cominciato è nel conto corrente bancario. La mia anima e la voglia di giocare sono rimaste identiche".
I GIOVANI E I VALORI - I ragazzi sono cambiati tantissimo. Prima a 13-14 anni il problema principale era trovarsi una fidanzata. Ora cercano solo lo sballo. C'era anche allora gente così, ma erano una minoranza. Il divertimento era giocare a calcio sulla spiaggia tutto il giorno e poi tornare la sera per vedere se si riusciva a organizzare un'altra partitella. Oggi tutto questo non esiste più, nell'Italia meridionale non c'è più una società con dei valori, non c'è rispetto".
IL MILAN - La chiave è lo spogliatoio, non ci sono grandi segreti. Quando vedi uno come Maldini che a 39 anni fa di tutto per recuperare e giocare una finale di Champions, che lavora come un matto, che sputa sangue e sudore... Solo un idiota non capirebbe che è un esempio per tutti. Seedorf ha vinto 4 Champions con tre squadre differenti, ma l'ho visto piangere d'emozione dopo la semifinale con il Manchester. Ti rendi conto che in questo club ci sono valori importanti. Il Milan ha il suo Dna, glielo ha dato Berlusconi. È una squadra che anche quando ha problemi trova le motivazioni per far bene. Ha dei codici che non si possono infrangere. All'inizio, quando facevo il furbo con arbitri o avversari, mi convocarono in sede per dirmi di controllarmi: stavo indossando la maglia del Milan e non potevo permettermi di fare casini".
L'IDEA DI FUGA - "Sì, dopo la finale di Istanbul avevo pensato di andarmene. Pensavo non ci fossero motivi per restare. È stato il momento più duro della mia carriera, però il club mi ha fatto cambiare idea".
LA SCOZIA - "Continuo a ringraziare mio padre per avermi aiutato a prendere la decisione di andare a Glasgow. Da solo non riuscivo a farlo, ma per rispetto alla mia famiglia, che guadagnava 800 euro al mese, non potevo rifiutare un contratto da 1 milione di euro. Poi lì ho imparato tante cose. Sono arrivato che conoscevo solo i cattolici e mi sono dovuto confrontare con la realtà protestante del club. Un giorno come un imbecille ho chiesto chi era la signora la cui foto adornava la parete dello spogliatoio. Tutti a ridere: era la Regina".
Da Gazzetta.it di oggi
Il caro Ivan Gennaro non è un artista del pallone alla Pirlo, che disegna magiche traettorie di 40 metri o alla Kakà, fantasista travolgente. Gliene manca la fantasia, la classe pura, lo scatto prolungato. Ma è la quintessenza del calciatore di centrocampo: duro, infaticabile, coraggioso, leale, mai brutale con gli avversari. Dove c'è pericolo, lui è lì a tamponare, a soccorrere il compagno, a fare il gioco di contenimento asfissiante. Quando si rovescia l'azione è lui ad avviarla, a cercare gli spazi per proporre un triangolo, un dai-e-vai. Quando c'è da sfondare in attacco, c'è lui dietro le prime linee a creare diversivi sulle fasce, a recuperare palloni sporchi, a rilanciare in the box.
E' un uomo di grandi valori morali. Non ha mai ferito un avversario. Spaventato sì, con la sua irruenza, la grinta da antico guerriero dell'Aspromonte.
In una squadra come il Milan di oggi, fatta di asettici professionisti, troppo educati, troppo disincantati, con l'anima pallida, è il cuore che pulsa, quello che non ci sta mai a perdere, quello che esalta e si esalta invocando l'appoggio del pubblico a muso duro.
Per un vecchio milanista deluso è la ragione ed il motivo per cui resta la voglia di alzarsi dalla poltrona e continuare ad andare sugli spalti di San Siro.
Lunga gloria a te, Ivan Gennaro!
El Pais lo intervista, ma soprattutto cancella un'etichetta: quella dell'atleta tipico del calcio italiano brutto e senza classe. Il rossonero parla a ruota libera: di se stesso, del Milan e di una gaffe sulla Regina...
MADRID (Spagna), 17 settembre 2007 - In Spagna Rino Gattuso viene costantemente citato come modello del calcio italiano: duro, ruvido, brutto da vedere, senza classe. Viene trattato male, Rino, malissimo. Come la serie A, la nostra Nazionale, i nostri club (salvo qualche eccezione per il Milan). Tifosi e commentatori locali soffrono terribilmente a veder l'Italia vincere, e se la prendono con lui, uomo-immagine di un calcio speculativo, barbaro. Dopo tanti anni di trionfi con il Milan e la Nazionale, il centrocampista viene ancora chiamato 'Gatusso', evidentemente l'invidia e il pregiudizio condizionano anche lo spelling. Ma, come nel suo stile, Gattuso si sta lentamente prendendo la rivincita: la sua tenacia, il suo persistere al fianco di giocatori stimati anche in Spagna come Kakà, Pirlo e Seedorf, stanno facendo breccia nei cuori dei puristi spagnoli. Giovedì scorso El Pais è andato a inte rvistarlo. Il colloquio è stato pubblicato oggi, con un titolo che non ha bisogno di traduzione, "Tengo dentro un animal".
LA TECNICA - Un'intervista franca, aperta, divertente, con tante domande sulle scarse qualità tecniche del giocatore calabrese, che però non si scompone. Anzi, stoppa l'avversario e rilancia: "A volte mi guardo i piedi e penso: 'Maledetti, mai che mi diate una gioia...'. Ad Ancelotti glielo dico sempre: 'Immagina se avessi i piedi buoni, non sapremmo dove mettere le coppe...'. C'è gente come Kakà che nasce fenomeno e gente come me che deve costruirsi, lavorare con passione, passione e ancora passione".
GATTUSO - "Io non sono cambiato. Il mercato fa sì che io guadagni in un mese ciò che mio padre ha guadagnato in una vita, ma l'unica differenza rispetto a quando ho cominciato è nel conto corrente bancario. La mia anima e la voglia di giocare sono rimaste identiche".
I GIOVANI E I VALORI - I ragazzi sono cambiati tantissimo. Prima a 13-14 anni il problema principale era trovarsi una fidanzata. Ora cercano solo lo sballo. C'era anche allora gente così, ma erano una minoranza. Il divertimento era giocare a calcio sulla spiaggia tutto il giorno e poi tornare la sera per vedere se si riusciva a organizzare un'altra partitella. Oggi tutto questo non esiste più, nell'Italia meridionale non c'è più una società con dei valori, non c'è rispetto".
IL MILAN - La chiave è lo spogliatoio, non ci sono grandi segreti. Quando vedi uno come Maldini che a 39 anni fa di tutto per recuperare e giocare una finale di Champions, che lavora come un matto, che sputa sangue e sudore... Solo un idiota non capirebbe che è un esempio per tutti. Seedorf ha vinto 4 Champions con tre squadre differenti, ma l'ho visto piangere d'emozione dopo la semifinale con il Manchester. Ti rendi conto che in questo club ci sono valori importanti. Il Milan ha il suo Dna, glielo ha dato Berlusconi. È una squadra che anche quando ha problemi trova le motivazioni per far bene. Ha dei codici che non si possono infrangere. All'inizio, quando facevo il furbo con arbitri o avversari, mi convocarono in sede per dirmi di controllarmi: stavo indossando la maglia del Milan e non potevo permettermi di fare casini".
L'IDEA DI FUGA - "Sì, dopo la finale di Istanbul avevo pensato di andarmene. Pensavo non ci fossero motivi per restare. È stato il momento più duro della mia carriera, però il club mi ha fatto cambiare idea".
LA SCOZIA - "Continuo a ringraziare mio padre per avermi aiutato a prendere la decisione di andare a Glasgow. Da solo non riuscivo a farlo, ma per rispetto alla mia famiglia, che guadagnava 800 euro al mese, non potevo rifiutare un contratto da 1 milione di euro. Poi lì ho imparato tante cose. Sono arrivato che conoscevo solo i cattolici e mi sono dovuto confrontare con la realtà protestante del club. Un giorno come un imbecille ho chiesto chi era la signora la cui foto adornava la parete dello spogliatoio. Tutti a ridere: era la Regina".
Da Gazzetta.it di oggi
Il caro Ivan Gennaro non è un artista del pallone alla Pirlo, che disegna magiche traettorie di 40 metri o alla Kakà, fantasista travolgente. Gliene manca la fantasia, la classe pura, lo scatto prolungato. Ma è la quintessenza del calciatore di centrocampo: duro, infaticabile, coraggioso, leale, mai brutale con gli avversari. Dove c'è pericolo, lui è lì a tamponare, a soccorrere il compagno, a fare il gioco di contenimento asfissiante. Quando si rovescia l'azione è lui ad avviarla, a cercare gli spazi per proporre un triangolo, un dai-e-vai. Quando c'è da sfondare in attacco, c'è lui dietro le prime linee a creare diversivi sulle fasce, a recuperare palloni sporchi, a rilanciare in the box.
E' un uomo di grandi valori morali. Non ha mai ferito un avversario. Spaventato sì, con la sua irruenza, la grinta da antico guerriero dell'Aspromonte.
In una squadra come il Milan di oggi, fatta di asettici professionisti, troppo educati, troppo disincantati, con l'anima pallida, è il cuore che pulsa, quello che non ci sta mai a perdere, quello che esalta e si esalta invocando l'appoggio del pubblico a muso duro.
Per un vecchio milanista deluso è la ragione ed il motivo per cui resta la voglia di alzarsi dalla poltrona e continuare ad andare sugli spalti di San Siro.
Lunga gloria a te, Ivan Gennaro!
05 settembre 2007
Ben ritrovati
Sono sbarcato a Linate ieri sera tardi ed ho ritrovato il mio contesto certamente da riordinare dopo molti giorni di assenza.
Avevo anche nostalgia di questo diario elettronico e dei pochi e cari amici che lo leggono. Ho scoperto che banzai ha intrapreso un'avventura che, ad una frettolosa prima lettura, appare fascinosa.
Ho ritrovato un antipasto di freddo del nord, la casella piena di posta pubblicitaria (che brutto segnale del degrado dei tempi!), il piazzale del parcheggio stracolmo.
Occorrerà poco per riabituarsi alla normalità.
Vengo dalla Sicilia occidentale, da giornate calde, da mari incontaminati, da sorprendenti incontri con un'umanità bella e fantasiosa. Dal cuore del Sud, nei raffronti la città terrona era frequentemente Milano.
Spero di avere il tempo di parlarne, di ripensare al nostro universo di luoghi comuni.
Avevo anche nostalgia di questo diario elettronico e dei pochi e cari amici che lo leggono. Ho scoperto che banzai ha intrapreso un'avventura che, ad una frettolosa prima lettura, appare fascinosa.
Ho ritrovato un antipasto di freddo del nord, la casella piena di posta pubblicitaria (che brutto segnale del degrado dei tempi!), il piazzale del parcheggio stracolmo.
Occorrerà poco per riabituarsi alla normalità.
Vengo dalla Sicilia occidentale, da giornate calde, da mari incontaminati, da sorprendenti incontri con un'umanità bella e fantasiosa. Dal cuore del Sud, nei raffronti la città terrona era frequentemente Milano.
Spero di avere il tempo di parlarne, di ripensare al nostro universo di luoghi comuni.
10 agosto 2007
Petrolieri democratici
Al direttore - Moratti che compra l’Unità? Avrà nostalgia dei bidoni.
Maurizio Crippa, su Il Foglio di oggi
Maurizio Crippa, su Il Foglio di oggi
02 agosto 2007
Facce di bronzo
Al direttore - Il Getty Museum ci restituirà 40 capolavori. In cambio, potremmo dargli le facce di bronzo dell’Udc.
Maurizio Crippa, su Il Foglio di oggi
Maurizio Crippa, su Il Foglio di oggi
Duri e puri
Ci piace, a parte che era doverosa, la solidarietà fulminea giunta all’Antonio Bassolino messo sotto inchiesta per truffa ai danni dello stato dopo la famosa invasione dei rifiuti. Ci piace, sopra tutto, la pronta e sperticata fiducia manifestata al governatore da Fassino e da D’Alema. Ci piacciono le loro parole: “Chiunque lo conosca non può avere alcun dubbio sulla dedizione personale, il rigore amministrativo, il senso delle istituzioni che hanno sempre ispirato la sua azione politica”. Ci piace ancor di più la frase dopo: “La sua onestà non può essere messa in discussione neanche dagli avversari”. Ci piace questa idea di non poter mettere nemmeno in discussione l’onestà di Bassolino. Ci piace. Ci piace pensare che questi post-neo-tardo-ex comunisti siano rimasti onesti, disinteressati, generosi, lontani da qualsiasi interesse personale, da qualsiasi tornaconto ed egoismo. Come un tempo. Ma sopra ogni altra cosa, ci piace la conclusione che da quanto sopra detto viene fuori, vale a dire che smerdassero Napoli così, per il puro piacere di smerdarla.
Andrea's Version, su Il Foglio di oggi
Andrea's Version, su Il Foglio di oggi
31 luglio 2007
Estate 2007
L'estate è fatta per una indolente inerzia. Il caldo opprime di giorno, asfissia di notte. La mente rallenta le sue funzioni, l'afflosciamento generale rende tollerabile tutto, anche una ordinaria edizione serale del Tg5. A tale proposito, sembra opportuno sottolineare che il cambio di direttore ha reso il prodotto ancora più schifoso. Il minutaggio delle disgrazie, morti ammazzati, terronamenti vari dalle regioni del sud, è passato da 15 a 25 minuti. L'unico momento di requie sono i grafici delle previsioni del tempo.
Poi finalmente, che sollievo, arriva la pubblicità.
Questa è una stagione di silenzio anche per la politica. Almeno, lo era ai tempi della mitica Balena Bianca, quando erano consentite solo esilaranti interviste sotto l'ombrellone a politici rintronati dal sole.
Nell'era Prodi, lo scannamento tra alleati continua truce e violento anche in agosto.
Più si insultano, più si è certi che non romperanno mai.
Lo stato sociale, le pensioni, Alitalia (a quando il fallimento?), la finanziaria. Tutti polveroni per il loro pubblico pagante mentre l'opposizione sbadiglia su spiagge italiche o esotiche, salvo qualche arrapato dell'Udc che esagera con l'amore a pagamento.
Ma la più divertente è la competizione per il duce massimo del Partito Democratico.
Dopo ameba-Veltroni, sono comparse alcune ballerine di terza fila di matrice Pipi ed una sgallettata disperata come la Bindi.
Ma non basta.
Al gioco volevano partecipare anche Pannella e Di Pietro.
Candidature rifiutate.
Motivazione?
Quella del compagno Ricucci.
Sono capaci tutti di fare i froci con il culo degli altri.
Poi finalmente, che sollievo, arriva la pubblicità.
Questa è una stagione di silenzio anche per la politica. Almeno, lo era ai tempi della mitica Balena Bianca, quando erano consentite solo esilaranti interviste sotto l'ombrellone a politici rintronati dal sole.
Nell'era Prodi, lo scannamento tra alleati continua truce e violento anche in agosto.
Più si insultano, più si è certi che non romperanno mai.
Lo stato sociale, le pensioni, Alitalia (a quando il fallimento?), la finanziaria. Tutti polveroni per il loro pubblico pagante mentre l'opposizione sbadiglia su spiagge italiche o esotiche, salvo qualche arrapato dell'Udc che esagera con l'amore a pagamento.
Ma la più divertente è la competizione per il duce massimo del Partito Democratico.
Dopo ameba-Veltroni, sono comparse alcune ballerine di terza fila di matrice Pipi ed una sgallettata disperata come la Bindi.
Ma non basta.
Al gioco volevano partecipare anche Pannella e Di Pietro.
Candidature rifiutate.
Motivazione?
Quella del compagno Ricucci.
Sono capaci tutti di fare i froci con il culo degli altri.
09 luglio 2007
El nost Milan: Porta Vittoria
Più o meno cinquantanni indietro, le porte disegnavano i confini di Milano-città.
Oltre erano sobborghi come la Bovisa o Città Studi, o addirittura paesi autonomi come Lambrate, Niguarda, Musocco.
Uno, prima di essere milanese, era di una porta.
Io sono nato e vissuto sino all'età del matrimonio a Porta Vittoria. I miei confini naturali erano il centro, Porta Romana, Monforte. L'Idroscalo era un'entità astratta oltre i tre ponti di Viale Corsica.
Altrove si andava solo per trovare i parenti nelle feste comandate. Mi ricordo che quando una zia materna si trasferì da Via Moriggi ad un nuovo quartiere sul Fulvio Testi, vicino alla fabbrica del marito alla Bicocca, ne pianse per mesi. Cosa ho fatto di male per abbandonare Milano, diceva a mia madre durante le frequenti telefonate.
Avevo un altro pro-zio che abitava alla Baia del Re, in Via Neera. Allora un quartiere dell'estrema periferia, circondato da orti e campetti di calcio.
Avevano edificato case popolari per gli operai della Stipel, dove costui lavorava.
Andarci costava un'intera domenica, e comportava due tram ed un buon tratto a piedi. Era come un paesone e si parlava un meneghino diverso. Un po' arioso, diceva mia madre.
Se ci ripassate oggi è tutto come allora, ad eccezione del dialetto: il terron-maghrebino dei commerci in droga che si svolgono alla luce del sole, delle scritte sulle mura delle case, brutte come allora ma senza quella pulita dignità dei quartieri poveri della Milano Anni Cinquanta.
Io vivevo, come detto, a Porta Vittoria in Via Piceno, nell'area del vecchio ortomercato.
Una specie di Halles di provincia, invasa da carrettini a trazione elettrica per il trasporto delle merci, vociante e rumorosa sin dalle sei del mattino, l'ora del risveglio inesorabile e delle prime saracche di mio padre, prima che una napoletana di caffè non lo riconciliasse con l'ineluttabile realtà di una nuova giornata lavorativa.
L'orto era talmente condizionante che, a mia memoria, non ho mai visto mio padre uscire di casa per l'ufficio dopo le 7. Nei non rari momenti di litigio, mia madre gli rinfacciava di andare in banca, in Via Mazzini, a "sollevare le saracinesche". Sta di fatto che alle 7, io e mio fratello eravamo pronti per andare a scuola e mia madre era già alle prese con i lavori di casa.
Dove abitavo era brutto e caotico. Inoltre, a differenza di altre porte, era infestato - come dicevano i miei - da commercianti di frutta e verdura che venivano dal sud e qui si mettevano in pensione o, i più fortunati, si compravano casa. Spesso si facevano una seconda famiglia, come d'abitudine per tutti gli emigranti.
Almeno tre volte, per quanto ricordo, questi nodi familiari vennero risolti a pistolettate.
Ho ancora vivido nella memoria un pomeriggio estivo torrido, io sul balcone a giocare e cinque colpi secchi, in sequenza, in fondo alla strada. In casa non si amava commentare davanti ai bambini questi fattacci, ma il mazzo di fiori deposto contro un fusto del terrapieno di Viale Piceno mi chiarì di non avere udito un gioco di petardi ma vissuto le sequenze di un omicidio.
Questa era la mia Porta Vittoria che, cento metri più in là , verso il centro, diventava in Corso XXII Marzo un quartiere persino bello, alberato ai lati, con una profonda prospettiva sull'obelisco delle Cinque Giornate. Lì finiva la porta e cominciava il Corso di Porta Vittoria che ormai era centro, con i moderni e lussuosi palazzi che stavano sostituendo i disastri dei bombardamenti.
Da casa mia al Duomo si poteva arrivare a piedi in venti minuti; leggendo il giornale, in trenta minuti con una consumata tecnica dell'alternativo scrutamento del marciapiedi e lettura di un pezzo di articolo. Il quotidiano, il Corriere, me lo compravo con i soldi del tram risparmiati andando a piedi.
Non ho particolarmente amato il mio quartiere. L'eterogeneità della popolazione non favoriva le amicizie, né, per la verità, la mia famiglia era portata a un'intensa vita sociale. Ma ai miei genitori - come lo capisco ora - le sue vie, i negozi, la vicinanza con il centro dovevano essere entrati nel sangue perché lì vissero l'intera loro vita senza mai sentire lo stimolo di andarsene verso i quartieri di periferia. Cambiarono, tutti insieme, tre appartamenti, ma con l'arco di un compasso la diagonale che li congiungeva non avrebbe superato i cento metri.
Oltre erano sobborghi come la Bovisa o Città Studi, o addirittura paesi autonomi come Lambrate, Niguarda, Musocco.
Uno, prima di essere milanese, era di una porta.
Io sono nato e vissuto sino all'età del matrimonio a Porta Vittoria. I miei confini naturali erano il centro, Porta Romana, Monforte. L'Idroscalo era un'entità astratta oltre i tre ponti di Viale Corsica.
Altrove si andava solo per trovare i parenti nelle feste comandate. Mi ricordo che quando una zia materna si trasferì da Via Moriggi ad un nuovo quartiere sul Fulvio Testi, vicino alla fabbrica del marito alla Bicocca, ne pianse per mesi. Cosa ho fatto di male per abbandonare Milano, diceva a mia madre durante le frequenti telefonate.
Avevo un altro pro-zio che abitava alla Baia del Re, in Via Neera. Allora un quartiere dell'estrema periferia, circondato da orti e campetti di calcio.
Avevano edificato case popolari per gli operai della Stipel, dove costui lavorava.
Andarci costava un'intera domenica, e comportava due tram ed un buon tratto a piedi. Era come un paesone e si parlava un meneghino diverso. Un po' arioso, diceva mia madre.
Se ci ripassate oggi è tutto come allora, ad eccezione del dialetto: il terron-maghrebino dei commerci in droga che si svolgono alla luce del sole, delle scritte sulle mura delle case, brutte come allora ma senza quella pulita dignità dei quartieri poveri della Milano Anni Cinquanta.
Io vivevo, come detto, a Porta Vittoria in Via Piceno, nell'area del vecchio ortomercato.
Una specie di Halles di provincia, invasa da carrettini a trazione elettrica per il trasporto delle merci, vociante e rumorosa sin dalle sei del mattino, l'ora del risveglio inesorabile e delle prime saracche di mio padre, prima che una napoletana di caffè non lo riconciliasse con l'ineluttabile realtà di una nuova giornata lavorativa.
L'orto era talmente condizionante che, a mia memoria, non ho mai visto mio padre uscire di casa per l'ufficio dopo le 7. Nei non rari momenti di litigio, mia madre gli rinfacciava di andare in banca, in Via Mazzini, a "sollevare le saracinesche". Sta di fatto che alle 7, io e mio fratello eravamo pronti per andare a scuola e mia madre era già alle prese con i lavori di casa.
Dove abitavo era brutto e caotico. Inoltre, a differenza di altre porte, era infestato - come dicevano i miei - da commercianti di frutta e verdura che venivano dal sud e qui si mettevano in pensione o, i più fortunati, si compravano casa. Spesso si facevano una seconda famiglia, come d'abitudine per tutti gli emigranti.
Almeno tre volte, per quanto ricordo, questi nodi familiari vennero risolti a pistolettate.
Ho ancora vivido nella memoria un pomeriggio estivo torrido, io sul balcone a giocare e cinque colpi secchi, in sequenza, in fondo alla strada. In casa non si amava commentare davanti ai bambini questi fattacci, ma il mazzo di fiori deposto contro un fusto del terrapieno di Viale Piceno mi chiarì di non avere udito un gioco di petardi ma vissuto le sequenze di un omicidio.
Questa era la mia Porta Vittoria che, cento metri più in là , verso il centro, diventava in Corso XXII Marzo un quartiere persino bello, alberato ai lati, con una profonda prospettiva sull'obelisco delle Cinque Giornate. Lì finiva la porta e cominciava il Corso di Porta Vittoria che ormai era centro, con i moderni e lussuosi palazzi che stavano sostituendo i disastri dei bombardamenti.
Da casa mia al Duomo si poteva arrivare a piedi in venti minuti; leggendo il giornale, in trenta minuti con una consumata tecnica dell'alternativo scrutamento del marciapiedi e lettura di un pezzo di articolo. Il quotidiano, il Corriere, me lo compravo con i soldi del tram risparmiati andando a piedi.
Non ho particolarmente amato il mio quartiere. L'eterogeneità della popolazione non favoriva le amicizie, né, per la verità, la mia famiglia era portata a un'intensa vita sociale. Ma ai miei genitori - come lo capisco ora - le sue vie, i negozi, la vicinanza con il centro dovevano essere entrati nel sangue perché lì vissero l'intera loro vita senza mai sentire lo stimolo di andarsene verso i quartieri di periferia. Cambiarono, tutti insieme, tre appartamenti, ma con l'arco di un compasso la diagonale che li congiungeva non avrebbe superato i cento metri.
Giovani depressi ma anche sfaticati
Vorrei fare una domanda semplice-semplice ai giovani: ma siete nati stanchi? Vi osservo tutti i giorni in metropolitana, e sono sempre tentato di offrirvi una delle compresse di Ginseng che porto con me, poiché io - come voi - sono stanco, ma questo si spiega, avendo superato di quattro anni il mezzo secolo d'età, sostenuto quattro concorsi statali, servito la Patria come militare, scritto undici libri e centinaia di articoli, girato l'Europa per lavoro eccetera. Ah, dimenticavo il meglio: dovendo convivere con l'artrosi cervicale, l'artrosi lombo-sacrale e la sciatica, che si fanno sentire soprattutto in metropolitana, quando - all'inpiedi - devo sostenermi agli «appositi appigli» posti in alto, costretto ad osservarvi. Voi ve ne state seduti (anzi accasciati), stanchi di una pesantissima vacuità quotidiana, per dirla con Veneziani, sfiancati dal peso di giornate totalmente inutili, di esistenze non legate a nessuna causa, a nessuna buona battaglia, a nessuna speranza. Davanti a voi è il vecchierel canuto e bianco, reso curvo dai suoi anni; la massaia carica di buste della spesa; la donna incinta; persino il cieco, sorretto dal badante. E voi fingete di non vederli. Fingete, nel migliore dei casi. Nel peggiore (che poi è il più frequente) li guardate in faccia e non battete ciglio. Avete le cuffie nelle orecchie per ascoltare la vostra musicaccia, sostenete in grembo la fidanzata con la quale vi baciate e mordicchiate ad ogni momento, o vi spidocchiate a turno, come le scimmie che si osservano allo zoo. Perché mai dovreste cedere il posto a qualcuno? Siete giovani, studenti e innamorati: caso mai è l'anziano che deve cedere il posto a voi, specie se siete disoccupati. Uno o due anni fa, presentai un mio libro in alcune scuole superiori di Rovigo; chi sa che non incontrai uno di quei campioni che hanno percosso il crocifisso, al grido di: «Finiscilo, finiscilo!». L'insegnante di una di quelle scuole mi disse: «Maestro, qui ci sono problemi opposti a quelli che vivono i suoi studenti. Non c'è lavoro nero, non c'è la casa sgarrupata, ma sono tutti annoiati. Per vincere questa noia violentano ragazze, torturano disabili, allagano le scuole, buttano sassi dai cavalcavia. La buona parte di questi ragazzi è viziata, la buona parte fa uso di droga. Non conoscono il sacrificio, vogliono tutto e subito». Poveri giovani, in pensione ancor prima di lavorare. Chissà che un paio di ceffoni bene assestati non li svegli dal loro torpore esistenziale.
Marcello D’Orta, su Il Giornale di oggi
Marcello D’Orta, su Il Giornale di oggi
06 luglio 2007
El nost Milan
Il solito rompicoglioni, direte.
Sbagliando, perché Jannacci è sì un rompicoglioni, ma insolito. Così insolito da sembrare unico nel panorama della canzone italiana. Viste ai suoi concerti persone non anziane commuoversi per canzoni che hanno quarantanni sul groppone, ho deciso che aveva ragione lui, prima cosa, e poi che canta meglio adesso di quarantanni fa, seconda. Ha più voce, quando si decide a tirarla fuori e non indulge al recitato, talvolta necessario (sentite le due parti di quel gioiello che è "La costruzione"). Ha più consapevolezza del ruolo, il soldato Jannacci. Non è un pirla, sa fare di conto. A difendere la sua trincea (la sua gente) sono sempre di meno. Qualcuno è morto, amen, ma tanti sono passati dall'altra parte. Le scarpe da tennis le portano anche i ricchi, non è più solo roba da barboni. Oggi per andare all'Idroscalo il barbone salirebbe su un Suv, ma per molti ci vogliono sempre due tram per arrivare in piazza del Duomo, e l'avvenire resta un buco nero in fondo al tram per i ragazzi obbligati alla precarietà, con un presente magro e un futuro vago. Il meglio di Jannacci è quasi sempre il peggio di Milano, della fatica di vivere, dell'umiliazione di sopravvivere, del non avere voce, ed è qui che arriva lui ("Ohé sun chì") con l'allegria del naufragato che è poi la totale serietà del clown, del saltimbanco, del medicastro e del poetastro. La sua voce (questa è una sensazione mia) ha più forza in quanto consapevole di esprimersi per conto di altre voci, quelle che non ci arrivano perché siamo distratti o di fretta, o perché partono da troppo distante (a Milano il troppo distante è anche mezzo metro, tenerne conto) e poi si sa che la vita lè bela, che la ruota gira (sì, ma sempre dalla stessa parte) o perché si è deciso (da qualche altra parte, in alto) che non contano. Se non contano, tanto meno raccontano o cantano. Più o meno è da mezzo secolo che l'inveterato ma pur sempre insolito Jannacci rompe i coglioni raccontando e cantando. E vogliamo tenercelo caro, come tutti i mammiferi in via d'estinzione, perché senza metterla giù tanto dura sta facendo canzoni politiche da una vita. Più musicista di tanti, stimabili, degli ex Dischi del Sole. Più padrone della scena (da quando ha i capelli bianchi). Ma sempre controtendenza, contro vento. Contro. Non sto parlando di un guerrigliero al pianoforte, ma semplicemente di un uomo che si guarda intorno senza paraocchi e paraorecchi. Perché ci vuole orecchio, ma non solo.
Questo doppio cd [Enzo Jannacci - The Best], tutte le canzoni riarrangiate da quel mostro di Paolino J, comprende alcuni inediti, un "Bartali" messo in piedi dall'Avvocato e dal Dottore (una versione sbilenca, per divertirsi, a mezza via tra il salmodiare dei frati e l'asincronia degli ubriachi) e, cosa che vale un grazie sentito da parte mia, "Dona che te durmivet", amara canzone protofemminista, con la sorpresa della traduzione in italiano. Che non sciupa l'atmosfera della latteria (quante ce n'erano, quante ne sono sparite), ma continuo a pensare che manasc suoni meglio di grosse mani e, come studioso dei testi jannacciani, mi tocca rilevare che per motivi metrici i cinque anni d'amore (tant el ghè pu) sono diventati tre. Non importa, inscì vèghen si dice a Milano.
A questo punto, può risultare superfluo chiedersi perché Jannacci rompa i coglioni da mezzo secolo. Non so lui, che comincerebbe a parlare di arterie e valvole, ma io una risposta ce l'ho. Perché ha intuito allora (adesso ne è certo) che questa è la strada più breve per arrivare al cuore.
(Gianni Mura)
Sono mesi che mi intriga l'idea di parlare di Milano a più voci, da più angoli generazionali. Lo spunto decisivo me lo dà questo bell'articolo di Mura su Jannacci: un'icona della mia gioventù, uno della scuola del Derby, uno di quella sinistra che capiva ed interpretava il popolo delle periferie e delle fabbriche e che non giocava con le bombe. La Milano del socialismo democratico, dei Tognoli, degli Aniasi, del Milan con le grandi righe verticali e del calcio non ancora violentato dai soldi di Moratti padre. La Milano dove passavi da Corso di Porta Vittoria senza provare cupe angosce, quattro volte al giorno perché l'intervallo di lavoro era di due ore. La Milano delle grandi nebbie, del nerofumo sulla 500 parcheggiata in strada, dei terroni ghettizzati nelle nuove periferie dei quartieri Iacp. Di questi ricordi vorrei parlare e sentire le testimonianze dei meno giovani, ognuno con il proprio frammento di memoria e dei giovani che condividono queste vie, queste mura, ma non i medesimi riti ambrosiani.
Un caldo invito a scrivere.
Danielone
Sbagliando, perché Jannacci è sì un rompicoglioni, ma insolito. Così insolito da sembrare unico nel panorama della canzone italiana. Viste ai suoi concerti persone non anziane commuoversi per canzoni che hanno quarantanni sul groppone, ho deciso che aveva ragione lui, prima cosa, e poi che canta meglio adesso di quarantanni fa, seconda. Ha più voce, quando si decide a tirarla fuori e non indulge al recitato, talvolta necessario (sentite le due parti di quel gioiello che è "La costruzione"). Ha più consapevolezza del ruolo, il soldato Jannacci. Non è un pirla, sa fare di conto. A difendere la sua trincea (la sua gente) sono sempre di meno. Qualcuno è morto, amen, ma tanti sono passati dall'altra parte. Le scarpe da tennis le portano anche i ricchi, non è più solo roba da barboni. Oggi per andare all'Idroscalo il barbone salirebbe su un Suv, ma per molti ci vogliono sempre due tram per arrivare in piazza del Duomo, e l'avvenire resta un buco nero in fondo al tram per i ragazzi obbligati alla precarietà, con un presente magro e un futuro vago. Il meglio di Jannacci è quasi sempre il peggio di Milano, della fatica di vivere, dell'umiliazione di sopravvivere, del non avere voce, ed è qui che arriva lui ("Ohé sun chì") con l'allegria del naufragato che è poi la totale serietà del clown, del saltimbanco, del medicastro e del poetastro. La sua voce (questa è una sensazione mia) ha più forza in quanto consapevole di esprimersi per conto di altre voci, quelle che non ci arrivano perché siamo distratti o di fretta, o perché partono da troppo distante (a Milano il troppo distante è anche mezzo metro, tenerne conto) e poi si sa che la vita lè bela, che la ruota gira (sì, ma sempre dalla stessa parte) o perché si è deciso (da qualche altra parte, in alto) che non contano. Se non contano, tanto meno raccontano o cantano. Più o meno è da mezzo secolo che l'inveterato ma pur sempre insolito Jannacci rompe i coglioni raccontando e cantando. E vogliamo tenercelo caro, come tutti i mammiferi in via d'estinzione, perché senza metterla giù tanto dura sta facendo canzoni politiche da una vita. Più musicista di tanti, stimabili, degli ex Dischi del Sole. Più padrone della scena (da quando ha i capelli bianchi). Ma sempre controtendenza, contro vento. Contro. Non sto parlando di un guerrigliero al pianoforte, ma semplicemente di un uomo che si guarda intorno senza paraocchi e paraorecchi. Perché ci vuole orecchio, ma non solo.
Questo doppio cd [Enzo Jannacci - The Best], tutte le canzoni riarrangiate da quel mostro di Paolino J, comprende alcuni inediti, un "Bartali" messo in piedi dall'Avvocato e dal Dottore (una versione sbilenca, per divertirsi, a mezza via tra il salmodiare dei frati e l'asincronia degli ubriachi) e, cosa che vale un grazie sentito da parte mia, "Dona che te durmivet", amara canzone protofemminista, con la sorpresa della traduzione in italiano. Che non sciupa l'atmosfera della latteria (quante ce n'erano, quante ne sono sparite), ma continuo a pensare che manasc suoni meglio di grosse mani e, come studioso dei testi jannacciani, mi tocca rilevare che per motivi metrici i cinque anni d'amore (tant el ghè pu) sono diventati tre. Non importa, inscì vèghen si dice a Milano.
A questo punto, può risultare superfluo chiedersi perché Jannacci rompa i coglioni da mezzo secolo. Non so lui, che comincerebbe a parlare di arterie e valvole, ma io una risposta ce l'ho. Perché ha intuito allora (adesso ne è certo) che questa è la strada più breve per arrivare al cuore.
(Gianni Mura)
Sono mesi che mi intriga l'idea di parlare di Milano a più voci, da più angoli generazionali. Lo spunto decisivo me lo dà questo bell'articolo di Mura su Jannacci: un'icona della mia gioventù, uno della scuola del Derby, uno di quella sinistra che capiva ed interpretava il popolo delle periferie e delle fabbriche e che non giocava con le bombe. La Milano del socialismo democratico, dei Tognoli, degli Aniasi, del Milan con le grandi righe verticali e del calcio non ancora violentato dai soldi di Moratti padre. La Milano dove passavi da Corso di Porta Vittoria senza provare cupe angosce, quattro volte al giorno perché l'intervallo di lavoro era di due ore. La Milano delle grandi nebbie, del nerofumo sulla 500 parcheggiata in strada, dei terroni ghettizzati nelle nuove periferie dei quartieri Iacp. Di questi ricordi vorrei parlare e sentire le testimonianze dei meno giovani, ognuno con il proprio frammento di memoria e dei giovani che condividono queste vie, queste mura, ma non i medesimi riti ambrosiani.
Un caldo invito a scrivere.
Danielone
Bpm il giorno dopo
Finita la relazione sadomaso con Bper, si è aperta la stagione dei rendiconti. Mazzotta, Vitale si sono affrettati a dichiarare che loro rispondono solo all'assemblea che li ha eletti. Gli avversari-maggioranza cercano il chiavistello giuridico che li costringa ad andarsene. La banca si appresta a trascorrere una fresca estate di marasma strategico.
Il bipartitismo cialtrone
Berlusconi, capo dell'opposizione, ha dichiarato che quando il capo del governo Prodi parla dice stronzate. Prodi ha replicato che Berlusconi è agitato perché ha poco da vivere.
Giganti della politica, maestri dell'umanesimo del terzo millennio.
Giganti della politica, maestri dell'umanesimo del terzo millennio.
28 giugno 2007
Niente lacrime per lo stop a Bpm-Bper
Non si sorprendano i lettori se LiberoMercato non si unisce ai lamenti per le mancate nozze fra la Popolare di Milano e la Bper. Né alla reprimenda contro i dipendenti-soci della Bpm che hanno dato man forte ad affossarle. Le fusioni si fanno se vi è convenienza. Di mezzo ci sono i soldi (il concambio) e potere (la governance); e l'uno e l'altro pendevano a favore degli emiliani. Logica vuole che se uno paga bene, pretende anche di comandare. E alla fine la reazione della Borsa(+5,8% per Bpm, meno 0,8% per Bper) dice di più delle dietrologie sui sindacati. Se ieri, nel corso di una turbolenta seduta in cui è stato scambiato quasi il 9% del capitale, il titolo Bpm è salito fin oltre il 7,5% (mentre Bper è arrivata a perdere il 2,5%) un motivo ci sarà. La spiegazione che rimanda ad un'Opa ostile spiega poco o niente alla luce del quadro normativo vigente. La verità, che gli analisti finanziari più attenti hanno colto, è che il deal Bpm-Bper, così come congegnato nell'accordo-quadro del 20 maggio, non era granché. Passi per quel concambio 1,76 azioni Bpm contro una Bper, ampiamente sbilanciato a favore degli emiliani. Ma che dire della governance? Barocca è il complimento migliore che si può fare, dominata dall'ossessione di impedire che una parte prevalesse sull'altra: ingessata da quorum deliberativi elevatissimi, in assemblea straordinaria come in cda e nei comitati. Senza considerare la ripartizione dei poteri a livello di direzione generale, premessa di una ingovernabilità che a sua volta è l'anticamera dell'insuccesso di una fusione.
Certo, il piano industriale era un buon piano: ma alle condizioni pattuite, gli azionisti della Milano avevano ben poco da guadagnarci (i corsi borsistici dell'ultimo mese lo provano). D'altra parte, se il governatore Mario Draghi e la Vigilanza avevano espresso più d'una perplessità qualche motivo ci sarà. Ridurre il voto del consiglio di amministrazione della Bpm ad un regolamento di conti fra l'azionista di riferimento (i soci-dipendenti, la loro associazione o i sindacati che dir si voglia) e il presidente Roberto Mazzotta, è una semplificazione che non tiene conto della realtà. Nel cda di martedì sera si sono espressi contro l'accordo 11 amministratori su un totale di 19 presenti, tre erano gli astenuti e cinque i favorevoli. Di questi ultimi - a parte Mazzotta e il vicepresidente Marco Vitale -due sono stati eletti nell'ambito della lista dei dipendenti in pensione. Fra i consiglieri per così dire di provenienza esterna, uno ha votato contro, l'altro si è astenuto. E tra gli astenuti c'è stato pure Jean Jacques Tamburini, rappresentante degli alleati francesi. Tanto basta per dire che la tesi del condizionamento"bulgaro" dei sindacati non sta in piedi.
A Mazzotta va riconosciuto l'onore delle armi per l'impegno profuso ma va anche detto che, nell'ansia di chiudere l'operazione ad ogni costo, è rimasto senza esercito. Una sconfitta per il banchiere-Mosè che ha preconizzato la Superpopolare senza ottenerla. È stato ingenuo pensare che l'enfasi del salto dimensionale potesse indurre i dipendenti-soci a rinunciare a quanto conquistato in un secolo di storia. Finché potranno (cioè finché la banca avrà clienti e utili a sufficienza, e non interverranno stravolgimenti dall'alto), i dipendenti faranno al più qualche concessione, come è successo - merito anche di Mazzotta - negli ultimi cinque anni. Quando non sarà più possibile, venderanno al miglior offerente.
Semmai, questa vicenda, come quella della riforma legislativa che galleggia in Parlamento, dimostra ancora una volta che quando si parte con il piede sbagliato, pensando di aggiustare surrettiziamente le cose in corsa, si finisce per deragliare.
di Lorenzo Dilena, su LiberoMercato
Una ricostruzione puntuale ed acuta. Un invito a leggere per quelli che credono che solo il Corrierone degli onesti, avulso da interessi di qualsivoglia natura, sappia rappresentare la realtà con verità critica.
Certo, il piano industriale era un buon piano: ma alle condizioni pattuite, gli azionisti della Milano avevano ben poco da guadagnarci (i corsi borsistici dell'ultimo mese lo provano). D'altra parte, se il governatore Mario Draghi e la Vigilanza avevano espresso più d'una perplessità qualche motivo ci sarà. Ridurre il voto del consiglio di amministrazione della Bpm ad un regolamento di conti fra l'azionista di riferimento (i soci-dipendenti, la loro associazione o i sindacati che dir si voglia) e il presidente Roberto Mazzotta, è una semplificazione che non tiene conto della realtà. Nel cda di martedì sera si sono espressi contro l'accordo 11 amministratori su un totale di 19 presenti, tre erano gli astenuti e cinque i favorevoli. Di questi ultimi - a parte Mazzotta e il vicepresidente Marco Vitale -due sono stati eletti nell'ambito della lista dei dipendenti in pensione. Fra i consiglieri per così dire di provenienza esterna, uno ha votato contro, l'altro si è astenuto. E tra gli astenuti c'è stato pure Jean Jacques Tamburini, rappresentante degli alleati francesi. Tanto basta per dire che la tesi del condizionamento"bulgaro" dei sindacati non sta in piedi.
A Mazzotta va riconosciuto l'onore delle armi per l'impegno profuso ma va anche detto che, nell'ansia di chiudere l'operazione ad ogni costo, è rimasto senza esercito. Una sconfitta per il banchiere-Mosè che ha preconizzato la Superpopolare senza ottenerla. È stato ingenuo pensare che l'enfasi del salto dimensionale potesse indurre i dipendenti-soci a rinunciare a quanto conquistato in un secolo di storia. Finché potranno (cioè finché la banca avrà clienti e utili a sufficienza, e non interverranno stravolgimenti dall'alto), i dipendenti faranno al più qualche concessione, come è successo - merito anche di Mazzotta - negli ultimi cinque anni. Quando non sarà più possibile, venderanno al miglior offerente.
Semmai, questa vicenda, come quella della riforma legislativa che galleggia in Parlamento, dimostra ancora una volta che quando si parte con il piede sbagliato, pensando di aggiustare surrettiziamente le cose in corsa, si finisce per deragliare.
di Lorenzo Dilena, su LiberoMercato
Una ricostruzione puntuale ed acuta. Un invito a leggere per quelli che credono che solo il Corrierone degli onesti, avulso da interessi di qualsivoglia natura, sappia rappresentare la realtà con verità critica.
27 giugno 2007
Il futuro che verrà (segue)
Consigli per W
Va bene, come dice W., che “bisogna lanciare lo sguardo il più lontano possibile”, ma neanche tanto lontano, sennò il circondario ti porta a fondo. W. si dia un’occhiata intorno e metta mano,
al più presto, a una tipica caratteristica della sinistra italiana: il suo farsi antipatica, scassaballe, saputella. E’ una faccenda che sta tra la fisiognomica e l’ormonale: una volta arrivati al potere, chi più chi meno, prendono tutti la faccia di Visco. Allungano lo sguardo sospettoso, scrutano come scienziati un orizzonte di soli insetti, rispondono sgradevolmente come fossero chini sulle sorti del mondo. Certi cazzoni di sottosegretari, le cui funzioni sono ignote anche in famiglia (ce ne sono oltre cento, manco abbondassero gli idraulici), vagano altezzosi spacciandosi per Winston Churchill. Se il Cav. fa (e strafà) di tutto per piacere, è il caso di rispondere cercando, strategicamente, di fare di tutto per stare sui coglioni?
da Il Foglio di oggi.
Va bene, come dice W., che “bisogna lanciare lo sguardo il più lontano possibile”, ma neanche tanto lontano, sennò il circondario ti porta a fondo. W. si dia un’occhiata intorno e metta mano,
al più presto, a una tipica caratteristica della sinistra italiana: il suo farsi antipatica, scassaballe, saputella. E’ una faccenda che sta tra la fisiognomica e l’ormonale: una volta arrivati al potere, chi più chi meno, prendono tutti la faccia di Visco. Allungano lo sguardo sospettoso, scrutano come scienziati un orizzonte di soli insetti, rispondono sgradevolmente come fossero chini sulle sorti del mondo. Certi cazzoni di sottosegretari, le cui funzioni sono ignote anche in famiglia (ce ne sono oltre cento, manco abbondassero gli idraulici), vagano altezzosi spacciandosi per Winston Churchill. Se il Cav. fa (e strafà) di tutto per piacere, è il caso di rispondere cercando, strategicamente, di fare di tutto per stare sui coglioni?
da Il Foglio di oggi.
Il futuro che verrà
Noi, che abbiamo letto come con Veltroni il Partito democratico potrebbe passare dal 23/25 per cento al 35/36, perché la zona che oscilla tra i Poli pesa il 14 per cento. Noi che abbiamo letto come il 23/25 di oggi sia formato dal 18/19 di elettori di Ds e Margherita, dal 2 per cento di “altri partiti” e dal 3 di indecisi o astenuti, e come il potenziale apporto di Walter potrebbe assommare un +5 di elettori della coalizione di centrosinistra che attualmente non voterebbero Margherita o Ds, un +1 della coalizione di centrodestra, un +2 di altri diessini o della Margherita stessa e un +3 di astenuti/indecisi, così da arrivare a quel +11 che sarebbe il totale potenziale dell’apporto personale di Walter al Partito democratico, che passerebbe appunto dal suddetto 23/25 al suddetto 35/36. Noi, dicevamo, non abbiamo nessuna difficoltà a riconoscere in Renato Mannheimer, l’uomo strapagato per farsi le pippe, il nostro perfetto modello di vita.
Andrea's Version, sul Foglio di oggi.
Andrea's Version, sul Foglio di oggi.
Stop alla ipotizzata Banca delle Regioni
Dopo un lungo e drammatico consiglio d'amministrazione, la maggioranza del board ha detto no alla fusione con la Popolare dell'Emilia. È l'epilogo stupefacente di una trattativa che sembrava volgere verso una conclusione positiva, cementata da modifiche statutarie suggerite da Banchitalia.
Alla stretta finale sono invece tornati in superficie tutti i variegati motivi di dissenso, fatti di volta in volta propri dalle sigle sindacali maggioritarie e dalla Cisl, che nella fase finale è stato l'autentico volano che ha cementato il fronte del dissenso.
Le ragioni di fondo del no vanno equamente ripartite fra la dilagante sfiducia verso la capacità di conduzione dell'operazione da parte del presidente Mazzotta ed il disagio per un accordo che, complessivamente, vedeva la Bpm comprimaria nella nuova società.
La responsabilità del rifiuto se la sono messa sulle spalle i gruppi di opinione storicamente maggioritari e protagonisti del consenso assembleare della cooperativa milanese.
Questa vicenda, trascinatasi per mesi, ha assunto connotazioni molto strane, sempre più avulse dai canoni tipici delle operazioni di merger.
Messo in soffitta il piano industriale, assente una due diligence che aprisse squarci di comprensibilità sull'articolazione piuttosto oscura delle partecipazione di Bper, tutto si è concentrato su un modello di governance autoreferenziale per il consiglio e su uno statuto trasparente come una deliberazione dell'Onu.
Banchitalia, di proprio, ha aggiunto una richiesta di agibilità assembleare che ha suscitato giuste ed allarmate preoccupazioni.
Con queste coordinate è stupefacente come Mazzotta, capace di una innegabile abilità manovriera, avesse in pugno la vittoria sino all'89mo!
Ora cosa succederà?
La Borsa oggi ha già dato una sua rozza risposta. Bpm torna preda e cresce quasi in doppia cifra. Bper, sebbene in un mercato secondario, perde vistosamente.
I risvolti economico-politici sono di ben altro spessore e su questi ci ripromettiamo di tornare con più tranquilla ponderazione.
Alla stretta finale sono invece tornati in superficie tutti i variegati motivi di dissenso, fatti di volta in volta propri dalle sigle sindacali maggioritarie e dalla Cisl, che nella fase finale è stato l'autentico volano che ha cementato il fronte del dissenso.
Le ragioni di fondo del no vanno equamente ripartite fra la dilagante sfiducia verso la capacità di conduzione dell'operazione da parte del presidente Mazzotta ed il disagio per un accordo che, complessivamente, vedeva la Bpm comprimaria nella nuova società.
La responsabilità del rifiuto se la sono messa sulle spalle i gruppi di opinione storicamente maggioritari e protagonisti del consenso assembleare della cooperativa milanese.
Questa vicenda, trascinatasi per mesi, ha assunto connotazioni molto strane, sempre più avulse dai canoni tipici delle operazioni di merger.
Messo in soffitta il piano industriale, assente una due diligence che aprisse squarci di comprensibilità sull'articolazione piuttosto oscura delle partecipazione di Bper, tutto si è concentrato su un modello di governance autoreferenziale per il consiglio e su uno statuto trasparente come una deliberazione dell'Onu.
Banchitalia, di proprio, ha aggiunto una richiesta di agibilità assembleare che ha suscitato giuste ed allarmate preoccupazioni.
Con queste coordinate è stupefacente come Mazzotta, capace di una innegabile abilità manovriera, avesse in pugno la vittoria sino all'89mo!
Ora cosa succederà?
La Borsa oggi ha già dato una sua rozza risposta. Bpm torna preda e cresce quasi in doppia cifra. Bper, sebbene in un mercato secondario, perde vistosamente.
I risvolti economico-politici sono di ben altro spessore e su questi ci ripromettiamo di tornare con più tranquilla ponderazione.
18 giugno 2007
Mamma li Turchi
Al congresso storiografico di Nizza, un esimio cattedrattico di Torino ha dimostrato con ragionevole certezza che gli Etruschi provenivano dal territorio turco, precisamente dall'Anatolia.
Sono state effettuate prove del DNA su abitanti del meraviglioso paese di Murlo, ritenuto, come una navicella sopravvissuta all'Oceano del tempo, un insediamento di purissima ed intonsa origine etrusca.
Murlo è adagiato sui rilievi delle crete senesi fra Buonconvento e Montalcino, e vi si respira la quieta beatitudine dei borghi senesi. Visitarlo ed innamorarsene è un tutt'uno.
Ora questa storia delle origini turche è un pò inquietante e pone domande non prive di fascino.
Le ferocia delle genti senesi, oltre alla loro innegabile ottusità politica, è frutto dei padri fondatori o del rimescolamento razziale che tremila anni di storia hanno certamente indotto?
Passare dal capoluogo nei giorni del palio fa pensare ai feroci Saladini, ma frequentare gli stupendi abitanti di quella terra, così ricchi di secolare cultura, fa convincere che i germi della follia li abbiano instillati dei barbari nordici attratti dal paesaggio e dal clima, in epoche in cui gli extracomunitari erano figli della steppa e non maghrebini.
La notizia è però curiosa e stimolante, e potrebbe rivalutare il contributo essenziale degli asiatici alle origini della civiltà europea.
Ordunque, non esitiamo oltre nell'ammettere la moderna Turchia alla Comunità Europea. Ne hanno più titoli di tutti. Prima di Enea, sono i nostri padri!
Sono state effettuate prove del DNA su abitanti del meraviglioso paese di Murlo, ritenuto, come una navicella sopravvissuta all'Oceano del tempo, un insediamento di purissima ed intonsa origine etrusca.
Murlo è adagiato sui rilievi delle crete senesi fra Buonconvento e Montalcino, e vi si respira la quieta beatitudine dei borghi senesi. Visitarlo ed innamorarsene è un tutt'uno.
Ora questa storia delle origini turche è un pò inquietante e pone domande non prive di fascino.
Le ferocia delle genti senesi, oltre alla loro innegabile ottusità politica, è frutto dei padri fondatori o del rimescolamento razziale che tremila anni di storia hanno certamente indotto?
Passare dal capoluogo nei giorni del palio fa pensare ai feroci Saladini, ma frequentare gli stupendi abitanti di quella terra, così ricchi di secolare cultura, fa convincere che i germi della follia li abbiano instillati dei barbari nordici attratti dal paesaggio e dal clima, in epoche in cui gli extracomunitari erano figli della steppa e non maghrebini.
La notizia è però curiosa e stimolante, e potrebbe rivalutare il contributo essenziale degli asiatici alle origini della civiltà europea.
Ordunque, non esitiamo oltre nell'ammettere la moderna Turchia alla Comunità Europea. Ne hanno più titoli di tutti. Prima di Enea, sono i nostri padri!
17 giugno 2007
Ho letto Simonetta Agnello Hornby
Intrigato dalle splendide critiche all'opera prima La melunnara, sono cascato nel tam-tam pubblicitario di Boccamurata, terza fatica dell'autrice, nata a Palermo ma di cultura anglofona. Infatti descrive una Sicilia altoborghese con il tono fra l'incantato e lo schifato della zitellona isterica inglese, che dopo una settimana nell'isola suppone di avere capito le diversità etniche degli isolani, ivi comprese le loro stupefacenti attitudini sessuali.
Ho smesso, mentalmente disidratato, a pag.103 ed all'autrice ho immediatamente applicato l'etichetta di solita stronza.
Se qualcuno più resistente e paziente mi vorrà convincere di avere compiuto una nefandezza, sono pronto, per ravvedimento operoso, a riprendere da pag. 1o4.
Ho smesso, mentalmente disidratato, a pag.103 ed all'autrice ho immediatamente applicato l'etichetta di solita stronza.
Se qualcuno più resistente e paziente mi vorrà convincere di avere compiuto una nefandezza, sono pronto, per ravvedimento operoso, a riprendere da pag. 1o4.
Il ventre molle dell'Europa
La vita politica della nostra penisola ci ha riservato in questo fine settimana queste chicche.
Dichiarazione delirante di Berlusconi: il ricambio al governo si fa con un bel regicidio. Il Cav. era accusato di essere fermo a Stalin. Non è vero. E' in vorticoso movimento. Ora è a Monza nel 1901.
Dichiarazioni di D'Alema: La magistratura italiana è come un sulk libanese. Motivo? Ha applicato alle intercettazioni che lo riguardavano l'aurea legge Violante. Il segreto istruttorio vale solo per i difensori degli imputati che, se lo desiderano, possono leggersi tutto l'indispensabile sul Corriere degli Onesti e sul quotidiano dei republicones. Per gli imputati di sinistra rivolgersi a Belpietro del Giornale. Perché il velista si incazza? Chi semina vento...
Festival e sfilata degli anormali a Roma. Prodi gorgoglia che non vuole ministri che partecipino all'equivoca manifestazione. Tre di loro se ne fottono, e presenziano per comunicare il patrocinio governativo allo storico evento. Però, poiché fa caldo, non seguono il corteo anche se almeno due di loro avrebbero tutto il diritto di esserne protagonisti. Notato fra i travestiti ameba Boselli sproloquiare sulla laicità. Ma dico io!
Dini, toh chi si rivede!, forse di ritorno dal Centro America?, dichiara che se continueranno a prevalere i dictat economici della sinistra radicale, loro voteranno contro il DPEF. Loro chi? La Margherita, una parte di essa? Gianni Rivera e Lambertov? L'Italia freme in attesa della soluzione della misteriosa minaccia.
Il tesoretto? Tutti i partner governativi ne vogliono un uso diverso ed alternativo, ma qualcuno teme che lo Schioppa lo abbia fatto sparire nel frattempo.
Che ne dite? In Sud America, anche per uno solo di questi eventi, i militari avrebbero già portato a termine sabato sera un colpo di stato. Già, ma in Italia i generali li nominano i partiti...
Dichiarazione delirante di Berlusconi: il ricambio al governo si fa con un bel regicidio. Il Cav. era accusato di essere fermo a Stalin. Non è vero. E' in vorticoso movimento. Ora è a Monza nel 1901.
Dichiarazioni di D'Alema: La magistratura italiana è come un sulk libanese. Motivo? Ha applicato alle intercettazioni che lo riguardavano l'aurea legge Violante. Il segreto istruttorio vale solo per i difensori degli imputati che, se lo desiderano, possono leggersi tutto l'indispensabile sul Corriere degli Onesti e sul quotidiano dei republicones. Per gli imputati di sinistra rivolgersi a Belpietro del Giornale. Perché il velista si incazza? Chi semina vento...
Festival e sfilata degli anormali a Roma. Prodi gorgoglia che non vuole ministri che partecipino all'equivoca manifestazione. Tre di loro se ne fottono, e presenziano per comunicare il patrocinio governativo allo storico evento. Però, poiché fa caldo, non seguono il corteo anche se almeno due di loro avrebbero tutto il diritto di esserne protagonisti. Notato fra i travestiti ameba Boselli sproloquiare sulla laicità. Ma dico io!
Dini, toh chi si rivede!, forse di ritorno dal Centro America?, dichiara che se continueranno a prevalere i dictat economici della sinistra radicale, loro voteranno contro il DPEF. Loro chi? La Margherita, una parte di essa? Gianni Rivera e Lambertov? L'Italia freme in attesa della soluzione della misteriosa minaccia.
Il tesoretto? Tutti i partner governativi ne vogliono un uso diverso ed alternativo, ma qualcuno teme che lo Schioppa lo abbia fatto sparire nel frattempo.
Che ne dite? In Sud America, anche per uno solo di questi eventi, i militari avrebbero già portato a termine sabato sera un colpo di stato. Già, ma in Italia i generali li nominano i partiti...
Ho letto Berselli
L'autore politicamente mi fa venire l'orticaria. Redattore di Repubblica ed Espresso, con irrefrenabili atteggiamenti da girotondino.
Ha però una virtù innegabile. Sa fare della satira con stile educato e cognitivo.
L'assunto di questa sua opera è che la letteratura contemporanea italiana soffre di asfissia e di asservimento ai capricci degli editori.
Questa teoria, non lontana dalla realtà, si materializza in uno schema applicabile inesorabilmente ad ogni letterato. Si nasce osannati giovani promesse, ma solo in casi rarissimi il bozzolo fa fuoruscire la meravigliosa farfalla del venerato maestro. Per la moltitudine è solo questione di tempo. Seconda o terza opera che sia, ed ecco scattare la mannaia dell'etichetta definitiva: solito stronzo.
Allla terribile cartina tornasole sono passati tutti gli oracoli della cultura italiana, da Benigni a Baricco, da Fò ad Eco, sino ai maitre à penser Mieli e Ferrara.
Il giochino regge magnificamente, salvo qualche accentuazione snobistica e spruzzate di settarismo sinistrorso, però sopportabile.
Lo suggerisco a chi cerca stimoli di riflessione e vuole sfuggire alla critica finanziata dalle case editrici (titolo: Venerati maestri).
Ha però una virtù innegabile. Sa fare della satira con stile educato e cognitivo.
L'assunto di questa sua opera è che la letteratura contemporanea italiana soffre di asfissia e di asservimento ai capricci degli editori.
Questa teoria, non lontana dalla realtà, si materializza in uno schema applicabile inesorabilmente ad ogni letterato. Si nasce osannati giovani promesse, ma solo in casi rarissimi il bozzolo fa fuoruscire la meravigliosa farfalla del venerato maestro. Per la moltitudine è solo questione di tempo. Seconda o terza opera che sia, ed ecco scattare la mannaia dell'etichetta definitiva: solito stronzo.
Allla terribile cartina tornasole sono passati tutti gli oracoli della cultura italiana, da Benigni a Baricco, da Fò ad Eco, sino ai maitre à penser Mieli e Ferrara.
Il giochino regge magnificamente, salvo qualche accentuazione snobistica e spruzzate di settarismo sinistrorso, però sopportabile.
Lo suggerisco a chi cerca stimoli di riflessione e vuole sfuggire alla critica finanziata dalle case editrici (titolo: Venerati maestri).
13 giugno 2007
Binari paralleli (segue)
Moralisti senza morale
C’era da immaginarselo. Di fronte alle telefonate di D’Alema e Fassino col capo di Unipol, da cui emerge un «rapporto molto intimo e del tutto improprio» per dirla col direttore di Repubblica, i vertici della Quercia hanno scelto la linea di difesa apocalittica: invitare i militanti alla vigilanza democratica e lanciare l’allarme golpe. Così sperano di farla franca e di evitare imbarazzanti spiegazioni circa l’intreccio d’affari che li vede protagonisti.Del resto gli ex comunisti si considerano i migliori, i più democratici, anzi: l’essenza stessa della democrazia. Dunque, tutto ciò che li mette in difficoltà non può che essere una manovra antidemocratica. Avendo per anni confuso lo Stato con il proprio partito, gli ex pci ritengono che qualsiasi critica nei loro confronti sia «un’aggressione che mira a indebolire lo Stato di diritto», così come hanno sostenuto ieri. La difesa, come dicevamo, era prevedibile e già vista. Quando in piena Tangentopoli girò voce che i magistrati di Milano volessero mettere il naso anche nei conti dell’allora Pds, Achille Occhetto adottò la stessa tecnica: «Se mi arriva un avviso di garanzia è un golpe». Per D’Alema e compagni l’informazione giudiziaria è democratica solo quando colpisce l’avversario politico, sia che si tratti di un dc, di un socialista o di Berlusconi. Se tocca la sinistra è eversiva. Il partito che fu di Berlinguer – il segretario che sollevò la questione morale pur sapendo che il Pci per anni aveva campato coi soldi dell’Unione Sovietica – non può ammettere di avere le mani in pasta con le speculazioni finanziarie e nemmeno può confessare di essere socio di fatto di uno scalatore borsistico. Il partito dei giudici non può neppure lontanamente concepire che proprio quei giudici che per anni ha allevato e fomentato oggi gli si rivoltino contro e chiedano ragione di curiose telefonate, ma anche di vorticosi giri di denaro che ruotano sempre intorno a un solo soggetto: Unipol, la compagnia d’assicurazione delle Coop rosse. Terrorizzati di fare la fine dei socialisti e di essere spazzati via da una nuova ondata giustizialista, i Ds provano a rompere l’isolamento politico in cui sono precipitati, ma gli alleati appaiono freddi e distanti. Non una parola dagli amici della Margherita, qualche parola ma non benevola da Antonio Di Pietro e dalla sinistra radicale. In soccorso dei vertici della Quercia è andato solo un vecchio giudice, il compagno di sempre: l’ex procuratore capo di Milano, Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore ulivista, è giunto a evocare il Sifar, il vecchio servizio segreto degli Anni Sessanta che la sinistra identificava come fonte di ogni nefandezza. «Far uscire ora le intercettazioni», ha spiegato l’ex magistrato, prendendosela con quelli che furono suoi colleghi, «vuol dire volerle usare per la politica». Ma non è più il 1993, quando D’Ambrosio, con un colpo a sorpresa, «prosciolse» il Pds dall’accusa di aver preso tangenti attraverso Primo Greganti. Gli anni sono passati per tutti, anche per l’ex giudice. Che oggi non ha più assi nella manica in grado di mandare assolti i suoi compagni di viaggio.
Maurizio Belpietro, da Il Giornale di oggi.
C’era da immaginarselo. Di fronte alle telefonate di D’Alema e Fassino col capo di Unipol, da cui emerge un «rapporto molto intimo e del tutto improprio» per dirla col direttore di Repubblica, i vertici della Quercia hanno scelto la linea di difesa apocalittica: invitare i militanti alla vigilanza democratica e lanciare l’allarme golpe. Così sperano di farla franca e di evitare imbarazzanti spiegazioni circa l’intreccio d’affari che li vede protagonisti.Del resto gli ex comunisti si considerano i migliori, i più democratici, anzi: l’essenza stessa della democrazia. Dunque, tutto ciò che li mette in difficoltà non può che essere una manovra antidemocratica. Avendo per anni confuso lo Stato con il proprio partito, gli ex pci ritengono che qualsiasi critica nei loro confronti sia «un’aggressione che mira a indebolire lo Stato di diritto», così come hanno sostenuto ieri. La difesa, come dicevamo, era prevedibile e già vista. Quando in piena Tangentopoli girò voce che i magistrati di Milano volessero mettere il naso anche nei conti dell’allora Pds, Achille Occhetto adottò la stessa tecnica: «Se mi arriva un avviso di garanzia è un golpe». Per D’Alema e compagni l’informazione giudiziaria è democratica solo quando colpisce l’avversario politico, sia che si tratti di un dc, di un socialista o di Berlusconi. Se tocca la sinistra è eversiva. Il partito che fu di Berlinguer – il segretario che sollevò la questione morale pur sapendo che il Pci per anni aveva campato coi soldi dell’Unione Sovietica – non può ammettere di avere le mani in pasta con le speculazioni finanziarie e nemmeno può confessare di essere socio di fatto di uno scalatore borsistico. Il partito dei giudici non può neppure lontanamente concepire che proprio quei giudici che per anni ha allevato e fomentato oggi gli si rivoltino contro e chiedano ragione di curiose telefonate, ma anche di vorticosi giri di denaro che ruotano sempre intorno a un solo soggetto: Unipol, la compagnia d’assicurazione delle Coop rosse. Terrorizzati di fare la fine dei socialisti e di essere spazzati via da una nuova ondata giustizialista, i Ds provano a rompere l’isolamento politico in cui sono precipitati, ma gli alleati appaiono freddi e distanti. Non una parola dagli amici della Margherita, qualche parola ma non benevola da Antonio Di Pietro e dalla sinistra radicale. In soccorso dei vertici della Quercia è andato solo un vecchio giudice, il compagno di sempre: l’ex procuratore capo di Milano, Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore ulivista, è giunto a evocare il Sifar, il vecchio servizio segreto degli Anni Sessanta che la sinistra identificava come fonte di ogni nefandezza. «Far uscire ora le intercettazioni», ha spiegato l’ex magistrato, prendendosela con quelli che furono suoi colleghi, «vuol dire volerle usare per la politica». Ma non è più il 1993, quando D’Ambrosio, con un colpo a sorpresa, «prosciolse» il Pds dall’accusa di aver preso tangenti attraverso Primo Greganti. Gli anni sono passati per tutti, anche per l’ex giudice. Che oggi non ha più assi nella manica in grado di mandare assolti i suoi compagni di viaggio.
Maurizio Belpietro, da Il Giornale di oggi.
Binari paralleli
“E’ uno schifo. Li abbiamo difesi troppo, questi magistrati. Ma adesso dobbiamo reagire. E saremmo in uno stato di diritto? Mah! Quello che succede è intollerabile, dopo questo si apre lo spazio a ogni forma di giustizialismo e di barbarie. Nel resto del mondo non accadono cose di questo genere. Il bello è che facciamo le conferenze sulla giustizia fuori dai confini ma dovremmo occuparci di noi, del nostro sistema, perché qui c’è una questione grande come una casa. E non dobbiamo pentirci di niente. Semmai la vicenda è grave dal punto di vista culturale. Tutto il mondo politico parla con imprenditori o uomini della finanza. E’ normale, se trovassero tutti i miei colloqui con industriali italiani ci potrebbero riempire un libro. Siamo in presenza di un circuito mediatico giudiziario illegale, vergognoso, lo ripeto, barbaro. Ma il clima contro il sistema politico è quello che è, e questo andazzo sta prendendo piede...”.
Così disse Massimo D’Alema dalla banlieue di Hammamet.
Andrea's version, da il Foglio di oggi.
Così disse Massimo D’Alema dalla banlieue di Hammamet.
Andrea's version, da il Foglio di oggi.
05 giugno 2007
Ho letto Vitali
Capita di aprire per caso un libro di un autore sconosciuto e scoprire con emozione il riannodarsi del filo della passione che vent'anni fa mi aveva legato ad un grande autore , Piero Chiara.
Andrea Vitali, nato e vivente a Bellano, è un meraviglioso affrescatore di storie ed atmosfere lacustri. Ha la capacità rara di incatenare eventi e personaggi sul fondale di una provincia immobile in superficie ma percorsa da fremiti di vitalità e passione, vissuti con gli istinti e le timidezze della gente lombarda prealpina.
La critica (cfr. Ottaviani sul Giornale del 13 aprile 2007) considera Vitali un artigiano della penna. Quante volte ho letto lo stesso giudizio altezzoso per autori che il tempo ha consacrato di grande spessore, come il mio amato Chiara, ma anche Soldati, Cassola e persino quel genio di Guareschi, che per di più aveva la colpa di essere un dissacrante anticomunista!
E quante volte ho letto osanna per giovani promesse, posssibilmente frequentatrici di terrazze radical-chic romane , puntualmente retrocesse, come scrive Berselli, sin dalla seconda opera nell'inferno dei soliti stronzi.
Vitali è un autore vero, pragmaticamente concreto, forse senza lampi di genio (non diverrà mai un venerato maestro), ma con una capacità narrativa ed espressiva certamente pari, se non superiore, a quella di un'icona contemporanea come Camilleri.
Mi sono letto in poche settimane alcune delle sue opere in commercio con grande godimento, e le consiglio agli amici:
* Il Procuratore
* La Figlia del podestà
* Olive comprese
(tutte per i tipi di Garzanti)
Andrea Vitali, nato e vivente a Bellano, è un meraviglioso affrescatore di storie ed atmosfere lacustri. Ha la capacità rara di incatenare eventi e personaggi sul fondale di una provincia immobile in superficie ma percorsa da fremiti di vitalità e passione, vissuti con gli istinti e le timidezze della gente lombarda prealpina.
La critica (cfr. Ottaviani sul Giornale del 13 aprile 2007) considera Vitali un artigiano della penna. Quante volte ho letto lo stesso giudizio altezzoso per autori che il tempo ha consacrato di grande spessore, come il mio amato Chiara, ma anche Soldati, Cassola e persino quel genio di Guareschi, che per di più aveva la colpa di essere un dissacrante anticomunista!
E quante volte ho letto osanna per giovani promesse, posssibilmente frequentatrici di terrazze radical-chic romane , puntualmente retrocesse, come scrive Berselli, sin dalla seconda opera nell'inferno dei soliti stronzi.
Vitali è un autore vero, pragmaticamente concreto, forse senza lampi di genio (non diverrà mai un venerato maestro), ma con una capacità narrativa ed espressiva certamente pari, se non superiore, a quella di un'icona contemporanea come Camilleri.
Mi sono letto in poche settimane alcune delle sue opere in commercio con grande godimento, e le consiglio agli amici:
* Il Procuratore
* La Figlia del podestà
* Olive comprese
(tutte per i tipi di Garzanti)
03 giugno 2007
A Te che piangi i tuoi morti
Se mi ami non piangere! Se conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo; se potessi vedere e sentire quello che io sento e vedo in questi orizzonti senza fine e in questa luce che tutto investe e penetra, non piangeresti se mi ami!
Sono ormai assorbito dall'incanto di Dio, dalle sue espressioni di infinita bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole e meschine al confronto! Mi è rimasto l'affetto per te, una tenerezza che non hai mai conosciuto! Ci siamo amati e conosciuti nel tempo: ma tutto era allora così fugace e limitato!
Io vivo nella serena e gioiosa attesa del tuo arrivo fra noi: tu pensami così; nelle tue battaglie pensa a questa meravigliosa casa; dove non esiste la morte, e dove ci disseteremo insieme, nel trasporto più intenso e più puro, alla fonte inestinguibile della gioia e dell'amore!
Non piangere più se veramente mi ami!
(S. Agostino)
Che Dio così voglia, amata Anna.
Sono ormai assorbito dall'incanto di Dio, dalle sue espressioni di infinita bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole e meschine al confronto! Mi è rimasto l'affetto per te, una tenerezza che non hai mai conosciuto! Ci siamo amati e conosciuti nel tempo: ma tutto era allora così fugace e limitato!
Io vivo nella serena e gioiosa attesa del tuo arrivo fra noi: tu pensami così; nelle tue battaglie pensa a questa meravigliosa casa; dove non esiste la morte, e dove ci disseteremo insieme, nel trasporto più intenso e più puro, alla fonte inestinguibile della gioia e dell'amore!
Non piangere più se veramente mi ami!
(S. Agostino)
Che Dio così voglia, amata Anna.
27 maggio 2007
Arrivederci al prossimo derby
La vittoria di Atene è stata festeggiata per due giorni con sfilata in pulman scoperto, stile quinta strada, per le vie di una città che di suo non sopporta nemmeno un tram jumbo in panne.
Tutto ha avuto il sapore un po' forzato di una recita a pro dei media e dei teppisti, che hanno approfittato dell'entusiasmo per devastare gli oggetti di addobbo stradale incautamente lasciati lungo il percorso.
A dare ulteriormente pepe a questo mini carnevale carioca ha poi pensato Ambro, esponendo un cartello che in sintesi invitava gli onestoni ad usare lo scudetto come supposta.
La Pravda Rosa ha esecrato, la stampa di sinistra si è sturbata ed ha riempito lenzuolate di stigmatizzazione moraleggiante, il presidente educato ad Oxford ha magnanimamente perdonato non senza lanciare, in caudam, una truce promessa: i miei sgherri non dimenticheranno.
Gattuso, saputolo, ha saggiamente risposto: life is now.
Tutto ha avuto il sapore un po' forzato di una recita a pro dei media e dei teppisti, che hanno approfittato dell'entusiasmo per devastare gli oggetti di addobbo stradale incautamente lasciati lungo il percorso.
A dare ulteriormente pepe a questo mini carnevale carioca ha poi pensato Ambro, esponendo un cartello che in sintesi invitava gli onestoni ad usare lo scudetto come supposta.
La Pravda Rosa ha esecrato, la stampa di sinistra si è sturbata ed ha riempito lenzuolate di stigmatizzazione moraleggiante, il presidente educato ad Oxford ha magnanimamente perdonato non senza lanciare, in caudam, una truce promessa: i miei sgherri non dimenticheranno.
Gattuso, saputolo, ha saggiamente risposto: life is now.
23 maggio 2007
Atene, terra di trionfi!
Maggio, mercoledì 23. Il Milan ha conquistato la sua settima coppa con le orecchie.
Sommando i trofei internazionali, è ora la squadra più titolata nel mondo.
Ha fatto sua la finale con il Liverpool dopo una partita non bella ma tatticamente esemplare, con due stupende perle di Pippo Inzaghi.
Si conclude nel migliore dei modi una stagione agonistica complicata, con più ombre che luci, pesantemente condizionata dalla giustizia federale ispirata dai signori dei telefoni.
Ancelotti ha ottenuto il massimo possibile da un gruppo oggettivamente finito per anagrafe e tenuto a galla dalle meravigliose ispirazioni del giovane fuoriclasse Kaka.
All'allenatore va riconosciuto di avere vinto la scommessa della vittoria nella posta più importante e più improbabile.
La dirigenza ha fatto il possibile per combinare pasticci sin dalla campagna acquisti ed ora si appresta a ripetere nefandezze, anzichè usare il tesoretto della Uefa per acquisti incisivi e decisivi, per rinvigorire un gruppo esausto.
Quelli dell'altra sponda del Naviglio sono sull'orlo di una crisi di nervi e maledicono il loro destino, che non gli permette di godere la vittoria nel campionato degli oratori d'Italia.
Archiviamo una stagione da considerare comunque preziosa e prepariamoci ad un 2008 che i rossoneri giocheranno tutto in chiave internazionale, almeno sino a dicembre (Yokohama).
Per il campionato, poche le speranze di essere protagonisti ma almeno la consolazione che agli indossatori di scudetti altrui penserà la Juve - ben tornata - a turbare i sonni...
Sommando i trofei internazionali, è ora la squadra più titolata nel mondo.
Ha fatto sua la finale con il Liverpool dopo una partita non bella ma tatticamente esemplare, con due stupende perle di Pippo Inzaghi.
Si conclude nel migliore dei modi una stagione agonistica complicata, con più ombre che luci, pesantemente condizionata dalla giustizia federale ispirata dai signori dei telefoni.
Ancelotti ha ottenuto il massimo possibile da un gruppo oggettivamente finito per anagrafe e tenuto a galla dalle meravigliose ispirazioni del giovane fuoriclasse Kaka.
All'allenatore va riconosciuto di avere vinto la scommessa della vittoria nella posta più importante e più improbabile.
La dirigenza ha fatto il possibile per combinare pasticci sin dalla campagna acquisti ed ora si appresta a ripetere nefandezze, anzichè usare il tesoretto della Uefa per acquisti incisivi e decisivi, per rinvigorire un gruppo esausto.
Quelli dell'altra sponda del Naviglio sono sull'orlo di una crisi di nervi e maledicono il loro destino, che non gli permette di godere la vittoria nel campionato degli oratori d'Italia.
Archiviamo una stagione da considerare comunque preziosa e prepariamoci ad un 2008 che i rossoneri giocheranno tutto in chiave internazionale, almeno sino a dicembre (Yokohama).
Per il campionato, poche le speranze di essere protagonisti ma almeno la consolazione che agli indossatori di scudetti altrui penserà la Juve - ben tornata - a turbare i sonni...
20 maggio 2007
Fine di due banche
Per gli strani intrecci del destino oggi finisce la storia societaria di due banche che, per ragioni diverse, hanno significato qualcosa nella storia economica del nostro paese. Capitalia viene incorporata da Unicredit, Banca Popolare di Milano si fonde senza diritti in Banca Popolare dell'Emilia.
Capitalia e le banche in cui si radica (Banca di Roma, Banco di Santo Spirito, Cassa di Risparmio di Roma) sono stati i veicoli privilegiati del potere politico nel quasi cinquantennio di governi democristiani, con ombre preponderanti sulle luci. Spariti gli azionisti di riferimento, hanno cercato inutilmente di rifarsi una verginità politica ma hanno saputo mettere a frutto una collaudata capacità di muoversi nelle stanze del potere. Li ha sopraffatti il nuovo modello dimensionale delle grandi banche e la povertà patrimoniale che si trascinavano dai tempi dell'Iran di Mossadeq. Andranno a stare meglio se si abitueranno ad un clima meno romanocentrico e più aperto al vento dell'Europa.
Anche la Bpm cercava un dimensione che la proponesse ai vertici delle popolari. Alla Bpm cui egualmente facevano difetto i capitali più che le tipicità della governance, si è fatta prendere dall'ansia nubendi ed ha finito per accompagnarsi con una banca della pianura padana rossa, cresciuta dimensionalmente a sportellate sotto il ragno di Fazio che la teneva in amore filiale.
Le ragioni del matrimonio di Capitalia si capiscono, le scelte di Bpm un pò meno specie se i rumors sui contenuti dell’intesa saranno confermati. Ne esce ridimensionata e sostanzialmente gregaria, specie se la nuova aggregazione si chiamerà Banca Popolare delle Regioni.
Bpm nella storia del movimento cooperativo ha scritto pagine importanti, addirittura fondamentali nella storia dell'economia lombarda, innovative e ora adottate da tanti nelle peculiarità della governance per il ruolo dei dipendenti in Assemblea.
Ad un vecchio popolarino questo dissolvimento provoca una tristezza insanabile, ma forse questo è solo l’atto conclusivo di errori ed occasioni mancate negli ultimi decenni.
Però, nella ragione sociale, almeno il glorioso nome di Milano potrebbero salvarlo...
Capitalia e le banche in cui si radica (Banca di Roma, Banco di Santo Spirito, Cassa di Risparmio di Roma) sono stati i veicoli privilegiati del potere politico nel quasi cinquantennio di governi democristiani, con ombre preponderanti sulle luci. Spariti gli azionisti di riferimento, hanno cercato inutilmente di rifarsi una verginità politica ma hanno saputo mettere a frutto una collaudata capacità di muoversi nelle stanze del potere. Li ha sopraffatti il nuovo modello dimensionale delle grandi banche e la povertà patrimoniale che si trascinavano dai tempi dell'Iran di Mossadeq. Andranno a stare meglio se si abitueranno ad un clima meno romanocentrico e più aperto al vento dell'Europa.
Anche la Bpm cercava un dimensione che la proponesse ai vertici delle popolari. Alla Bpm cui egualmente facevano difetto i capitali più che le tipicità della governance, si è fatta prendere dall'ansia nubendi ed ha finito per accompagnarsi con una banca della pianura padana rossa, cresciuta dimensionalmente a sportellate sotto il ragno di Fazio che la teneva in amore filiale.
Le ragioni del matrimonio di Capitalia si capiscono, le scelte di Bpm un pò meno specie se i rumors sui contenuti dell’intesa saranno confermati. Ne esce ridimensionata e sostanzialmente gregaria, specie se la nuova aggregazione si chiamerà Banca Popolare delle Regioni.
Bpm nella storia del movimento cooperativo ha scritto pagine importanti, addirittura fondamentali nella storia dell'economia lombarda, innovative e ora adottate da tanti nelle peculiarità della governance per il ruolo dei dipendenti in Assemblea.
Ad un vecchio popolarino questo dissolvimento provoca una tristezza insanabile, ma forse questo è solo l’atto conclusivo di errori ed occasioni mancate negli ultimi decenni.
Però, nella ragione sociale, almeno il glorioso nome di Milano potrebbero salvarlo...
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